*** La conclusione della Seconda
guerra mondiale ha rappresentato il momento fondamentale per il passaggio dalle
elaborazioni teoriche alla realtà concreta per il diritto internazionale
penale. Invero, già al termine della
Prima guerra mondiale si era parlato di “offese supreme contro la moralità
internazionale e l’autorità sacra dei Trattati” in relazione alle cruente
azioni commesse da Guglielmo II di Germania, ma si dovrà attendere fino alla
conclusione della Seconda guerra mondiale perché incomincino ad emergere beni
giuridici che l’intera umanità avverte come propri, ovvero interessi che
superino i confini di un singolo ordinamento. In seguito ai gravi crimini
commessi durante la guerra (sterminio degli ebrei, deportazioni di massa,
imposizione di lavori forzati…), infatti, la comunità internazionale sentì
l’esigenza di punire i criminali nazisti responsabili di enormi atrocità, in
relazione alle quali per la prima volta si parlò concretamente di crimini
internazionali e di responsabilità degli individui. L’occasione fu offerta dai
processi di Norimberga e Tokio, istituiti proprio con la finalità di condannare
i criminali nazisti, ed i cui Statuti prevedevano tre figure di crimini: i
crimini di guerra, i crimini contro la pace ed i crimini contro l’umanità. A poco più di cinquant’anni dallo svolgimento di quei processi si è
insistentemente ritornati a parlare di crimini internazionali in relazione ai
gravi avvenimenti verificatisi nella ex Jugoslavia ed in Ruanda, Paesi nei
quali in concomitanza con la guerra sono state compiute barbarie tali
(genocidi, pulizie etniche, torture…) da non colpire solamente il singolo Paese
ma l’intera comunità internazionale. La pressante esigenza di non
lasciare impuniti i responsabili di simili azioni ha indotto l’intera umanità
ad interrogarsi sulla necessità di istituire forme di giurisdizione
sopranazionali, posto che l’attribuzione ad organi giurisdizionali interni
della competenza a reprimere tali crimini potrebbe, di fatto, risultare
insoddisfacente per diversi motivi: arretratezza economica, sociale, culturale
della comunità statale; non perfetta indipendenza dei giudicanti – e quindi non
completa imparzialità – rispetto al potere politico, economico o religioso. Tale nuovo orientamento è
stato seguito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il quale al fine
di giudicare i responsabili dei crimini commessi nella ex Jugoslavia e nel
Ruanda ha istituito due Tribunali penali internazionali con una giurisdizione
limitata sia nel tempo che per materia. Massima realizzazione del
diritto internazionale penale sarebbe da un lato, un generale riordinamento
delle fonti (tramite una codificazione) con il pieno recepimento del principio
di legalità; dall’altro, la creazione di una giurisdizione penale
internazionale permanente. In questo senso un notevole
passo avanti si è avuto con la Conferenza dei Plenipotenziari tenutasi a Roma
dal 15 giugno al 17 luglio 1998, e che si è conclusa con l’approvazione dello
Statuto che istituisce la Corte penale internazionale permanente. Lo Statuto all’art. 126
prevede che la Corte entri in funzione quando almeno sessanta Stati l‘abbiano
ratificato; obiettivo che è stato raggiunto e superato lo scorso 11 aprile 2002 grazie alle ratifiche di
dieci Stati, che hanno permesso di raggiungere il numero di sessantasei
ratifiche. Il raggiungimento
dell’obiettivo posto dal protocollo di adesione ha così permesso di dichiarare
ufficialmente nata la corte penale che quindi inizierà ufficialmente ad operare
dal 1 luglio 2002 ovverosia dal primo giorno del mese successivo ai sessanta
giorni trascorsi dall’ultima ratifica.[1] IL DIRITTO INTERNAZIONALE
PENALE E LA SUA PENETRAZIONE NEL DIRITTO INTERNO Si è finora parlato di
diritto internazionale penale, vale a dire di quel ramo del diritto
internazionale che attiene alla materia penale. Il riferimento va quindi a
tutte quelle norme giuridiche (in particolar modo consuetudini e convenzioni)
estranee all’ordinamento interno, che sanzionano gli illeciti penali
internazionali, cui lo Stato deve adeguarsi in quanto membro della comunità
internazionale. Si parla a questo proposito
di “penetrazione” del diritto internazionale in quello interno, ma prima di
poter analizzare questo particolare aspetto del diritto internazionale penale
occorre premettere una distinzione. La dottrina, comunemente, distingue dal
diritto internazionale penale il "diritto penale internazionale",
cioè quel ramo del diritto pubblico interno in materia internazionale. Il
termine “internazionale” sta quindi ad indicare l’estraneità rispetto al nostro
ordinamento e territorio di un aspetto del fatto (es. nazionalità straniera del
colpevole o della vittima; commissione del reato all’estero…).[2]
La caratteristica del diritto
penale internazionale è pertanto quella di essere un complesso di norme
mediante le quali l’ordinamento giuridico interno provvede, con riferimento
alla materia penale, a risolvere i problemi imposti allo Stato dal fatto della
sua coesistenza con altri Stati sovrani.[3]
E’ naturale che rispetto a queste norme non si potrà porre un problema di
penetrazione trattandosi di diritto interno. Di penetrazione è invece
possibile, o addirittura necessario, parlare in relazione al diritto
internazionale penale. L’ordinamento italiano non
predispone una disciplina organica dei crimini internazionali in attuazione
delle norme convenzionali e consuetudinarie del diritto internazionale e la
loro repressione, quindi, si realizza in virtù delle norme di adattamento alle singole
convenzioni internazionali, nonché in virtù del rinvio automatico al diritto
internazionale generale previsto dall’art. 10, 1° co., della Costituzione. Un processo di adeguamento
al diritto internazionale in cui però lo Stato non è mai protagonista inerte e
passivo, ma parte attiva, posto che il metodo comunemente seguito dagli
ordinamenti statali per la disciplina e la repressione degli illeciti di
rilevanza internazionale è il c.d. “metodo di adeguamento indiretto”: è lo
Stato che con appositi procedimenti (in Italia tramite il procedimento di
ratifica) fa entrare il diritto internazionale nel diritto interno, a
differenza, quindi, di quanto avverrebbe accogliendo un metodo di penetrazione
diretto con cui il diritto internazionale farebbe parte tout court del diritto
interno.[4] L’intermediazione del
legislatore statale, che
avviene di regola
mediante la predisposizione di
apposite norme incriminatrici, si rende comunque necessaria anche in quei Paesi
dove è ammissibile un’applicazione diretta delle norme convenzionali da
parte degli organi giudicanti
nazionali. Le fattispecie criminose
individuate dalle Convenzioni sono generalmente delineate in termini generici,
soprattutto perché sono spesso il risultato di compromessi, per cui una certa
vaghezza si rende necessaria per far sì che il testo sia accettato dal maggior
numero possibile di Stati. Nella maggior parte dei casi, poi, si tratta di
ipotesi di reato che mal si prestano ad una specificazione rigorosa in quanto
tante sono le possibilità ed i mezzi di realizzazione che prevederli diventa
estremamente difficile, così come una loro definizione enumerativa non sarebbe
mai soddisfacente.[5] Ciò induce,
quindi ad utilizzare nozioni di significato talmente ampio da sembrare di più
direttive di legislazione penale piuttosto che vere e proprie fattispecie
delittuose. Infine si deve tener presente che gli atti internazionali quasi mai
contengono indicazioni in ordine all’entità della sanzione, salvo limitarsi a
richiederne la severità: sarebbe quindi
impossibile una loro applicazione diretta. Di particolare interesse per
il tema da noi trattato può essere l’esame del lungo iter che ha portato lo
Stato italiano alla ratifica della “Convenzione per la prevenzione e la
repressione del delitto di genocidio”, adottata il 9 dicembre 1948
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dopo avervi aderito con legge 11
marzo 1952, n. 153, il nostro legislatore è per lungo tempo rimasto
inadempiente rispetto all’impegno derivante dall’art. V della Convenzione[6] cui l’Italia si è adeguata solo nel 1967,
con legge 9 ottobre, n. 962. In realtà, nell’atto di
adeguamento il legislatore è andato oltre l’impegno assunto in sede
internazionale. Egli ha, infatti, ampliato le fattispecie criminose aggiungendo
quelle di “deportazione a fine di genocidio” e di “imposizione di marchi o
segni distintivi” indicanti l’appartenenza ad un gruppo nazionale, etnico,
razziale o religioso, ed estendendo, inoltre, l’attuazione della disposizione
“all’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio” (art. 8 l. 962).
Tali aggiunte sono espressa testimonianza di una partecipazione attiva dello
Stato nell’adeguarsi al diritto internazionale. SUL PROGETTO ONU PER
L’EMANAZIONE DI UN CODICE DEI CRIMINI CONTRO LA PACE E LA SICUREZZA
DELL’UMANITA’ Come visto in precedenza due
sono gli elementi essenziali perché si possa concretamente parlare
dell’esistenza di un diritto internazionale penale: l’esistenza di un nucleo di
regole penalistiche volte a tutelare i diritti fondamentali della persona e la
creazione di organi di giustizia internazionale permanente che permettano la
repressione dei crimini commessi dagli individui. L’esigenza di una
collaborazione fra gli Stati in vista di una codificazione dei crimini
internazionali è stata avvertita, già al termine dell’ultima Guerra mondiale
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la quale ha adottato una serie di
risoluzioni volte da un lato a favorire la consacrazione dei principi generali
del diritto internazionale penale già elaborati dai Tribunali di Norimberga e
Tokio, e che fino ad allora vincolavano solo gli Stati firmatari degli accordi
istitutivi, fra i quali in principal modo quello della responsabilità e
perseguibilità dell’individuo per i crimini commessi e quello della codificazione
dei crimini contro la pace e la sicurezza contro l’umanità, strumento
necessario per assicurare il rispetto del principio di legalità e di
conseguenza per garantire una giustizia internazionale equa, imparziale ed
effettiva. Terminati i Processi di
Norimberga e di Tokio, l’Assemblea Generale dell’Onu affidò alla Commissione
del diritto internazionale, contemporaneamente alla sua istituzione, il compito
di redigere un Progetto di
codice dei crimini contro
la pace e la sicurezza dell’umanità.[7] L’iniziativa dell’Assemblea
Generale rispondeva all’esigenza di sanare con uno strumento vincolante
multilaterale, a vocazione universale, il carattere della retroattività delle
norme che contemplavano i crimini contro l’umanità nello Statuto del Tribunale
di Norimberga. Inoltre, con lo stesso strumento si volevano svincolare i
crimini contro l’umanità dalla connessione con i crimini di guerra e contro la
pace disposta dall’Accordo di Londra, oltre a precisare e possibilmente
integrare, la definizione dei vari crimini individuali, rispetto alle formule
contenute nello stesso Statuto del Tribunale di Norimberga.[8] In previsione della
lunghezza dei tempi di realizzazione del Progetto, i lavori relativi a
quest’ultimo furono affiancati da numerose iniziative volte a riaffermare le
norme dell’Accordo di Londra. In ambito ONU, si possono ricordare la
risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 3-I del 13 febbraio
1946, che raccomandava agli Stati membri l’arresto dei criminali di guerra e la
loro estradizione al paese nel cui territorio il crimine era stato commesso e
la risoluzione 95-I dell’11 dicembre dello stesso anno, in cui si riaffermavano
i principi espressi dai Tribunali militari internazionali di Norimberga e
Tokio. In relazione a strumenti convenzionali
si possono ricordare la Convenzione sul genocidio adottata dall’ONU nel 1948 e
la Convenzione sull’apartheid, approvata nel 1973. Ritornando al progetto di
codice, la Commissione presentò una prima bozza nel 1951 a cui, in seguito alle
osservazioni fatte pervenire
dagli Stati, furono
apportate alcune modifiche e nel
1954 fu completata una seconda bozza. Il progetto di codice del
1954 non conteneva che poche norme,[9]
per la quasi totalità modellate su quelle enunciate nello Statuto del Tribunale
di Norimberga e nella Convenzione sul genocidio. Come nello Statuto del
Tribunale di Norimberga, le fattispecie criminose erano state raggruppate in
un’unica disposizione: l’art. 2 comprendeva l’aggressione, la minaccia di
aggressione, l’annessione, l’intervento negli affari interni od esteri di un
altro Stato ed altre forme di aggressione indiretta, il genocidio, i crimini
contro l’umanità ed i crimini di guerra. Le altre disposizioni,
invece, appartenevano ad una generica “parte generale” del codice: negli ultimi
due articoli si disegnavano alcuni limiti all’operatività delle cause di
esclusione della responsabilità, veniva, cioè, sottratta ogni rilevanza alla
qualità di Capo di Stato o di Governo (art. 3), così come al fatto di aver
agito in conformità di un ordine del superiore gerarchico (art. 4). Non mancarono critiche circa
l’assenza di un insieme di norme destinate a risolvere le delicate questioni
connesse all’applicazione di principi generalmente riconosciuti nelle moderne
legislazioni penali. All’interno del codice, infatti, si faceva riferimento a
nozioni come “complicità”, “tentativo”, “complotto” e “incitamento diretto”,
senza fornire alcun chiarimento circa il loro contenuto. Anche in relazione
all’elemento psicologico del reato venivano usati termini come “intenzione” e
“motivi” senza specificarne il reale significato.[10]
L’Assemblea Generale,
tuttavia rinviò l’esame del documento alla Commissione, fino a quando non
fossero stati completati i lavori relativi alla definizione dell’aggressione,
ritenendo che vi fosse una stretta connessione tra quest’ultima e la
definizione di alcuni dei crimini contenuti nel Progetto. Dopo un intervallo di quasi
trent’anni, la Commissione del diritto internazionale è tornata ad occuparsi
dell’argomento, nei primi anni ottanta e il testo del 1954 fu utilizzato come
punto di partenza per delineare la nuova struttura del progetto. L’esigenza di
riservare una parte del codice all’enunciazione dei “principi generali del
diritto penale” è emersa, sin dall’inizio, nei dibattiti tenutisi in seno alla
Commissione. Da quel momento, il progetto
è stato ripreso ed abbandonato più volte senza mai arrivare ad una formulazione
definitiva. Se, infatti, gli Stati hanno raggiunto un accordo pressoché unanime
sulla gran parte dei “principi generali”- responsabilità individuale,
imprescrittibilità, irretroattività del codice, inapplicabilità dell’esimente
dell’ordine superiore - non si può ancora rilevare un consenso generale sulla
parte relativa all’elenco dei crimini. Naturalmente, però,
presupposto fondamentale dell’efficacia di un Codice penale internazionale è
che questo sia accettato dall’universalità degli Stati membri della comunità
internazionale. A questo proposito è stato suggerito un metodo per
l’individuazione e la definizione delle fattispecie criminose da inserire nel
Progetto di codice, al fine di facilitare la formazione del consenso, che
consisterebbe in una sorta di inventario e trasposizione nel codice di norme
contenute in convenzioni multilaterali in cui si vietano atti individuali che
vengono definiti come crimini.[11] Per quanto sia oggi
indiscusso il contributo di convenzioni multilaterali per la ricostruzione di
norme internazionali generali, e per quanto sia auspicabile che il progetto di
codice in esame comprenda fattispecie criminose contemplate come tali
nell’ordinamento internazionale a livello consuetudinario, un’applicazione
letterale del metodo in questione sembra poco utile per raggiungere
l’universalità dei consensi. Si deve, infatti, tenere conto che le Convenzioni
multilaterali, dopo aver costituito il risultato di faticosi negoziati, hanno
raggiunto diversi livelli di partecipazione e sarebbe difficile pensare che uno
Stato aderisca ad un codice che contenga la formulazione di un crimine che non
ha accettato nel contesto di un altro strumento internazionale. Un modo per
ovviare a questo inconveniente potrebbe essere quello di offrire al negoziato i
crimini codificati in precedenti convenzioni specifiche, come punto di partenza
delle trattative, ma è facile pensare che il risultato finale si discosterebbe in
peius dalle previsioni delle singole Convenzioni.[12] In conclusione non si può
prescindere da una notazione: qualsiasi codice di diritto penale, e di
conseguenza anche un codice internazionale deve contenere l’indicazione dei
principi generali, ovvero l’indicazione degli elementi costitutivi del
fatto-reato. In questo senso è stato più volte rilevato che il diritto
internazionale penale, trovandosi ad assolvere sul piano internazionale una
funzione di protezione analoga a quella che negli ordinamenti interni svolge il
diritto penale, dovrebbe da questi derivare la maggior parte dei propri
elementi giuridici. Nei Progetti di codice che
si sono succeduti, così come negli Statuti dei Tribunali che si sono dovuti
occupare di crimini internazionali, si è dovuto costantemente affrontare il
problema di applicare alle fattispecie delittuose le nozioni ed i particolari
principi che caratterizzano in generale la normazione penale. Anche nei crimini
internazionali, è possibile, pertanto, distinguere gli stessi elementi propri
della nozione di reato nel diritto penale interno: l’elemento oggettivo e
l’elemento soggettivo; e nondimeno è possibile individuare la vigenza di
principi fondamentali quali il principio di legalità, anche se si deve tenere
conto del fatto che in questo ambito esso trova un’applicazione meno rigorosa.
Questa limitazione al principio di legalità, che era già stata affermata
durante il processo di Norimberga, è stata riconosciuta anche negli atti
internazionali relativi ai diritti umani adottati nel periodo successivo a
Norimberga. Il “Patto sui diritti civili e politici” del 1966, prevedendo
all’art. 15 che nessuno possa essere condannato per un fatto che al momento
della commissione non era previsto dalla legge come reato, aggiunge al 2°
comma, che “nulla, nel presente articolo preclude il deferimento a giudizio e
la condanna di qualsiasi individuo per atti od omissioni che, al momento in cui
furono commessi, costituivano reati secondo i principi generali del diritto
riconosciuti dalla comunità delle nazioni”. La stessa eccezione è
prevista dall’art. 7 della “Convenzione europea dei diritti dell’uomo” che
richiama i “principi di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”.[13]
Un esempio concreto dell’utilizzazione
dei principi generali di diritto penale in campo internazionale ci è fornito
dalla redazione dello Statuto della Corte penale internazionale, che (così come
la precedente redazione degli statuti dei Tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia
ed il Ruanda) costituisce sicuramente un’accelerazione per la redazione
definitiva di un codice internazionale. Il consenso raggiunto in relazione alla
definizione dei crimini e dei principi generali in questo Statuto e nei
documenti ad esso annessi, fra i quali in principal modo il testo che definisce
gli elementi costitutivi dei crimini ed il Regolamento di procedura e di prova,
potrà, infatti, influire positivamente sul negoziato relativo all’elaborazione
del codice. LA STRADA VERSO UNA
GIURISDIZIONE INTERNAZIONALE PERMANENTE: BREVE STORIA DEI TRIBUNALI
INTERNAZIONALI Accanto all’impegno per la
creazione di un corpus di norme giuridiche la comunità internazionale ha sempre
cercato di individuare obblighi e meccanismi che garantissero in qualche modo
la celebrazione dei processi e la punizione dei colpevoli, in quanto
nell’assenza di forme istituzionalizzate di giurisdizione internazionale la
repressione dei crimini risulta affidata interamente agli Stati, che provvedono
alla punizione dei responsabili di tali crimini avvalendosi delle norme
processualistiche previste dall’ordinamento interno per radicare la propria
competenza. Si rende quindi opportuno
analizzare brevemente quali sono gli strumenti con cui i singoli ordinamenti
nazionali reprimono i crimini internazionali e se ed in che modo la natura
internazionale dell’offesa e del bene protetto influisca sul fondamento della
loro potestà giudiziale. Generalmente la
giurisdizione è territoriale, è cioè esercitata dai Tribunali del luogo dove è
avvenuta l’azione,[14]
anche se alcuni sistemi penali prevedono
che la giurisdizione nazionale si esplichi anche in altre circostanze:
ad esempio, il codice penale francese prevede che essa si esplichi in relazione
alla nazionalità del reo, processando così il proprio cittadino anche se ha
commesso il fatto all’estero (principio della nazionalità). In realtà anche il nostro
codice penale prevede delle deroghe al principio di territorialità. In
particolare, l’art. 7 prevede che vi siano alcuni reati punibili incondizionatamente
anche se commessi all’estero ed il numero 5 della norma in particolare prevede
che sono punibili i reati per i quali speciali disposizioni di legge o
convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale
italiana (principio di universalità). La disposizione in commento
deve essere interpretata alla luce dei principi di diritto internazionale, il
quale prevede che per la maggior parte dei crimini internazionali si applichi
il principio della giurisdizione universale in forza del quale qualsiasi Stato
può esercitare la propria giurisdizione sul reo in deroga ai normali criteri
della territorialità e della nazionalità del reo o della vittima. Fra i crimini più gravi
soggetti alla giurisdizione universale figurano le gravi violazioni del diritto
e degli usi di guerra, i crimini contro l’umanità, nonché alcuni crimini
previsti da apposite convenzioni, fra i quali la tortura. La convenzione
internazionale contro la tortura, firmata a New York nel 1984, infatti,
all’art. 5 sancisce tale principio stabilendo che “ogni Stato parte adotta
altresì le misure necessarie a determinare la sua competenza al fine di
giudicare le suddette trasgressioni (quelle di cui all’art. 4), qualora il suo
presunto autore si trovi su qualsiasi territorio sottoposto alla sua
giurisdizione e il detto Stato non lo estradi., in conformità all’art. 8….”. Di particolare interesse
risulta anche la Convenzione sul genocidio, adottata nel 1948, la quale al
contrario di quella contro la tortura, non contiene un’espressa previsione
circa l’esercizio della giurisdizione su base universale in quanto gli Stati
firmatari avevano previsto l’istituzione di una Corte penale internazionale (in
realtà mai istituita), che avrebbe avuto competenza esclusiva, per gli Stati
che ne accettavano la giurisdizione, nel processare gli accusati. Solamente per
gli Stati che non ne accettavano la giurisdizione l’art. VII della Convenzione
faceva implicitamente riferimento alla regola del “processare o estradare” in
relazione alla quale lo Stato che entra in contatto con la persona sospettata
di genocidio deve giudicarla, se la legge glielo consente, o estradarlo verso
un altro Paese disposto a processarlo. Un’importante applicazione
del suddetto principio si è avuta nel processo a carico di Adolf Eichmann,
cittadino tedesco condannato a morte nel 1962 dalla Corte Suprema Israeliana.
Israele rivendicò, infatti, la sua giurisdizione (pur non essendo Eichmann
cittadino israeliano e pur non essendo israeliana la maggioranza delle vittime)
in considerazione del carattere universale dei crimini contro l’umanità per i
quali veniva processato. In realtà, però, nel corso
dei secoli si è radicata sempre più l’idea di ricorrere ad istituzioni
giurisdizionali internazionali per giudicare i più gravi crimini commessi da
individui. Un interessante precedente
storico è costituito dal processo a Peter Von Hagenbach, datato 1474, il quale
venne processato e condannato per gravi crimini commessi contro “le leggi di
Dio e dell’uomo” durante l’occupazione della città di Breisach (crimini che non
essendo stati commessi in tempo di guerra, oggi sarebbero definiti “crimini
contro l’umanità”), da una Commissione composta di giudici provenienti da
Alsazia, Germania, Svizzera ed Austria (un collegio giudicante a composizione “internazionale”). E’ però a partire dalla
seconda metà del XIX secolo che prendono concretamente corpo i progetti di
istituzione di tribunali penali internazionali. Al termine della guerra franco-prussiana del 1870, lo svizzero
Gustav Moynier (uno dei fondatori della Croce Rossa Internazionale), chiese
l’istituzione di un tribunale penale internazionale che punisse le violazioni
della Convenzione di Vienna del 1864. Quest’idea fu però respinta dai più importanti internazionalisti
dell’epoca, e venne riproposta solo al termine della Prima guerra mondiale
quando, nel corso della Conferenza di pace di Parigi del 1919, per opera delle
potenze vincitrici, fu istituita la prima commissione di inchiesta:
“Commissione sulle responsabilità degli autori della guerra e sull’applicazione
delle sanzioni”. Alla Commissione, fu
affidato il compito di svolgere le attività investigative, relative ai crimini
di guerra e ai crimini contro l’umanità commessi da militari tedeschi (primo
fra tutti il Kaiser Guglielmo II) e turchi nel corso del conflitto. Le fasi
processuali avrebbero dovuto essere affidate ad un tribunale ad hoc, ma questo
in realtà non fu mai istituito a causa, soprattutto, del venir meno della
volontà degli stessi Alleati e della mancata consegna dell’accusato da parte
del Governo olandese, presso il quale l’imperatore Guglielmo II aveva trovato
rifugio.[15] - Segue: I TRIBUNALI DI
NORIMBERGA E TOKIO Le tremende atrocità
commesse durante la Seconda guerra mondiale spinsero le potenze vincitrici a
riprendere il dialogo circa la necessità di una giustizia internazionale. La
volontà di assicurare alla giustizia i responsabili dei peggiori crimini contro
l’umanità, portò all’istituzione di due Tribunali militari speciali: Tribunale
internazionale militare di Norimberga e Tribunale internazionale militare per
l’Estremo Oriente (c.d. Tribunale di Tokio). I due Tribunali ebbero
indubbiamente il merito di elaborare principi e concetti fondamentali per il
diritto internazionale penale fra i quali innanzitutto quello della responsabilità
penale individuale per le più gravi violazioni del diritto umanitario nonchè la
definizione, data per la prima volta in un testo ufficiale, di crimini contro
l’umanità. Con la condanna degli
individui responsabili dei crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale,
per la prima volta infatti, i Tribunali avevano posto in evidenza che esiste un
sistema di giustizia internazionale tale da creare nel singolo individuo
diritti ed obblighi di diritto internazionale, senza necessità di mediazione da
parte degli Stati.[16] Veniva in questo modo
superato il principio della responsabilità statale sostenuto dalla dottrina
internazionalistica, secondo la quale il diritto internazionale come diritto
fra gli Stati attribuisce soltanto a questi diritti e doveri, ma non agli
individui che quindi non possono essere soggetti di diritto internazionale, con
la conseguenza che il crimine dell’individuo non sarebbe altro che un aspetto
del crimine statuale. Gli
Statuti dei Tribunali elencavano, inoltre, alcuni principi essenziali in
materia processuale come il diritto ad un processo equo fondato sul
contraddittorio ed il diritto di difesa. Nonostante i notevoli
apprezzamenti per le rilevanti novità introdotte nel diritto internazionale,
contro tali processi non mancarono però neppure aspre critiche. Il primo appunto che fu
mosso concerneva l’unilateralità del giudice, costituito solo da rappresentanti
delle Nazioni vincitrici, da molti considerato come l’espressione di una
giustizia imposta dai vincitori ai vinti. Si disse quindi che i due organismi
erano solo limitatamente internazionali in quanto rappresentativi di una parte
minoritaria della comunità internazionale. Ciò derivava sia dal loro fondamento
giuridico sia dai limiti posti all’esercizio delle loro competenze ratione
personae. Sotto il primo aspetto, essi trovavano il loro fondamento in
strumenti posti in essere dalle sole Potenze vincitrici: per quanto riguarda il
Tribunale di Norimberga, dall’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945 tra Francia,
Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica; per quanto riguarda il Tribunale
di Tokio, da una decisione unilaterale del 19 gennaio 1946 del Comandante
Supremo delle Potenze Alleate, generale MacArthur. Sotto il secondo aspetto,
fin dall’inizio, fu chiaro che tali Tribunali si sarebbero occupati
esclusivamente di individui appartenenti alle Potenze nemiche, facendo così
della nazionalità un elemento chiave per la selezione degli imputati. Sotto il profilo della
competenza i due Tribunali avevano cognizione per i crimini contro la pace, i
crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, questi ultimi limitatamente agli
atti posti in essere in esecuzione o in connessione con le altre due categorie
di crimini. La loro giurisdizione, tuttavia, era limitata ai crimini che non si
caratterizzavano per una particolare localizzazione geografica, lasciando gli
altri alla competenza dei giudici interni ed elevando, in questo modo, la
gravità del crimine a criterio di ripartizione fra le competenze del giudice
internazionale e le competenze dei giudici interni.[17] Ancora più incisivo era il
problema relativo all’osservanza del divieto di retroattività. Il rispetto di
questo principio, definito come un “principio fondamentale di giustizia” dagli
stessi redattori del Patto di Londra, imponeva di non punire azioni che al
tempo in cui furono commesse non erano punibili. Quest’obiezione non toccava la
punibilità dei crimini di guerra, già da tempo conosciuti nel diritto
internazionale, ma quella delle altre due fattispecie: i crimini contro l’umanità
e la guerra di aggressione, definiti per la prima volta negli Statuti dei due
Tribunali ad hoc. Il problema era quindi
quello di conciliare il principio di retroattività con la volontà di non
lasciare impuniti questi crimini. Per i crimini contro l’umanità, in
particolare, si trovò quindi la scappatoia giuridica di collegare questi fatti
ai crimini di guerra, dichiarando punibili soltanto i crimini in diretta
connessione temporale, con quelli a cui lo Statuto si riferiva come a crimini
di guerra. La conseguenza era però che tutte le azioni che corrispondevano alla
fattispecie di crimini contro l’umanità, ma che furono commesse, prima della
guerra, da tedeschi contro tedeschi, e soprattutto l’assassinio di massa degli
ebrei, già allora incominciato, non rientravano in quest’ambito e rimasero
impunite. Dietro la spinta dei
risultati dei due Tribunali militari, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
adottò la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di
genocidio, in cui si prevedeva l’istituzione in tempi rapidi di un tribunale
internazionale (mai istituito), il quale avrebbe avuto competenza esclusiva,
per gli Stati che ne accettavano la giurisdizione, nel processare gli accusati. - Segue: IL TRIBUNALE PER I
CRIMINI COMMESSI NELLA EX JUGOSLAVIA La comunità internazionale è
nuovamente ricorsa all’istituzione di Tribunali internazionali in seguito alle
guerre di Jugoslavia e Ruanda. Il conflitto jugoslavo è
ormai considerato il prototipo delle guerre di pulizia etnica, che significa usare la violenza e le
deportazioni per cancellare ogni traccia delle altre comunità etniche che in
precedenza coabitavano con i serbi nei territori della Repubblica jugoslava. La guerra ha preso le mosse
dalla dichiarazione di indipendenza di Croazia e Slovenia del 25 giugno 1991.
Il passo politico precedente, cui le due dichiarazioni di indipendenza si
riallacciano, è quello compiuto dalla Serbia di Milosevic, nel marzo 1989, che
aveva messo fine allo speciale statuto di autonomia riconosciuto nella Costituzione
jugoslava alle province della Vojvodina e del Kossovo: l’aumentato peso
politico e militare della Serbia, nella complessa struttura costituzionale
della Federazione jugoslava, minacciava direttamente i regimi politici delle
altre repubbliche. Nel giugno del 1991
l’esercito federale (l’Armata Rossa, in cui prevale la componente serba)
interviene in Slovenia. La breve guerra serbo-slovena si conclude, però, con la
sostanziale vittoria della piccola repubblica settentrionale. Nello stesso
periodo scoppiano anche i primi combattimenti in Croazia tra forze militari e
di polizia croate e milizie serbe, sostenute dal governo di Milosevic di
Belgrado. A queste prime dichiarazioni
di indipendenza fanno seguito anche quella della Macedonia, il 15 settembre 1991,
a seguito di un referendum vinto dagli indipendentisti con oltre il 95% di
consensi, e quella della Bosnia-Erzegovina votata, il 14 ottobre dello stesso
anno, dalla maggioranza del parlamento. Il Consiglio di Sicurezza
dell’ONU, con risoluzioni n. 713 (1991), 721 (1991) e 727 (1992), descrive le
violazioni di diritto internazionale umanitario, che si stanno registrando
nell’ex Jugoslavia, come episodi che minacciano la pace e la sicurezza
internazionale. Nei primi mesi del 1992
Serbia e Croazia firmano il cessate il fuoco; contemporaneamente in
Bosnia-Erzegovina il referendum sull’indipendenza vince con il 62% di suffragi.
Il referendum è, però, boicottato dai serbi di Bosnia, la cui assemblea
popolare, proclama, il 7 aprile 1992, la Repubblica serba di Bosnia, il cui
leader Karadzic dichiara che essa occupa il 69% del territorio della Bosnia. Il 27 aprile dello stesso
anno viene proclamata a Belgrado la nascita della Repubblica federale di
Jugoslavia (Serbia e Montenegro). Questi avvenimenti segnano lo smembramento di
quella che era la Repubblica socialista federale di Tito. Respingendo seccamente le
proposte di creare una libera federazione, rifiutando di adottare le riforme
(democrazia e libero mercato all’occidentale) che avevano già investito l’ex
blocco sovietico, Milosevic ha scelto il confronto militare. Il 13 luglio 1992,
con risoluzione 764 del Consiglio di Sicurezza l’ONU stabilisce che “le
violenze perpetrate nella ex Jugoslavia costituiscono crimini internazionali la
cui commissione genera responsabilità penali individuali” e successivamente il
6 ottobre, con risoluzione 780, il Consiglio di Sicurezza istituisce una commissione di esperti (cd.
“Commissione 780”) con il compito di indagare su queste violazioni del diritto
umanitario. Il 10 febbraio 1993 la
Commissione consegna al Consiglio di Sicurezza il suo primo rapporto,
contenente una serie di dati sui crimini commessi dalle varie parti in lotta
nel territorio della ex Jugoslavia. Spinto dalle incalzanti richieste degli
Stati e dalla escalation di atrocità, di cui i mass media cominciano a dare
notizia, il Consiglio di Sicurezza il 22 febbraio 1993 adotta la risoluzione n.
808 con cui incarica il Segretario Generale Boutros-Ghali di presentare entro
sessanta giorni un rapporto sull’istituzione di un tribunale penale
internazionale che giudichi i crimini perpetrati nella ex Jugoslavia. Nel
maggio dello stesso anno il Segretario Generale dell’ONU presenta il rapporto
richiesto, comprendente la proposta di Statuto del tribunale internazionale per
la ex Jugoslavia[18] e la cui bozza viene votata, il 25 maggio,
all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza, che istituisce formalmente, con la
risoluzione n. 827, il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi
nella ex Jugoslavia, con sede all’Aja. Al Tribunale sono state attribuite
competenze ratione temporis, loci e materiae limitate: esso è competente per i
crimini commessi nella ex Jugoslavia a partire dal 1° gennaio 1991 fino ad una
data che il Consiglio determinerà quando sarà ristabilita la pace. Ratione
materiae, la competenza è stata limitata ai crimini di guerra e ai crimini
contro l’umanità, con esclusione quindi del crimine di aggressione.[19] - Segue: IL TRIBUNALE PER I
CRIMINI COMMESSI NEL RUANDA A breve distanza dalla
decisione del Consiglio di Sicurezza di istituire un Tribunale internazionale ad
hoc per la ex Jugoslavia, il supremo organo dell’ONU ha imboccato per la
seconda volta questa strada: il giorno 8 novembre 1994 con
risoluzione n. 1168 viene
istituito il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, con sede
ad Arusha. Il Tribunale ha competenza per i crimini di
guerra e contro l’umanità commessi nel territorio del Ruanda e, limitatamente
ai cittadini ruandesi, per gli atti e violazioni commesse nel territorio degli
Stati limitrofi, dal 1° gennaio 1994 al 31 dicembre 1994. Sembra opportuno esaminare
brevemente le ragioni che hanno portato all’istituzione di questo Tribunale
speciale. La crisi che si è verificata nel 1994 in Ruanda non costituisce un
fatto improvviso: da decenni il paese era teatro di scontri tra le due etnie
Hutu e Tutsi. La situazione è, però, precipitata il 6 aprile 1994 quando, dopo
un attentato che ha provocato la morte dei due presidenti di Ruanda e Burundi,
gli Hutu al potere hanno iniziato a compiere gravi massacri a danno delle
popolazioni Tutsi.[20] Nel maggio del 1994, in
seguito ad una missione in Ruanda dell’Alto Commissario per i diritti umani
dell’ONU, viene chiesta la convocazione di una sessione straordinaria della
Commissione dei diritti umani. La sessione si svolge il 24 e 25 dello stesso
mese e il relatore speciale per il Ruanda, Réné Degni-Ségui, nominato dalla
Commissione, nei suoi rapporti ribadisce più volte il carattere di genocidio
che rivestono i massacri compiuti contro i Tutsi.[21]
La situazione si protrae
fino al 15 luglio 1994, quando il potere passò al Fronte Patriottico del
Ruanda, composto in gran parte da Tutsi, ma con la partecipazione di leader
moderati Hutu. Il nuovo Governo decise di ripristinare l’ordine, ma anche di
fare giustizia. Diverse erano le esigenze: in primo luogo quella di punire i
colpevoli di crimini orrendi, dettata anche dalla necessità pratica di evitare
lo scatenarsi di vendette private che avrebbero creato una spirale di violenze;
in secondo luogo era necessario assicurare dei processi equi ed imparziali, in
modo da convincere le migliaia di Hutu (sparpagliati in Burundi, Tanzania e
Zaire), a rientrare con la convinzione che sarebbero stati giudicati in base a
processi regolari. Si pose quindi il problema
dei tribunali competenti: i crimini dovevano essere giudicati dai tribunali del
Ruanda o da un organo internazionale? A favore della soluzione “nazionale” vi
erano varie considerazioni: le corti ruandesi potevano costituire il forum
conveniens, perché le prove principali si trovavano sul territorio del Ruanda;
inoltre, quelle Corti sarebbero state più sensibili di qualunque altro
tribunale alle esigenze della popolazione; ma soprattutto i processi da esse
tenuti sarebbero stati “visti” da tutta la popolazione. Tuttavia i tribunali
ruandesi avrebbero potuto rivelarsi non imparziali, proprio per la fortissima
carica emotiva dei processi contro i crimini commessi in quel Paese. Un altro
problema da tenere in considerazione è che la guerra civile aveva avuto come conseguenza,
tra l’altro, l’uccisione o la fuga di molti giudici e procuratori ruandesi: il
ricorso ai tribunali nazionali avrebbe quindi comportato la necessità del
rapido ripristino della magistratura ruandese.[22] A favore della creazione di
un Tribunale internazionale militavano alcune considerazioni importanti.
Anzitutto la gravità degli atti di genocidio perpetrati nel 1994 in quel Paese
induceva a ritenere che quei crimini non dovessero concernere solo la comunità
ruandese, ma tutta la comunità internazionale: perciò, sarebbe stato logico che
su di essi si pronunciasse un organo internazionale, espressione di tutta la
comunità internazionale. In secondo luogo, quei crimini costituiscono non solo
reati per il diritto ruandese, ma anche atti vietati solennemente dal diritto
internazionale: e un tribunale internazionale può, più di qualunque corte
interna, interpretare ed applicare il diritto internazionale. In terzo luogo,
solo un tribunale internazionale poteva dare garanzie certe di assoluta
indipendenza ed imparzialità: la composizione di un tale tribunale e le sue
regole di procedura potevano consentire una valutazione super partes
difficilmente conseguibile da un tribunale interno.[23]
Inizialmente, lo stesso
Governo del Ruanda si pronunciava a favore della creazione di un Tribunale
internazionale: il 6 agosto 1994, il Ministro della Giustizia del Ruanda
inviava al Segretario Generale dell’ONU, Boutrus Ghali, una lettera con la
quale chiedeva l’urgente istituzione di un tribunale, concludendo che “la pace
e la stabilità della regione sarebbero state molto potenziate da una risposta
internazionale coerente, rapida ed efficace”. Dopo questo primo sostegno
alla soluzione internazionale, il Governo del Ruanda ha incominciato ad esitare fino ad arrivare a schierarsi
contro la creazione del Tribunale, al punto che trovandosi ad essere membro non
permanente del Consiglio di Sicurezza, ha votato contro la risoluzione n. 1168. Tra i vari motivi che hanno
indotto il Governo ruandese a questa posizione, alcuni meritano di essere
sottolineati. Innanzitutto, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva escluso
dallo Statuto la pena di morte per i criminali condannati. Il Ruanda, invece,
prevede la pena di morte e soprattutto intendeva irrogarla contro gli autori
dei più gravi crimini commessi in quel periodo. Di fronte alla fermezza del
Consiglio di Sicurezza, il governo ruandese ha fatto notare che l’istituzione
del Tribunale internazionale, e la circostanza che probabilmente esso
processerà solo i leader politici e militari (attualmente in Ruanda sono
detenuti più di ottomila ruandesi sospettati di gravi crimini, e il Tribunale
internazionale potrà processarne solo alcune centinaia), porterà a una
sorprendente conclusione: i capi, se condannati a livello internazionale, dovranno
solo scontare pene detentive, mentre gli autori materiali dei crimini saranno
passibili della pena capitale, nell’ipotesi assai probabile che essi siano
processati da tribunali ruandesi. Un’altra obiezione mossa dal
Ruanda concerne la competenza temporale del Tribunale internazionale. Le
Nazioni Unite hanno deciso che questo organo può giudicare non solo i reati
commessi dagli Hutu, ma anche le violazioni perpetrate dai Tutsi durante la
guerra civile; di conseguenza, la competenza temporale del Tribunale non è
limitata al periodo aprile-luglio 1994 (come richiesto dal Ruanda), ma si
estende a tutto il 1994 e quindi anche agli atti commessi dal Fronte
Patriottico del Ruanda.[24]
- Segue: IL FONDAMENTO
LEGALE PER L’ISTITUZIONE DEI TRIBUNALI INTERNAZIONALI Come si visto in precedenza,
i Tribunali per la ex Jugoslavia ed il Ruanda sono stati istituiti dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con due risoluzioni. Grandi
perplessità ha suscitato nella dottrina la via scelta per l’istituzione di
questi tribunali che non è stata quella dell’accordo internazionale, bensì
quella della decisione di un organo internazionale. Varie sono state le tesi
proposte in ordine alla questione della legittimità dei due nuovi organi
giudiziari. Per chiarire il problema è interessante prendere le mosse dalla
sentenza emessa dalla Camera d’Appello del Tribunale per la ex Jugoslavia, il 2
ottobre 1995, sul caso Dusko Tadic, la quale si è occupata della controversa
questione relativa al fondamento giuridico del potere del Consiglio di
Sicurezza di istituire lo stesso Tribunale.[25] Le contestazioni della
difesa, portate all’attenzione della Camera d’Appello, si muovevano lungo due
direttrici fondamentali. Con una prima eccezione si chiedeva alla Camera
d’Appello di pronunciarsi sul potere del Consiglio di Sicurezza di istituire un
organo sussidiario di carattere giurisdizionale. Ciò che si contestava era che
il Consiglio potesse attribuire ad un organo sussidiario una funzione che la
Carta delle Nazioni Unite non conferisce allo stesso Consiglio. Il Consiglio nella
risoluzione 827 non aveva preso posizione sulla base giuridica dell’istituzione
del Tribunale, chiedendo al Segretario Generale un rapporto. Nel rapporto del 3
maggio 1993, il Segretario Generale sosteneva che il Tribunale è un organo
sussidiario del Consiglio ai sensi dell’art. 29 della Carta delle Nazioni
Unite. In realtà l’art. 29 stabilisce che il Consiglio può istituire organi
sussidiari che ritiene necessari per lo svolgimento delle sue funzioni, mentre
nel caso in esame all’organo sussidiario (il Tribunale) è stata attribuita una
funzione, quella giurisdizionale, che la Carta non attribuisce al Consiglio. La Camera d’Appello ha però
ritenuto legittima l’istituzione del Tribunale in quanto la funzione esercitata
dal Consiglio, attraverso questa misura, è quella di assicurare il mantenimento
della pace. Con una seconda eccezione si
chiedeva alla Camera d’Appello di verificare se l’istituzione del Tribunale
costituisse una misura riconducibile ad uno dei poteri attribuiti al Consiglio
di Sicurezza nell’ambito della Carta, dal momento che una misura di questo
genere non è prevista espressamente in alcuna disposizione. L’individuazione di questo
fondamento è compiuta dalla Camera d’Appello attraverso l’esame delle
disposizioni contenute nel Capo VII della Carta. Non è stata presa in
considerazione, invece, la possibilità che il fondamento si possa trovare in
altre disposizioni della Carta, in particolare nell’art 24, che la Corte
Internazionale di Giustizia, nel parere del 1971 sulla Namibia, ha individuato
come la base giuridica delle azioni del Consiglio di Sicurezza, che non
rientrano espressamente nei capitoli VI e VII e nell’art. 25, che, nello stesso
parere, è stato indicato come quello che attribuisce al Consiglio il potere di
adottare decisioni vincolanti. La scelta compiuta dalla
Camera d’Appello sembra, però, da condividere, non solo perché la soluzione
proposta dalla Corte di Giustizia suscita numerose riserve, ma soprattutto
perché lo stesso Consiglio di Sicurezza ha indicato (nel Preambolo dello
Statuto) nel Capo VII, la base giuridica della propria decisione. La Camera d’Appello si è
quindi soffermata ad analizzare gli artt. 40, 41 e 42 della Carta.
Immediatamente è stata esclusa l’applicabilità degli artt. 40 e 42. L’art. 40
attribuisce al Consiglio il potere di adottare misure provvisorie dirette ad
impedire l’aggravarsi di una situazione, riferendosi quindi, secondo il
Tribunale ad interventi di emergenza più che all’esercizio di un’attività
giurisdizionale. L’art. 42, invece, riguarderebbe solo le misure implicanti
l’uso della forza e tale non può certo essere considerata l’istituzione di un
Tribunale penale. La Camera d’Appello ha
quindi individuato il fondamento giuridico nell’art. 41 della Carta, sostenendo
fra l’altro che contro questa valutazione non può essere addotto il fatto che
l’istituzione di un Tribunale non sia compresa tra le misure espressamente
indicate in tale disposizione, la quale avrebbe un carattere meramente
esemplificativo.[26] La tesi
della Camera d’Appello, che ha individuato come base giuridica per
l’istituzione dei Tribunali penali l’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite,
era già stata avanzata dalla dottrina, anche se buona parte della dottrina,
aveva comunque cercato una base giuridica negli artt. 40 e 42,[27]
nonché nell’art. 24. Una tesi particolarmente
interessante è, però, quella espressa dal Condorelli,[28] il quale considera ormai obsoleto il
dibattito sulla legalità, affermando: “sono fermamente convinto che oggi –
sottolineo l’oggi, contrapponendolo a ieri – si possa serenamente rispondere in
modo positivo alla domanda se l’istituzione da parte del Consiglio di Sicurezza
dei Tribunali penali ad hoc trovi o no nella Carta un fondamento giuridico
adeguato. Voglio dire che, secondo me, questa questione non va più discussa
alla fine del 1995 come si poteva fare alcuni anni addietro, cioè senza tenere
conto di tutto quello che è accaduto di nuovo dal momento in cui i due
Tribunali sono stati per così dire inventati”. Secondo Condorelli, infatti, non
si può continuare a discutere di legalità limitandosi ad utilizzare
semplicemente argomenti basati sull’interpretazione letterale della Carta.
Innanzitutto, si deve tenere conto del fatto che l’Assemblea Generale ha dato e
dà sostegno ai Tribunali in diversi modi (prendendoli in carico nel bilancio e
appoggiandone l’azione) e che negli Accordi di pace per la ex Jugoslavia il
ruolo del Tribunale penale internazionale è riconosciuto ed affermato da tutte
le Parti contraenti. Questi dati indicano che
secondo la comunità internazionale gli Stati membri dell’ONU hanno ratificato
l’interpretazione della Carta secondo cui il Consiglio di Sicurezza aveva il
potere di creare i Tribunali, come misura rientrante nel Capo VII. Questo,
secondo Condorelli, è un caso esemplare in cui si può constatare che la pratica
seguita nell’applicazione del trattato permette di considerare raggiunto
l’accordo delle parti in relazione all’interpretazione del trattato, così come
prevede l’art. 31, 3° comma, lett. b) della Convenzione di Vienna sul diritto
dei trattati. L’autore offre, anche, un
nuovo spunto di riflessione utilizzando l’art. 51 della Carta, in cui, a suo
parere, “vi si mette in evidenza, ed in termini decisi oltrechè generali (cioè,
a ben vedere, indipendentemente dal collegamento con la legittima difesa) che
il Consiglio di Sicurezza ha il potere di agire in qualsiasi momento nel modo
necessario per mantenere e ristabilire la pace e la sicurezza internazionali.
In nessun altro punto della Carta è esplicitato in modo così netto, mediante un
linguaggio da riserva automatica, l’altissima discrezionalità di cui gode il
Consiglio della scelta della maniera adatta di agire”.[29] Infine, si deve tenere conto
della proposta di quella parte della
dottrina che ritiene
di poter individuare la base giuridica dell’istituzione di Tribunali ad
hoc in una norma di diritto internazionale generale. Il Carella, a questo
proposito, sottolinea come, per la repressione dei crimini di guerra, contro
l’umanità e la pace, commessi da individui, una norma consuetudinaria di
diritto internazionale prevederebbe il principio della giurisdizione
universale, e cioè la facoltà per ogni Stato di esercitare la giurisdizione
sugli individui che li abbiano commessi. Tale potere potrebbe tuttavia essere esercitato
non solo dagli Stati, ma anche da altri soggetti del diritto internazionale
generale, ed in particolare dalle Organizzazioni internazionali.[30] Si può comunque concludere
che, nonostante tutti i dubbi relativi alla legittimità dell’istituzione dei
due Tribunali ad hoc da parte del Consiglio di Sicurezza, questa probabilmente
costituiva l’unica strada possibile. Infatti, convocare una conferenza
diplomatica in cui negoziare un trattato istitutivo dell’organo, avrebbe
significato ritardare notevolmente i tempi. Questo avrebbe potuto comportare la
perdita delle prove e la fuga dei colpevoli. Di fronte all’esigenza di
intervenire prontamente ed efficacemente nel caso concreto, forse l’unico
strumento utilizzabile era appunto quello della decisione di un organo
internazionale. - Segue: I LAVORI
PREPARATORI E LA CONFERENZA DI ROMA PER L’ISTITUZIONE DELLA CORTE PENALE
INTERNAZIONALE Negli anni novanta, a
seguito delle stragi commesse in Cambogia, ex Jugoslavia e Ruanda, l’opinione
pubblica mondiale chiese, sempre più insistentemente, l’istituzione di un
sistema giudiziario penale internazionale. L’idea di una giurisdizione penale
permanente è stata sicuramente rafforzata dalla istituzione dei due Tribunali
per la ex Jugoslavia e il Ruanda, tanto che nel 1995 l’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite istituì un Comitato ad hoc incaricato
di analizzare le questioni relative alla creazione di una corte permanente.
Dopo un anno il Comitato sollecitò l’Assemblea Generale ad istituire un
Comitato Preparatorio (il c.d. “PREPCOM”).[31]
Esso presentò, alla fine dello stesso anno, un importante rapporto in due
volumi all’Assemblea Generale, la quale estese il mandato del PrepCom al
periodo 1997-1998. Il nuovo mandato prevedeva
l’elaborazione di un testo consolidato (un testo che includesse tutte le
proposte dei vari Governi) da trasmettere ad una Conferenza Diplomatica.[32]
Infine, l’Assemblea Generale ha deciso di convocare in Roma, dal 15 giugno al
17 luglio 1998, una Conferenza Diplomatica dei Plenipotenziari per l’istituzione
della Corte Penale Internazionale ed ha disposto la trasmissione del testo del
progetto di statuto, allora ancora in corso di elaborazione avanti il Comitato
Preparatorio, direttamente alla Conferenza.[33] Il 3 aprile 1998 il PrepCom
, terminati con successo i propri lavori, ha
trasmesso alla Conferenza Diplomatica, in esecuzione della citata risoluzione
dell’Assemblea Generale, il proprio rapporto sull’attività svolta,
contenente in allegato il
progetto di Statuto della Corte penale internazionale.[34] Il progetto di Statuto,
predisposto dal Comitato Preparatorio, che ha costituito la base dei lavori
della Conferenza di Roma, era diviso in tredici parti ed era composto da 116
articoli. Nonostante le carenze tecniche del testo - dovute alle particolari modalità
con le quali era stato elaborato dalle Rappresentanze Diplomatiche degli Stati,
spesso prive di esperti di diritto in genere e di diritto internazionale
comparato in particolare - le differenti visioni politiche e le diverse
estrazioni giuridiche delle varie Delegazioni avevano trovato tutte
collocazioni all’interno del progetto, sia laddove le contraddizioni siano
state positivamente risolte, sia laddove le Delegazioni non fossero riuscite a
raggiungere una soluzione unitaria, e si fossero, quindi, limitate a proporre
alla Conferenza le possibili soluzioni alternative.[35] Questa caratteristica del
progetto di Statuto era diretta conseguenza della natura del mandato conferito
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite al Comitato Preparatorio, nel quale
i rappresentanti degli Stati partecipanti possedevano mandato non di
negoziazione, ma di mera compilazione di un testo consolidato sul quale potesse
convergere il maggior numero di consensi da parte degli Stati e che potesse
quindi costituire una valida base per le successive negoziazioni diplomatiche,
senza però che il testo fosse
vincolante per gli Stati partecipanti. Ma il numero assai rilevante
di questioni lasciate irrisolte dal PrepCom e rinviate alla negoziazione da
svolgersi durante la Conferenza Diplomatica, ha costituito un grande limite
operativo ed ha rischiato di condizionare negativamente l’esito della
Conferenza. Le alternative più significative, infatti, erano state proposte
dalle Grandi Potenze, il cui supporto alla creazione della Corte penale
internazionale non era affatto scontato, dato che il ruolo di preminenza che
esercitano, attualmente, nella giustizia internazionale è destinato ad essere
eroso dall’istituzione del nuovo organismo giudiziario. Tali preoccupazioni
della vigilia si sono rivelate fondate e sono state superate solo nelle sedute
finali degli organi della Conferenza. I lavori della Conferenza di
Roma hanno avuto inizio il 15 giugno 1998. Subito è stato adottato il
Regolamento interno della Conferenza, e, sulla base degli artt. 4, 6, 11 e 49
dello stesso, sono stati eletti i funzionari di vertice della Conferenza e sono stati formati il Comitato Generale, il Comitato di Redazione ed il Comitato per la Verifica delle
Credenziali, organi che aggiungendosi
all’Assemblea Plenaria ed al Comitato Plenario, hanno completato l’organigramma della
Conferenza Diplomatica. Lo svolgimento dei lavori
prevedeva l’esame, da parte del Comitato Plenario, del Progetto di Statuto
predisposto dal PrepCom ed il deferimento al Comitato di Redazione del testo
delle disposizioni sulle quali fosse stato via via raggiunto il necessario
consenso, attraverso le opportune negoziazioni diplomatiche. Compito del
Comitato di Redazione sarebbe stato quello di tradurre il testo negoziato, in
forma giuridica e nelle sei lingue ufficiali della Conferenza (inglese,
francese, russo, arabo, spagnolo e cinese), per poi trasmetterlo nuovamente al
Comitato Plenario per l’approvazione e l’invio all’Assemblea Plenaria, organo
competente all’adozione definitiva. Il 17 luglio 1998 venne
approvato lo Statuto della Corte, con l’annesso Atto Conclusivo della
Conferenza, con un voto largamente maggioritario, e più largo anche della
maggioranza qualificata richiesta (pari a due terzi degli Stati presenti e
votanti, che rappresentassero anche la maggioranza assoluta degli Stati
presenti alla Conferenza). Alla votazione, infatti, presero parte 148 dei 160
Stati partecipanti alla Conferenza: 120 hanno votato a favore, 21 si sono
astenuti e 7 hanno votato contro: le opposizioni più clamorose sono state
espresse da Stati Uniti, Cina India ed Israele. Gli Stati Uniti, in
particolare, subiscono una sconfitta diplomatica cocente, non essendo riusciti
ad imporre il loro punto di vista né sulla questione del crimine di aggressione
(che volevano fosse escluso dalla competenza della Corte) né sul ruolo del
Consiglio di Sicurezza che secondo gli americani doveva erigersi quale organo
di tutela e di supervisione sull’operato della Corte. In conformità alle
disposizioni contenute nei punti 24 e 25 dell’Atto Conclusivo e dell’art. 125
dello Statuto di Roma, il 18 di luglio dello stesso anno i due strumenti sono
stati aperti alla firma ed all’adesione di tutti gli Stati, sia dei 160
partecipanti alla Conferenza di Roma che di quelli non partecipanti, siano o
meno membri delle Nazioni Unite. Gli Stati che già durante la
Conferenza avevano firmato lo Statuto si erano assunti il compito di
provvedere, sulla base dei rispettivi ordinamenti interni, a ratificare,
accettare o approvare lo Statuto (art. 125, comma 2). Per gli Stati non
firmatari è comunque consentita in ogni momento l’adesione allo Statuto (art.
125, comma 3). Con la ratifica dello
Statuto, dunque, gli Stati attribuiranno alla Corte una funzione tipica del
loro dominio riservato: la potestà punitiva nei confronti di individui. L’art. 126 dello Statuto
prevedeva che per l’effettiva entrata in vigore dello Statuto di Roma e,
quindi, per la concreta creazione della Corte sarebbe stato necessario il
deposito presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite, di almeno sessanta
strumenti di ratifica, accettazione, approvazione od adesione.[36]
Tale numero minimo di ratifiche costituisce lo strumento, che è stato
individuato in sede di negoziati, per bilanciare da un lato l’esigenza di
consentire l’istituzione della Corte in tempi ragionevolmente brevi (prevedendo
quindi un numero di ratifiche non elevato), e dall’altro quella di far si che
la Corte divenisse effettiva solo quando fosse stata dotata di un ampio e
concreto consenso internazionale (prevedendo un consistente numero di
ratifiche).[37] Nonostante la rigidità
imposta al meccanismo dall’impossibilità di apporre riserve allo Statuto in
sede di ratifica, accettazione, approvazione od adesione (art. 120), lo scorso
11 aprile 2002 è stato raggiunto il numero di ratifiche richieste dal
protocollo di adesione. Lo Statuto è stato ratificato,infatti, da sessantasei
Paesi, sei in più di quelli necessari, dimostrando in tal modo che sia gli
Stati che l’opinione pubblica internazionale hanno sentito e continuano a
sentire forte la necessità di una giurisdizione penale internazionale. La Corte, pertanto, entrerà
ufficialmente in funzione il 1° luglio del 2002. - Segue: LE RAGIONI PER
L’ISTITUZIONE DI UNA CORTE PENALE INTERNAZIONALE Vi sono molte ragioni, sia
pratiche sia di principio, che giustificano gli sforzi per dare vita ad una
Corte penale internazionale permanente.[38]
Tra le tante, alcune sembrano particolarmente importanti. Innanzitutto, a
fondamento dell’istituzione di un meccanismo di giustizia internazionale si
colloca l’esigenza che l’impunità dei responsabili non porti a dimenticare le
più gravi atrocità commesse, le violazioni che arrivano a negare l’essenza
stessa della dignità umana. La comunità internazionale ha un dovere di civiltà
nei confronti delle vittime delle atrocità e nei confronti delle generazioni
future: preferire la giustizia all’oblio, una giustizia che sia equa ed
imparziale. L’impunità di fatto garantita agli autori di simili crimini a causa
dell’inefficienza dei sistemi giudiziari nazionali è stata messa ben in luce
dalle riflessioni svolte, nell’ottobre del 1996, durante un convegno
organizzato da Amnesty International, dall’allora Alto Commissario per i
Diritti Umani delle Nazioni Unite, José Ayale Lasso, secondo il quale “è una crudele
ironia che un individuo abbia più possibilità di essere processato e giudicato
per aver ucciso un uomo che per averne uccisi centomila”. Una Corte penale
internazionale assolverebbe, inoltre, ad un’altra fondamentale funzione: quella
di porre fine ai conflitti, evitando la vendetta. Quando, infatti, lo Stato o
la comunità internazionale non possono o non vogliono fare giustizia, si
ingenera il rischio che coloro che dei crimini sono stati le vittime dirette
cerchino di farsi giustizia da soli. Non solo: l’incapacità da parte dei
governi di fare giustizia alimenta l’impunità e il senso di frustrazione e
impotenza di fronte alle più gravi violazioni del diritto umanitario e dei
diritti umani, fornendo continuamente alimento alla violenza, dal livello interpersonale
a quello internazionale. In situazioni che comportano conflitti etnici, la
violenza genera altra violenza: la garanzia che almeno alcuni autori di crimini
contro l’umanità o di crimini di guerra possano essere giudicati, agisce da
deterrente ed accresce la possibilità di porre fine ad un conflitto. La Corte penale
internazionale è stata definita l’anello mancante del sistema giuridico
internazionale. La Corte di Giustizia dell’Aja, infatti, esercita la propria
giurisdizione esclusivamente sugli Stati, non sugli individui: senza una
giurisdizione penale internazionale che abbia competenza nei confronti dei
singoli individui, atti di genocidio e gravi violazioni dei diritti umani
rimarrebbero impuniti. Il principio fondamentale sul quale si fonda la
giurisdizione penale è l’idea che la responsabilità sia personale. Questo
principio riveste un’importanza preponderante quando si tratti di giudicare
reati su vasta scala, quali i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità.
Solo punendo i singoli autori dei crimini sarà possibile evitare di considerare
colpevole un intero popolo, un’intera nazione, per il solo fatto di essere
stata “parte avversa” in un conflitto. In mancanza di un accurato accertamento
dei fatti e delle singole responsabilità,
il rischio di
alimentare nazionalismi aggressivi
e xenofobia diventa particolarmente alto. Ci si può chiedere, però, a
quale scopo istituire un Tribunale internazionale, quando potrebbero bastare i
giudici interni a fare giustizia anche nei casi più difficili e atroci. Gli
Stati sono d’accordo che i criminali dovrebbero, normalmente, essere giudicati
dalle istituzioni nazionali, ma varie sono le ragioni che in certe situazioni
rendono preferibile una giustizia internazionale. Innanzitutto, quella di rompere
la spirale della vendetta e della rappresaglia, in quanto, c’è il rischio che
lo Stato territoriale, che più da vicino ha vissuto il dramma del conflitto o
della violazione sistematica dei diritti umani di cui si tratta, giudichi con
minore imparzialità i responsabili dei crimini. La storia, anche recente,
mostra che quando è il nuovo regime o la fazione risultata vincitrice dal
conflitto a giudicare i crimini commessi dalla parte avversa, gli strumenti di
giustizia finiscono per essere piegati a mezzi di vendetta. In secondo luogo, si deve
tenere conto del fatto che, la giustizia dello Stato difficilmente viene
attivata. Gli esempi di trattati internazionali che pongono il principio della
giurisdizione universale sono numerosi. Il principio stabilisce che tutti gli
Stati parti della Convenzione hanno “l’obbligo giuridico” di processare o
estradare i presunti autori dei crimini individuati dalla Convenzione
(principio dell’aut dedere aut judicare). Questa norma è rimasta
sostanzialmente disattesa. Solo recentemente vi è qualche caso di applicazione,
ma si tratta anche in queste sporadiche ipotesi, di interventi degli Stati
fondati su un interesse “nazionalistico”. Per esempio, l’interesse dell’Italia
a punire autori dei crimini commessi negli anni 70 e 80 dalla dittatura
argentina è dato dalla nazionalità italiana di alcune delle vittime dì quel
regime, oltre che dal carattere di crimine contro l’umanità che i fatti di
sparizioni forzate e tortura rivestono. L’Italia non interviene, tuttavia, a
perseguire argentini resisi colpevoli di crimini nei confronti di loro
connazionali, né interviene a punire ruandesi colpevoli di genocidio a danno di
altri ruandesi. L’esistenza di un Tribunale
internazionale permetterebbe di esercitare l’azione penale anche quando nessuno
Stato ha interesse a farlo. In terzo luogo, la giustizia
affidata ai singoli Stati finirebbe così per “minimizzare” l’entità del
crimine. I crimini che rientrerebbero nella competenza della Corte penale
internazionale sono crimini internazionali proprio perché il loro carattere
sistematico e l’entità dell’offesa da
essi recata non toccano solo la sfera personale degli individui, ma attentano
all’umanità stessa, in quanto violano beni considerati essenziali per l’intera
Comunità mondiale. Qualora tali crimini vengano perseguiti su iniziativa di un
solo Stato, la loro gravità rischia di essere sminuita. L’encomiabile atto di
giustizia del singolo Stato può in qualche modo avere l’effetto di sminuire il
carattere di offesa contro la specie umana che certi crimini rivestono,
dimostrando come l’entità della violazione sia stata effettivamente
riconosciuta solo da pochi e non dall’intera comunità internazionale. Infine, un’ultima ragione
può essere costituita dal fatto che lo Stato spesso non ha risorse sufficienti
per perseguire i crimini internazionali. Non di rado il carattere
internazionale di questi crimini non è legato solo alla loro gravità, ma anche
al dato geografico, ossia al fatto di aver esplicato i propri effetti in più
Stati o alla circostanza che i sospetti, i testimoni, le vittime si trovano
sparsi in paesi diversi. Per perseguire tali crimini le capacità di indagine di
un singolo Stato sono il più delle volte insufficienti e, comunque, si
scontrano con l’opposizione degli altri Stati a subire ingerenze territoriali.
Un Tribunale internazionale che fosse dotato di mezzi finanziari sufficienti e
di un apparato esecutivo adeguato alla natura internazionale delle indagini
avrebbe, invece, molte più probabilità di successo. Naturalmente, allo stato
attuale, questo successo è ancora fortemente condizionato dagli Stati che
tendono ad oppone la loro sovranità esclusiva non solo a fronte dell’ingerenza
investigativa” di uno stato terzo, ma anche di quella di un organismo
internazionale. Per questo motivo è essenziale che una Corte penale internazionale permanente sia
dotata dei poteri adeguati per ottenere
la collaborazione degli Stati che ne abbiano accettato la giurisdizione, in
tutte le fasi dell’azione penale. Non basta però un tribunale
internazionale, ma occorre anche che esso sia permanente, cioè precostituito
rispetto ai fatti criminosi su cui dovrà giudicare. L’alternativa è quella di
istituire di volta in volta dei tribunali speciali, ognuno con le proprie
regole, esponendosi al pericolo di indebolire il messaggio di giustizia e di
eguaglianza di cui ogni corte dovrebbe essere portatrice. L’istituzione di una
Corte permanente è necessaria per superare la logica dell’emergenza. Le
risoluzioni con le quali il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha
deciso l’istituzione dei Tribunali speciali per l’Ex Jugoslavia e il Ruanda
affermano il principio fondamentale secondo il quale il ricorso alla giustizia
internazionale è mezzo imprescindibile per ottenere il ristabilimento della
pace e della sicurezza. Nei casi dell‘Ex Jugoslavia e del Ruanda questo
principio non poteva oggettivamente tradursi nell’istituzione di una Corte
permanente, data l’urgenza di intervenire in situazioni di conflitto già in
atto. Tuttavia perché il principio affermato sia effettivamente rispettato è
indispensabile l’istituzione di un organo permanente in grado di attivarsi
immediatamente, senza dover ricercare il consenso sull’esigenza di intervenire
a punire i responsabili delle violazioni commesse. Una delle principali
critiche mosse ai Tribunali ad hoc è quella di attuare una “giustizia
selettiva” e da questo punto di vista, l’istituzione di un organo permanente
consentirebbe di superare la commistione fra giustizia e politica. Sulla base
del principio sopra indicato - quello secondo cui la via giudiziale è
presupposto essenziale per il ristabilimento della pace – ogni qualvolta
dovesse ripresentarsi una situazione di conflitto e la conseguente commissione
di crimini di guerra o di crimini contro l’umanità, le Nazioni Unite dovrebbero
istituire un Tribunale ad hoc per portare i responsabili dinnanzi alla
giustizia. Questo tuttavia non avviene sempre e regolarmente. Il Consiglio di
Sicurezza ha ritenuto necessario istituire Tribunali per i crimini commessi in
Ruanda ed Ex Jugoslavia, ma non per quelli che hanno tristemente reso note
l’Algeria, la Cecenia, l’Afghanistan, la Cambogia... La presenza di un
Tribunale Internazionale Permanente di cui fosse assicurata l’indipendenza
eviterebbe che il perseguimento dei criminali avvenisse sulla base di criteri
eminentemente politici. Si è parlato anche delle
conseguenze negative che i ritardi inerenti alla costituzione di un tribunale ad
hoc possono avere: una prova determinante può essere distrutta; gli autori dei
crimini possono fuggire o scomparire; i testimoni possono trasferirsi o essere
intimiditi. L’indagine diviene così estremamente costosa e l’ingente spesa per
tribunali ad hoc può attenuare la volontà politica necessaria per affidare loro
il mandato. Inoltre limiti di tempo e di
spazio, stabiliti per i tribunali ad hoc, possono lavorare contro gli interessi
della giustizia. Infine si deve tenere conto
delle forti critiche mosse all’istituzione di Tribunali speciali per il loro
possibile contrasto con i principi fondamentali del diritto penale. Tra i
principi fondamentali in materia di diritto penale, accanto al già visto
principio di responsabilità personale, vi è quello dell’irretroattività della
legge penale. Secondo tale principio, non si può essere puniti se non per un
fatto riconosciuto come reato al momento della sua commissione. Questo
principio ha come conseguenza diretta il fatto che la punizione di un crimine
richiede la presenza di un giudice “precostituito”. La giustizia penale
internazionale non può essere costruita attraverso eccezioni a tale principio.
Per questi motivi, la competenza dei Tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il
Ruanda è stata prudentemente circoscritta a quei fatti sui quali esisteva
sufficiente certezza circa la loro natura di crimini internazionali, per i
quali quindi esisteva un obbligo di conformarsi precedente alla creazione dei
tribunali; resta tuttavia il fatto che per poter ritenere un soggetto
penalmente responsabile occorre che egli sappia non solo che esiste una norma
che sanziona un certo comportamento, ma anche che esiste un giudice incaricato
di applicare quella nonna. Ad una giustizia internazionale parzialmente “a
posteriori”, come quella dei due tribunali speciali, non può che essere
preferita l’istituzione di un Tribunale internazionale permanente. CONCLUSIONI Le più clamorose vicende che
successivamente al 17 luglio 1998 hanno scosso l’opinione pubblica mondiale
(Kosovo, fermo di Pinochet, vicenda Ocalan), costituiscono la miglior riprova
di quanto è preziosa una giurisdizione internazionale: se un organismo di tale
tipo fosse stato operante i relativi processi avrebbero senz’altro trovato la
via ideale da percorrere. Nell’imminenza dell’entrata
in vigore dello Statuto di Roma sembra allora opportuno valutare quali siano i
limiti e le potenzialità che esso ha . La Corte è stata pensata per
pronunciarsi sui “crimini più gravi che riguardano l’intera comunità
internazionale”: i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra ed i crimini
contro la pace. Per questi atti lo Statuto prevede la responsabilità penale
individuale anche di persone che rappresentano lo Stato, in quanto
sono loro che
normalmente dispongono del potere e dei mezzi necessari per commettere
crimini di una tale enormità consacrando la regola tradizionale del diritto
penale internazionale dell’irrilevanza della qualifica ufficiale, che non può
costituire un motivo di esonero dalla responsabilità penale. Dall’idea che nessuno dei
partecipanti a reati di una tale atrocità deve rimanere impunito, deriva il principio
secondo il quale le persone che abusano del proprio potere (che questo sia
stato acquisito in modo legittimo o meno), ordinando la commissione di un
crimine internazionale, devono essere punibili quanto le persone che
obbediscono a tali ordini. Il regime attuale di
repressione dei crimini internazionali, fondato sul principio dell’universalità
della giurisdizione, permette ad un qualsiasi giudice nazionale di giudicare
una persona di qualunque nazionalità, accusata di atti commessi in qualsiasi parte
del mondo, anche se non previsti dalla legge penale dello Stato giudicante, in
forza della loro incriminazione da parte del diritto penale internazionale. Per
la Corte penale internazionale invece, è stato pensato un regime di
giurisdizione maggiormente limitato. Lo Statuto prevede la sua competenza
soltanto nei casi rispetto ai quali lo Stato dove è stato commesso il reato o
quello di nazionalità dell’accusato ne abbiano accettato la giurisdizione.La
giurisdizione universale è prevista dallo Statuto soltanto quando sia il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a deferire un caso alla Corte. Una tale limitazione ha
conseguenze negative rilevanti, in particolare quando in uno Stato sia al
potere un governo che commette crimini
di competenza della Corte nei confronti della propria popolazione: la Corte
potrebbe trovarsi nelle condizioni di dover chiedere il permesso d’agire agli
stessi carnefici che dovrebbe condannare. Il rifiuto di tali governi di
consentire che venga aperta un’inchiesta sul caso (come succede generalmente in
questo tipo di situazione) equivale alla concessione di un’immunità
giurisdizionale di fatto per i responsabili. Le situazioni che verranno
portate all’attenzione della Corte quindi saranno limitate probabilmente ai
casi che presentano una dimensione internazionale, in cui lo Stato dove è stato
perpetrato il reato è diverso da quello di nazionalità dell’accusato.
L’incapacità di agire del giudice penale internazionale rispetto agli altri
casi si può superare soltanto con un’adesione generalizzata della comunità
internazionale allo Statuto o qualora il Consiglio di Sicurezza sia determinato
a fare uso del suo potere di deferire dei casi alla Corte in maniera
sistematica. Questa seconda soluzione però porta con sé il rischio di compromettere in una certa misura
l’indipendenza (e di conseguenza l’imparzialità) della Corte, che farebbe
dipendere l’esercizio della sua giurisdizione dalle decisioni di un organo
politico. La persistente reticenza
degli Stati a rinunciare alla loro sovranità in materia penale si evidenzia
anche nella regola della complementarietà della giurisdizione della Corte
penale internazionale rispetto a quella
dei tribunali nazionali. La Corte non è destinata a sostituire i tribunali nazionali in materia di repressione di
crimini internazionali, né ha preminenza nei loro confronti. Il giudice penale
internazionale potrà intervenire soltanto rispetto a situazioni di sua
competenza che non siano oggetto di un’inchiesta o di un procedimento
giudiziario, in conformità con le regole del “giusto processo”, a livello
nazionale. In questo senso, la Corte
deve essere concepita come un meccanismo di garanzia del rispetto, da parte
degli Stati che avranno aderito allo Statuto, del loro “dovere” di processare
le persone accusate di crimini internazionali, e non come l’organo
esclusivamente o naturalmente competente in materia di repressione di questi
crimini. L’efficacia di questo meccanismo di garanzia sembra tuttavia limitata,
non essendo lo stesso destinato ad applicarsi a tutti i casi che rientrano
nella competenza dei giudici interni, competenza fondata sul principio della
giurisdizione universale. L’istituzione della Corte penale internazionale
costituisce comunque un progresso rispetto al sistema attuale di repressione dei
crimini internazionali. In un certo senso, la “qualità” di un’inchiesta o di un
processo a livello nazionale (cioè il rispetto da parte delle autorità
nazionali delle regole internazionali del “giusto processo”) sarà sottoposta al
controllo del giudice internazionale. La competenza della Corte è
limitata infine ai crimini internazionali che potranno essere commessi in
futuro, dopo l’entrata in vigore della convenzione. La volontà di “mettere fine
all’impunità”, espressa nel preambolo dello Statuto, si deve quindi
interpretare, non come una promessa di rimediare al passato, ma come
l’obiettivo di un processo che inizia con la creazione della Corte penale
internazionale. In conclusione, quindi, il
ruolo di un giudice penale sovranazionale è quello di evitare che persone
responsabili di crimina iuris gentium possano vivere nell’impunità perché nel
loro paese non esistono le condizioni necessarie affinché vengano sottoposte a
giudizio. Tuttavia i limiti imposti alla Corte penale internazionale
impediscono la soluzione definitiva di questo problema. I giudici internazionali
sono comunque chiamati a svolgere un ruolo importante, almeno nei casi che
rientrano nella competenza della Corte, se come in passato succederà che gli
Stati si rifiutino, o il sistema giudiziario di un paese si riveli incapace, di
giudicare i responsabili di crimini internazionali. Una volta entrata in
funzione la Corte, la sua attività forse dimostrerà l’interesse che casi di una
tale sensibilità politica vengano delegati ad un organo giudiziario
sovranazionale ed incoraggerà i governi a concederle dei poteri più estesi, in
occasione di un’eventuale revisione dello Statuto. In definitiva, dato che l’interpretazione che faranno i giudici dei
poteri loro conferiti porterà probabilmente ad un rafforzamento del loro ruolo
nella pratica, bisognerà aspettare l’entrata in vigore dello Statuto per vedere
se la Corte penale internazionale riuscirà nell’esercizio della sua funzione:
mettere fine all’impunità. Nell’elencare i gravi
avvenimenti che hanno colpito la comunità internazionale nel corso di questi
ultimi anni, non si è volontariamente fatto riferimento agli attentati
terroristici dell’11 settembre 2001 La scelta è stata
determinata dal fatto che attualmente la Corte non ha competenza per i cosiddetti
treaty crimes (fra i quali spiccano il terrorismo ed il traffico internazionale
di stupefacenti), anche se potranno in futuro rientrare nella giurisdizione
della Corte, a seguito di Conferenze di Revisione. L’esclusione di tali crimini
è stata motivata richiamando l’esistenza di un’efficace rete di cooperazione
nascente da obblighi assunti in sede convenzionale sia sul piano penale che
processuale per la repressione del terrorismo e del traffico di stupefacenti. In realtà la volontà di
reprimere il terrorismo internazionale solo sulla base di convenzioni
internazionali, sconta dei forti limiti, posto che le stesse consentono una
possibilità di cooperazione limitata in confronto alla estensione del fenomeno
e posto che continuerebbero a sussistere tutti i problemi relativi alla ricerca
della prova ed alla consegna dei responsabili dovuti al dominio riservato degli
Stati. La speranza, pertanto,
sarebbe quella di un’estensione della competenza della Corte, unico soggetto
che potrebbe garantire (per tutti i motivi visti in precedenza) un’adeguata
repressione di tale crimine. Note:
[1] L’Italia ha ratificato lo Statuto con legge n. 232 del 12 luglio 1999. [2] F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, p. 911. [3] N. LEVI, Diritto penale internazionale, 1949, pp 1-5, nota 16. [4] M. PISANI, La penetrazione del diritto penale internazionale nel diritto penale italiano, Indice pen., 1979, p. 5. [5] Si pensi ad esempio ad espressioni come “condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica totale o parziale” utilizzate nella definizione di genocidio. [6] Art. V: “Le Parti contraenti si impegnano ad emanare, in conformità alle loro rispettive Costituzioni, le leggi necessarie per dare attuazione alle disposizioni della presente Convenzione, ed in particolare a prevedere sanzioni penali efficaci per le persone colpevoli di genocidio o di uno degli altri atti elencati nell’art. III”. [7] La Commissione del diritto internazionale fu istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 174-II del 21 novembre 1947; con la risoluzione n. 177-II del 21 novembre 1947, le fu attribuito il compito di formulare i principi del diritto internazionale così come previsti dalla Carta del Tribunale di Norimberga e nelle sentenze dello stesso e di preparare un codice per i crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità. [8] A. TANZI, Sul progetto ONU di codice dei crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità e sull’istituzione di un tribunale penale internazionale, Critica pen. 1993, 6. [9] I cinque articoli del progetto del 1951 vennero ridotti a quattro con l’eliminazione dell’art. 5, riguardante la determinazione delle sanzioni. [10] L. CAVICCHIOLI, Sull’elemento soggettivo nei crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità, Riv. internaz. 1993, 1054. [11] In questo senso si è espresso, ad esempio, il delegato del Canada. [12] A. TANZI, op. cit., 11. [13] N. RONZITTI, Crimini internazionali, Enc. giur., X, Roma 1995, 6. [14] Principio accolto anche dal legislatore italiano [15] Per la ricostruzione storica cfr. M. FAVA, Verso l’istituzione di una Corte penale internazionale, Diritti dell’uomo 1997, 28. [16] In questo senso cfr. BASSIOUNI, International criminal law, New York, 1986. [17] M. BALBONI, Da Norimberga alla Corte penale internazionale, in G. ILLUMINATI – L. STORTONI – M. VIRGILIO, Crimini internazionali fra diritto e giustizia: dai Tribunali internazionali alle Commissioni Verità e Riconciliazione, Torino 2000, 5. [18] SG report UNSCs/25704/1993. [19] Per la ricostruzione storica del conflitto jugoslavo cfr. F. HARTMANN, Bosnia, in R. GUTMANN – D. RIEFF, Crimini di guerra, Roma 1999, 58. Interessante è inoltre la ricostruzione del sito Internet www.amnesty.it. [20]
Le notizie storiche sono tratte da M. HUBAND, Ruanda: il genocidio, in
R. GUTMANN – D. RIEFF, Crimini di guerra, Roma 1999, 322. Una
ricostruzione storica si può leggere, inoltre, sul sito Internet www.amnesty.it. [21]
I. BOTTIGLIERO, Il rapporto della Commissione di esperti sul Ruanda e
l’istituzione di un Tribunale internazionale penale, Comunità internaz. 1994, 760. [22]
A. CASSESE, Il Tribunale penale internazionale dell’ONU per i crimini nel
Ruanda, Dir. pen. proc. 1995,
294. [23] A. CASSESE, op. cit., 295. [24] A. CASSESE, op. cit., 295. [25] Cfr. Decision of the appeals
Chamber on the defence motion for interlocutory appeal on jurisdiction, in
Riv. dir. int., 1995, p. 1016 ss. Su queste stesse eccezioni
si era pronunciata con sentenza di rigetto la Camera di Prima istanza. Cfr. Decision of the Trial
Chamber on the defence motion on jurisdiction, 10 agosto 1995. [26] Naturalmente le considerazioni svolte dalla Camera d’Appello sono relative al Tribunale per la ex Jugoslavia, ma le stesse possono essere estese anche al Tribunale per il Ruanda. [27] In particolare per l’art. 42 cfr. B. CONFORTI, Le Nazioni Unite, V ed., Padova 1994, 197, il quale considera l’istituzione del Tribunale come una “misura rientrante tra le azioni di tipo bellico che il Consiglio sta conducendo nella ex Jugoslavia”. [28] L. CONDORELLI, Legalità, legittimità, sfera di competenza dei Tribunali penali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in F. LATTANZI – E. SCISO (a cura di), Dai Tribunali internazionali ad hoc a una Corte permanente, Napoli 1996, 47. [29] L. CONDORELLI, op. cit., 50. [30] CARELLA, Il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, in P. PICONE (a cura di), Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, Padova 1995, 478. [31] Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 50/46 dell’11 dicembre 1995. [32] Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 51/207 del 17 dicembre 1996. [33] Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 52/160 del 15 dicembre 1997. [34] Riunioni e temi affrontati dal PrepCom dal marzo 1996 all’aprile 1998: - PrepCom I, New York, 25 marzo-12aprile 1996: la giurisdizione ratione materiae della futura Corte ed il principio di “complementarietà” tra giurisdizione della Corte e competenza concorrente degli Stati. - PrepCom II, New York, 12-30 agosto 1996: i principi generali di diritto penale, le garanzie poste a tutela, le regole di procedura e di prova, la struttura organizzativa della futura Corte. - PrepCom III, New York, 11-21 febbraio 1997: ancora i crimini sui quali la Corte avrà giurisdizione ed i principi generali di diritto penale. - PrepCom IV, New York, 4-15 agosto 1997: il principio di “complementarietà”, i meccanismi di avvio dell’azione penale e le regole di procedura. - PrepCom V, New York, 1-12 dicembre 1997: la cooperazione internazionale e l’assistenza giudiziaria, i principi generali di diritto penale, le questioni procedurali, definizioni ed elementi costitutivi dei crimini di guerra, le pene applicabili. - PrepCom VI, New York, 15 marzo-3 aprile 1998: la composizione e la composizione della Corte, regole di procedura e prova, la relazione tra la Corte e le Nazioni Unite, la legislazione applicabile e principio del “ne bis in idem”, l’esecuzione delle sentenze della Corte. [35] Nel testo del progetto di Statuto, tali alternative si ritrovano o sotto forma di opzioni o racchiuse in parentesi quadre. [36] L’Italia ha ratificato lo Statuto con legge n. 232 del 12 luglio 1999. [37] In passato il numero di ratifiche necessario per l’entrata in vigore di un Trattato Internazionale ha oscillato fra 5 e 65, mentre le numerose proposte avanzate in sede di Comitato Preparatorio prevedevano da un numero minimo di 25 ad un massimo di 90 ratifiche. [38] Le ragioni per l’istituzione di una Corte permanente sono state espresse da Kofi Annan, Segretario Generale dell’ONU e sono riportate nel sito Internet www.onuitalia.it. |
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