inserito in Diritto&Diritti nel novembre 2003

L’ istituto della perquisizione nell’ esperienza processuale previgente il codice di procedura penale del 1988*

di Ivan Caradonna

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L’istituto della perquisizione nel processo penale presenta aspetti di notevole interesse, in quanto è testimonianza della tutela accordata dalle diverse legislazioni alla libertà personale e domiciliare del cittadino.

Non ignoto al diritto romano, l’istituto si presenta come un mezzo consentito al derubato per esercitare l’azione persecutoria spettatagli. Infatti, al di fuori dell’ipotesi in cui il proprietario dell’abitazione concedesse liberamente il proprio consenso alla perquisizione, la persona che entrava in una abitazione, per cercare degli oggetti che gli erano stati illecitamente sottratti doveva essere priva di indumenti, ad eccezione del “cinto” che i romani usavano sotto la veste, e con un piatto all’altezza del viso. Queste formalità, pur nel loro valore simbolico, miravano principalmente a garantire il sospettato autore del furto della sincerità dell’operazione[1].

Nel periodo del giureconsulto Ulpiano - cioè fine  II ed  inizio III secolo d.C. - sotto l’impero dei Severi, la perquisizione pur conservando l’originario carattere privatistico di manifestazione dell’attività rivendicatrice del derubato, presenta modalità di esecuzione maggiormente garantistiche per il soggetto che vi è sottoposto. Infatti, il derubato poteva procedere alla perquisizione solo con l’assistenza di un subalterno del magistrato (apparitor) dopo aver ottenuto l’autorizzazione del magistrato stesso e dopo che a mezzo di un bando, fosse stato reso noto l’oggetto della ricerca.

Un lontano precedente storico della perquisizione, intesa come attività diretta a reperire mezzi di prova, oggetti da confiscare ovvero intesa ad arrestare l’autore di un reato, è stato pure rinvenuto nel processo accusatorio dell’ultimo periodo della repubblica. Secondo le leggi che regolavano la procedura accusatoria di tale epoca, l’accusator che era un rappresentate privato e  volontario della collettività al quale era demandata la ricerca e la raccolta degli elementi di accusa, poteva accedere nell’abitazione dell’accusato o di terze persone o anche presso uffici e archivi pubblici, per richiedere l’esibizione di carte e documenti. Le cose rinvenute venivano quindi sigillate e consegnate al magistrato.

 Nell’evo medio e moderno  e fino alle grandi codificazioni, la perquisizione si configura sempre come un atto di iniziativa del derubato anche se, in alcuni casi, era richiesta l’autorizzazione del magistrato..

La ventata riformatrice del 1789 portò in Italia, con le armate napoleoniche, le leggi francesi di procedura penale del 1789, del 1791 e del 1796, emanate dai governi rivoluzionari e che poi, coordinate ed elaborate, furono trasfuse nel codice di istruzione criminale entrato in vigore nel 1811, i cui principi abbandonando - in coerenza con il carattere dittatoriale del regime politico istaurato - il sistema totalmente accusatorio, realizzavano un parziale ritorno verso il sistema inquisitorio.

Allo spirito informatore del codice di istruzione criminale francese si ispirarono numerosi codici italiani di procedura penale del secolo XIX, ed in particolare, il codice di procedura penale del Regno d’Italia, elaborato dal Romagnosi e promulgato a Milano nel 1807.

Ed è proprio nella legislazione preunitaria che l’istituto comincia a delinearsi secondo una configurazione giuridica ben definita, assai vicina a quella vigente e soprattutto finalizzata a garantire da abusi il destinatario dell’atto. Le leggi disciplinavano sia i presupposti di  legittimazione, sia il tempo e le modalità di esecuzione.

Tra queste leggi merita particolare rilievo – per caratteristiche di autonomia, originalità e riformismo – il codice borbonico del 1819, anch’esso, nelle linee generali, di ispirazione francese[2].

Un altro momento saliente della nostra analisi ha per oggetto il codice penale per il regno d’Italia del 1865, il quale si colloca nell’ambito di influenza del processo penale napoleonico originario e risulta solo in parte toccato dalle modifiche che nel frattempo vengono apportate in Francia.

Prima di esaminare le norme dettate da questo codice in tema di perquisizione, è conveniente rilevare che l’art.27 dello Statuto Albertino assicurava l’ inviolabilità del  domicilio e stabilendo che ogni deroga a tale principio non poteva avere luogo se non in forza di legge e nelle forme da essa prescritta.

Questa disposizione esercitò poca influenza garantistica sulla legislazione ordinaria in tema di restrizioni della libertà domiciliare in quanto, alla proclamazione dell’inviolabilità del domicilio, non faceva seguito alcuna concreta indicazione dei casi nei quali era consentito effettuare perquisizioni domiciliari e delle procedure da seguire, limitandosi a demandare alla legge ordinaria ogni determinazione di concreti contenuti normativi.

  In verità il codice di procedura penale del 1865, pur dimostrando il tentativo del legislatore di conciliare il principio dell’inviolabilità del domicilio, sancito dall’art. 27 dello Statuto, con gli scopi del processo penale, si limitò, in tema di perquisizioni domiciliari a pochi parziali ed inorganici accenni ai casi nei quali era possibile compiere gli atti in esame, la cui disciplina, per altro, si diversificava a seconda della qualifica dell’ufficiale di polizia giudiziaria procedente.

Secondo il sistema tratteggiato da questo codice gli ufficiali di polizia giudiziaria del c.d. terzo ordine (guardie campestri e agenti di pubblica sicurezza) potevano procedere a perquisizioni nelle case, officine, fabbricati, ecc…, ogni qualvolta ravvisassero la necessità di porre sotto sequestro “gli oggetti del reato o quelli che sono serviti a commetterlo” e purché fossero accompagnati da un ufficiale di polizia giudiziaria di grado superiore.

Avverso questa disposizione si levò la voce nella dottrina dell’epoca la quale sosteneva la necessità di consentire la perquisizione soltanto nelle ipotesi di flagranza di reato, rilevato che la citata normativa consentiva che il domicilio privato rimanesse assolutamente abbandonato all’arbitrio degli organi di polizia che, sotto il pretesto di rinvenire le tracce di un reato, avrebbero potuto penetrarvi quando e come avessero voluto. Gli ufficiali di polizia giudiziaria di grado superiore (ufficiali e bassi ufficiali dei carabinieri, delegati ed applicati di pubblica sicurezza, sindaci) potevano procedere a perquisizioni domiciliari soltanto quando vi fosse “pericolo nell’indugio”; condizione questa estremamente generica che consentiva un largo margine di discrezionalità. Era altresì richiesto che l’abitazione in cui si doveva eseguire la ricerca fosse “dell’imputato o di ogni altra persona sospettata di connivenza”. Il che comportava che a carico di questi soggetti sussistessero “indizi di reità o sospetti di connivenza” che dovevano essere “seri, fondati e concludenti”. La dottrina più sensibile, nel rispetto della garanzia dell’inviolabilità del domicilio, subordinava il potere perquirente degli ufficiali di polizia giudiziaria, previsto dal citato art.64, anche alla condizione della flagranza del reato argomentando il fatto che il potere di arresto, riconosciuto agli ufficiali in questione e regolato dallo stesso articolo, era esercitabile soltanto nell’ipotesi di flagranza di reato. Ai sensi dell’art. 121 della legge 30 giugno 1899 n.6144, ad esempio, gli ufficiali di pubblica sicurezza potevano procedere in presenza di gravi indizi di reità a perquisizioni nelle abitazioni delle persone sottoposte alla misura della sorveglianza speciale, anche al di fuori dello stato di flagranza e senza osservare alcuna formalità.

Con l’avvento del codice di procedura del 1913 che, a ragione, è stato considerato il primo codice veramente italiano, si assiste ad un decisivo passo in avanti in ordine alla tutela dei diritti dell’imputato, in quanto si realizza la massima espansione, consentita dai tempi, delle esigenze di tutela della libertà personale e del diritto di difesa.

Un primo elemento positivo ed importante risiede nel fatto che il codice del 1913, a differenza di quello precedente e per la prima volta nell’esperienza legislativa italiana, prevede e disciplina, accanto alla perquisizione domiciliare, la perquisizione personale.

La novità risultava però notevolmente compromessa dal fatto che le due ipotesi di perquisizione erano conglobate nelle medesime disposizioni, mentre sarebbe stato più opportuno disciplinarle separatamente in considerazione della importanza e dei pericoli delle perquisizioni personali. Inoltre, per il compimento di tale atto non era prevista l’osservanza delle garanzie difensive previste per la perquisizione domiciliare. L’unica regola concernente specificatamente le perquisizioni personali era stabilita dall’art.236 secondo cui per evidenti ragioni di ordine morale la perquisizione sul corpo di una donna, salvo in casi di materiale impossibilità doveva essere eseguita da un’altra donna.

Fra le modifiche più significative apportate dal codice in questione all’istituto della perquisizione si possono ricordare: la previsione di presupposti più rigorosi nel settore delle perquisizioni compiute autonomamente dagli organi di polizia giudiziaria, la previsione del diritto del difensore di assistere alle perquisizioni domiciliari, la previsione dell’obbligo per il pubblico ministero di richiedere sempre, salvo in caso di flagranza di reato, il compimento della perquisizione domiciliare al giudice istruttore.

Più precisamente, gli ufficiali di polizia giudiziaria e, quando per circostanze di tempo e di luogo non era possibile il loro intervento, gli agenti potevano compiere perquisizioni personali e domiciliari di propria iniziativa, in presenza di particolari condizioni che dovevano concorrere cumulativamente (art. 167 c.p.p.).

Si disponeva che dovesse sussistere sia la flagranza di reato , sia il fondato motivo per ritenere che sulla persona o nel domicilio da perquisire si trovassero cose da sottoporre a sequestro, ovvero che nel domicilio si potessero rinvenire tracce del reato suscettibili di essere cancellate o disperse, o che vi avesse trovato rifugio l’imputato inseguito o evaso. In realtà “col fondato motivo di ritenere che” si voleva mantenere un ampio margine d’azione alla polizia giudiziaria, già abbastanza limitata nei suoi poteri perquirenti dalla tassativa condizione della flagranza di reato.

La perquisizione nelle abitazioni e nei luoghi chiusi adiacenti ad essa, di regola,  non poteva iniziare prima della levata del sole né dopo il tramonto, senza il consenso dell’interessato, solo in casi urgenti il giudice istruttore o il pretore potevano disporre che le operazioni fossero iniziato anche in orari notturni. Immediatamente prima di dare inizio alle operazioni, l’organo procedente doveva consegnare alla persona che subiva la perquisizione copia del decreto che ordinava l’atto con l’invito ad assistervi o a farsi rappresentare.

Il diritto del difensore di assistere al esecuzione di alcuni atti istruttori non si estendeva alle perquisizioni domiciliari compiute autonomamente dalla polizia giudiziaria, né alle perquisizioni personali, fossero esse compiute dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero o dal giudice istruttore.

Deve darsi atto però che il legislatore del 1913 pur non estendendo alle perquisizioni personali le garanzie difensive previste per le perquisizioni domiciliari, aveva previsto il diritto dei difensori di esaminare i processi verbali, oltre che degli atti cui avevano diritto di assistere e ciò al duplice scopo di favorire l’esercizio della difesa e di raggiungere la maggiore celerità nel procedimento istruttorio.

Per finire, la disciplina delle perquisizioni nel sistema processuale del 1913, pur confermando che l’orientamento di fondo era di apertura per la tutela delle libertà fondamentali e del diritto di difesa dell’imputato, mette in luce il persistere di elementi autoritari particolarmente accentuati. Basti considerare, il disposto dell’art.167 c.p.p. secondo il quale le disposizioni sulle perquisizioni di polizia giudiziaria contenuta nel codice si applicavano senza pregiudizio di ciò che è stabilito in altre leggi. Ed invero, numerose leggi speciali derogando alle garanzie previste dal codice di rito penale incidevano gravemente sul diritto di libertà.

Il codice di procedura penale del 1930, per l’avvenuto mutamento di indirizzo politico, segnò una netta battuta d’arresto nella sua evoluzione legislativa, ricco com’era di disposizioni che conferivano poteri esorbitanti alla polizia giudiziaria o che attribuivano pericolosi privilegi al pubblico ministero o che non garantivano in modo adeguato la libertà personale dell’imputato o che prevedevano troppo scarse possibilità difensive.

Nel 1931 entrò in vigore il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza,   che all’art. 41 legittima gli organi di polizia giudiziaria ad effettuare perquisizioni domiciliari di propria iniziativa per ricercare armi, munizioni e materie esplodenti. Ad essa - in quel particolare momento storico -  si fece ricorso per eludere le garanzie poste dal codice di procedura penale a tutela del domicilio. Per cui, in forza di questa disposizione gli organi di polizia furono legittimati ad operare perquisizioni domiciliari sempre e dovunque senza bisogno di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, con il risultato che fu completamente vanificato il principio d’ inviolabilità del domicilio.

Un gran passo avanti verso la tutela delle libertà fondamentali si realizzò con il r.d.l. n.45 del 20.01.1944 che modificò l’art.224 c.p.p., circondando di maggiori garanzie l’istituto della perquisizione personale e domiciliare di polizia giudiziaria e stabilendo espressamente l’obbligo del controllo su di essa da parte dell’autorità giudiziaria. Secondo il nuovo testo, l’ufficiale di polizia giudiziaria era legittimato ad effettuare, anche in tempo di notte, perquisizioni (personali e domiciliari), ferme restando le condizioni legittimatici della flagranza e dell’evasione. Ma  non fu questa la sola innovazione introdotta in materia dalla riforma del 1944, venne anche stabilito espressamente il divieto per gli organi di polizia giudiziaria di effettuare perquisizioni in tempo di notte in ogni altro caso che non rientrasse nella disciplina del nuovo art. 224 c.p.p., compreso quello previsto dall’art. 41 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. In tale ipotesi la perquisizione doveva essere autorizzata dall’autorità giudiziaria con decreto motivato dopo l’enunciazione degli indizi e delle ragioni di sospetto che gravavano a carico del soggetto nei cui confronti doveva eseguirsi la perquisizione.

La Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948 delineò, per la prima volta, nella nostra esperienza legislativa, un quadro delle garanzie dell’imputato sufficientemente articolato ed inserito in una più ampia tutela dei diritti inviolabili delle persone e determinò quindi una svolta nella legislazione e nella giurisprudenza in ordine alla tutela delle libertà del cittadino, contro pericoli di abusi da parte dell’autorità. Tra i principi salienti sanciti dalla costituzione, primari ai fini della regolamentazione dell’istituto della perquisizione, ricordiamo gli artt.13, 14 e 24 comma 2°.

L’art. 13 Cost., dopo aver statuito che la libertà personale è inviolabile e che non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge, stabilisce che, in casi eccezionali di necessità e di urgenza indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori che debbono essere trasmessi entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e perdono effetto se non sono convalidati nelle successive quarantotto ore.

Il citato art. 14 pone il fondamento della libertà domiciliare, stabilisce che il domicilio è inviolabile e che non vi si possono eseguire ispezioni, perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte a tutela della libertà personale, operando in tal modo un rinvio recettivo alle garanzie prescritte dall’art.13 co. 2° e 3°. Come ben si nota, questi articoli fissano le tassative condizioni per l’esercizio del potere perquirente degli organi statuali[3].

Per quanto riguarda gli organi di polizia, il potere perquirente, oltre che essere assoggettato alla riserva di legge in forza della quale “i casi eccezionali di necessità ed urgenza” devono essere legislativamente individuati con previsione tassativa, è caratterizzato dalla provvisorietà e dal conseguente obbligatorio controllo da parte dell’autorità giudiziaria.

Inoltre, l’art. 24 co. 2 Cost. stabilisce che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Peraltro, non si deve dimenticare l’ulteriore garanzia a tutela della libertà personale, riconosciuto all’imputato dall’art. 111. 

Di fronte a queste disposizioni, risultava evidente, in modo inequivocabile, l’illegittimità dell’art. 224 del codice di procedura penale del 1930, nei limiti in cui non fissava i termini di tempo voluti dalla costituzione per la trasmissione del verbale di perquisizione all’autorità giudiziaria e per la successiva convalida da parte di quest’ultima, e in quanto non consentiva adeguate garanzie difensive nel compimento della perquisizione.

Con la legge 18.06.1955 nr. 514 si venne a realizzare l’indispensabile adeguamento di alcune disposizioni del codice di procedura penale ai principi sanciti dalla Costituzione, soprattutto realizzando una più efficace tutela della libertà individuale con l’attuazione delle garanzie giurisdizionali in ordine ad una sua eventuale limitazione ed un potenziamento del diritto di difesa nella fase istruttoria del processo.

Segnatamente, per quanto concerne le perquisizioni disposte nell’istruzione formale, l’art. 304 bis c.p.p. introdotto da questa legge, stabiliva il diritto dei difensori di assistere alle perquisizioni domiciliari, agli esperimenti giudiziari, alle perizie ed alle ricognizioni, mentre l’imputato e la persona offesa erano legittimati ad intervenire a questi atti istruttori soltanto se il giudice istruttore lo riteneva necessario ovvero se il pubblico ministero o i difensori ne facevano richiesta.

Per finire secondo l’art. 304 quater c.p.p., sempre nel testo della riforma del 1955, i difensori avevano diritto alla tempestiva conoscenza (attraverso il deposito ed il successivo avviso) non soltanto degli atti relativi alle operazioni alle quali hanno diritto di assistere; ma anche degli atti relativi dell’interrogatorio dell’imputato, al sequestro, alle ispezioni e alle perquisizioni personali[4]. Progressivamente, si assisterà ad una estensione dei diritti di difesa e di libertà personale e domiciliare all’imputato sin dalla prima fase delle indagini.

         Agli inizi degli anni Settanta, una parte minoritaria di quella cospicua area di sinistra uscita dalle lotte studentesche e operaie del Sessantotto, in parte perché suggestionata da tematiche rivoluzionarie, in parte perché spinta da una situazione politica ritenuta bloccata, individuò nella lotta armata contro le Istituzioni dello Stato l'unica via praticabile per le classi popolari per conquistare la rappresentatività loro negata. La strategia terroristica, condotta da una miriade di organizzazioni armate di sinistra (Brigate Rosse in primo luogo, poi Prima Linea, Nuclei armati proletari, Nuclei comunisti combattenti ecc.) è costata al paese un drammatico conflitto sociale, molte vite umane e una ferita ancora lontana dal rimarginarsi.

Alla fine degli anni Sessanta si inaugurò in Italia quella che è stata chiamata "strategia della tensione", in cui operava una manovalanza di solito proveniente dai movimenti neofascisti (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero ecc.).

A tutela dell’ordine pubblico, sotto la spinta dei suindicati gravi fatti delittuosi a crescente diffusione e conseguente allarme sociale, sono stati introdotti nel nostro ordinamento una serie di leggi e decreti legge. Legislazione di emergenza con la quale si è cercato di fronteggiare il fenomeno della criminalità terroristica di matrice politica.

Il nuovo indirizzo palesemente incline, da un lato a spostare la competenza delle repressione penale dall’autorità giudiziaria alla polizia giudiziaria accentuandone il ruolo di protagonista nella fase genetica del processo penale e, dall’altro, ad ampliare i poteri  di polizia di sicurezza sia di tipo coercitivo che di tipo investigativo, non poteva non riflettersi nel settore delle perquisizioni che costituiscono, indubbiamente, uno degli strumenti più validi sia per prevenire sia per reprimere le più gravi manifestazioni di criminalità. Da un orientamento di apertura per le esigenze di garanzia della persona si è così passati ad un sistema caratterizzato dal prevalere delle esigenze di difesa sociale e dell’accertamento della verità sulla tutela dei diritti individuali.

In questa prospettiva si è soprattutto collocata la legge 22 maggio 1975 n. 152 – a tutela dell’ordine pubblico – che ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova ipotesi di perquisizione personale che, per la sua operatività anche in assenza di illeciti penali, appare riconducibile all’attività di prevenzione dei reati  e di tutela dell’ordine pubblico.

E’ da osservare che, nonostante la legislazione dell’emergenza nel trattamento dei diritti dell’imputato presenti molti punti di contatto con la disciplina entrata in vigore nel 1931, non è possibile istituire un’ assimilazione tra gli obiettivi e i metodi del legislatore fascista e quelli propri del legislatore repubblicano, in quanto il primo perseguiva apertamente, anche nell’ambito del processo penale, obiettivi autoritari, mentre il secondo opera, anche nell’adozione di misure meno liberali, mosso dall’urgenza oggettiva di difendere la democrazia repubblicana  da spinte eversive dell’ ordinamento costituzionale[5].

Mentre la perquisizione ex art. 41 t.u.l.p.s. è  solamente domiciliare, quella prevista e regolata dall’art. 4, legge 22.5.1975 n. 152  è prettamente personale con possibilità di estendersi anche al veicolo che in ipotesi il soggetto abbia utilizzato per giungere sul posto. Le finalità sono pressoché identiche: anche in questo caso, infatti, si tratta di accertare il possesso di armi, esplosivi o strumenti di effrazione, sicché, in pratica, le due disposizioni finiscono per completarsi nel senso di fornire agli organi di polizia, per i precisati effetti, entrambi i poteri perquirenti.

Ai sensi della citata norma, in casi eccezionale di necessità ed urgenza, che non consentono un tempestivo provvedimento dell’autorità giudiziaria, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria e della forza pubblica nel corso di operazioni di polizia possono procedere oltre che all’identificazione, all’immediata perquisizione sul posto, al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento o la circostanza di luogo e di tempo non appaiono giustificabili.

In tal caso le perquisizioni può estendersi, per le medesime finalità, al mezzo di trasporto utilizzato dalle persone per giungere sul posto.

Atteso che la norma disciplina l’attività di pubblica sicurezza, la stessa non è una disposizione processuale, per cui la sua vigenza non è esclusa neppure da quanto previsto dall’art. 35 stessa legge, che stabilisce l’applicazione delle disposizioni processuali contenute nelle leggi in esame sino all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale.

Secondo la dottrina[6] la natura dell’istituto è a carattere preventivo e- a di differenza della perquisizione ad iniziativa della polizia giudiziaria (subordinata all’avvenuta consumazione di un reato) -la perquisizione sul posto si caratterizza per il fatto che tende ad impedire la consumazione di reati, in particolare di quelli connessi al possesso di armi, esplosovi e strumenti di effrazione.

Nell’esaminare se la norma, si ponga in sintonia con l’art. 13 comma 2° Cost., la dottrina rilevava che la stessa conteneva quelle specificazioni dei casi eccezionali di necessità ed urgenza che il dettato costituzionale demanda alla legge ordinaria.

Gli estremi della “necessità” e della “urgenza” potrebbero ritenersi integrati dall’impossibilità di un tempestivo provvedimento dell’autorità giudiziaria ed inoltre dal sospetto del possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, da parte di persone il cui atteggiamento o la cui presenza in una determinata situazione, individuata nel luogo e nel tempo e dal luogo e dal tempo qualificata, non appaia giustificabile. L’obiezione che il possesso di armi, esplosivi o strumenti di effrazione non sembra implicare sempre di per sé un pericolo immediato per la sicurezza e l’incolumità pubblica, perderebbe valore di fronte al rilievo che, in casi del genere, mancherebbero in realtà gli estremi stessi per procedere alla perquisizione sul posto, dovendosi ritenere possibile l’intervento tempestivo del magistrato. L’estremo della tassatività sfuma certo di molto nell’art. 4 l. n. 152 del 1975, ma nemmeno esso può dirsi ignorato. Infatti, la perquisizione non è ammessa in via discrezionale e indiscriminata, ma al solo fine di accertare il possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, unicamente durante un’operazione di polizia e a condizione che sia impossibile un tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria. Inoltre, non può essere diretta nei confronti di chiunque, ma solo di coloro che, con la loro presenza o atteggiamento, suscitino, in base a fatti certi, specifici e concordanti, da indicare nel verbale della perquisizione, almeno il fondato sospetto della detenzione del materiale suddetto. La perquisizione è inoltre suscettibile di estendersi al mezzo di trasporto solo se vi sia la sicurezza che quest’ultimo sia stato utilizzato per giungere sul posto. Tutte le condizioni indicate devono, infine, sussistere congiuntamente: la mancanza di una sola di esse renderebbe la perquisizione illegittima[7].

I presupposti della perquisizione in esame sono costituiti: a) dalla ricorrenza di casi eccezionali di necessità ed urgenza, che non consentono un tempestivo provvedimento dell’autorità giudiziaria; b) dalla sussistenza di operazioni di polizia, sia quelle programmate a “vasto raggio”, sia quelle svolte di norma dalle singole pattuglie; si ritiene che debba essere esclusa la possibilità di perquisire da parte dell’ufficiale e dell’agente che è impegnato in una specifica attività di p.g.; c) dall’atteggiamento o dalla presenza della persona da perquisire non giustificabile, in relazione a specifiche e concrete circostanze di tempo e di luogo. Dalla generica descrizione si deduce che la perquisizione è ammissibile sol che l’atteggiamento o la presenza del soggetto, valutati in relazione al luogo e al tempo in cui si manifestano, appaiano prima facie non plausibili con riferimento alla situazione spazio-temporale; dalla finalità di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione “la verificazione dell’esistenza in concreto, al momento dell’azione, di questo fine è quanto mai problematica, se non impossibile, in quanto la legge non indica criteri oggettivi alla cui stregua possa essere valutata la motivazione dell’atto di perquisizione. Nonostante l’estrema imprecisione del testo dal punto di vista tecnico, l’unico criterio ermeneutico  che appaia valido è quello di collegare quest’inciso a quello esaminato sub c), nel senso che l’intervento sarà giustificato e legittimo solo quando dall’atteggiamento o dalla presenza di una persona in un certo luogo ed in un certo tempo si possa dedurre l’eventualità che essa detenga armi, esplosivi o strumenti di effrazione”[8].

Si ritiene che la perquisizione personale deve essere eseguita sul posto; in caso di assenso del perquisendo, la stessa, a garanzia della riservatezza dello stesso può effettuarsi in ufficio di polizia[9].

Secondo la Cass. 17.1.83, l’immediata perquisizione sul posto può legittimamente essere continuata e completata nella sede dell’ufficio di polizia.

In ordine alla convalida, va osservato che essa non è prevista, ma si considera applicabile l’istituto previsto dall’art. 13 Cost., dato che soltanto a tale fine può tendere la trasmissione del verbale al Procuratore della Repubblica.

Note:

*Intervento dell’Autore al ciclo di studi sul processo penale organizzato dal Circolo di studi politici e giuridici “ Augusto del Noce” (Napoli, 4-8 febbraio 2002).

 

[1] Cfr.A.SCAGLIONE, Le perquisizioni nel codice di procedura penale e nelle leggi speciali, Cedam, Padova 1987, p. 6.

 

[2] Cfr. G. BELLANTONI, Perquisizioni,in Ecicl. Giur. Treccani, XXIII, 1990. 

[3] P. BALDUCCI, Perquisizioni, in Encicl. Dir. XXXIII, 1983.

[4] Cfr A. SCAGLIONE, op.  cit. pp. 8-30.

[5] Cfr. SCARAPONE, Evoluzione e involuzione del diritto di difesa, Milano 1980, p. 73.

 

[6] E. BASSO, Art. 225 n. coord. C.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale,  coordinato da M. Chiavaro, Normativa complementare, p.145.

[7] G.CALESINI, Leggi di pubblica sicurezza e illeciti amministrativi, Laurus Robuffo, Roma 2000. 

[8] Cfr. P.L. VIGNA e G. BELLAGAMBA, La legge sull’ordine pubblico, Giuffrè, Milano 1975, pp. 43-45.

[9] Cfr, IBIDEM pp. 45-47.