La riforma del diritto penale societario e la responsabilita’ amministrativa delle societa’ *** di
Maurizio Arena E’ stato approvato dal Consiglio dei ministri dell’11
gennaio 2002 lo schema di decreto legislativo attuativo della delega contenuta
nell’art 11 della legge 3 ottobre 2001 n. 366 (Riforma del diritto societario). La versione definitiva verrà approvata dopo i pareri delle
Camere, prescritti dalla legge-delega (art 1 comma 4). - La
delega contenuta nella legge n. 366/2001 - L’art 11 delegava il Governo a riformare gli illeciti penali
ed amministrativi presenti nel codice civile. In particolare l’art 11 lett. h (si noti: ancora un art 11,
dopo quello “storico” della legge n. 300 del 2000) prescriveva di introdurre,
nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi contenuti nella legge 29
settembre 2000 n. 300 e nel decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, una
specifica disciplina della responsabilità amministrativa delle società in
relazione alla commissione di taluno dei reati indicati nelle lettere a) e b)
dello stesso articolo. Presupposto di tale imputazione è la commissione del reato
medesimo “nell’interesse della società” da parte di amministratori, direttori
generali o liquidatori o da persone sottoposte alla vigilanza di questi ultimi,
qualora il fatto non si sarebbe realizzato se essi avessero vigilato in
conformità degli obblighi inerenti alla loro carica. In sede di primo commento avevo rilevato il riferimento -
più generico rispetto alla legge n. 300 e al d.lg. n. 231 - al criterio di
imputazione oggettiva del reato all’ente: la legge n. 366 parla soltanto di
reato commesso “nell’interesse” della società e non anche “a vantaggio” della
stessa. Tuttavia il rinvio ai princìpi e criteri direttivi della
normativa in vigore sembrava consentire un’estensione dei medesimi presupposti
nella stessa previsti anche all’emanando decreto legislativo. La disciplina riguarda poi le sole società commerciali: la
rubrica dell’art 11 della legge 366 è inequivoca sul punto. Sempre secondo la delega, i soggetti che possono “impegnare”
la società sono gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori o
anche le persone sottoposte alla loro vigilanza. Viene poi espressamente equiparata l’amministrazione di
fatto a quella derivante da qualifiche ufficiali: si tratta ormai di un
orientamento legislativo consolidato (ribadito già nella legge n. 300), che
recepisce una giurisprudenza che non annovera voci dissenzienti. Infatti l’art 11 lett
e) dispone che qualora
l’autore della condotta punita sia individuato mediante una qualifica o la
titolarità di una funzione prevista dalla legge civile, al soggetto formalmente
investito della qualifica o titolare della funzione è equiparato, oltre a chi è
tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, anche chi, in
assenza di formale investitura, esercita in modo continuativo e significativo i
poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. Inoltre si stabilisce che, fuori dei casi di applicazione
delle norme riguardanti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si
applicano anche a coloro che sono legalmente incaricati dall’autorità
giudiziaria o dall’autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o
i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi. I reati che potranno far scattare la responsabilità della
società saranno quelli di cui alle lettere a) e b) dell’art 11, che il governo
avrebbe dovuto riformulare con il decreto legislativo. Tra queste ipotesi criminose rientrano anche le inedite
figure dell’infedeltà patrimoniale e del comportamento infedele. Ebbene si è subito messa in rilievo la singolare previsione
di responsabilità della società per condotte simili, che sono poste in essere
contro l’interesse ed in danno della società stessa. L’infedeltà patrimoniale consiste nel fatto degli
amministratori, direttori generali e liquidatori, i quali, in una situazione di
conflitto di interessi, compiendo o concorrendo a deliberare atti di
disposizione dei beni sociali al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto
profitto, ovvero altro vantaggio, intenzionalmente cagionano un danno
patrimoniale alla società. Il comportamento infedele è quello degli amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e
responsabili della revisione, i quali, a seguito della dazione o della promessa
di utilità, compiono od omettono atti in violazione degli obblighi inerenti al
loro ufficio. Tale esclusione è appunto stata motivata con questo
ragionamento: il reato commesso con abuso di posizione non può essere inteso
come commesso nell’interesse della persona giuridica. Il giudice competente per i reati societari sarà il
Tribunale in composizione collegiale, il quale quindi sarà anche il giudice
naturale delle società coinvolte ai sensi dell’art 36 del d.lg. 231. Infine, soprattutto nell’ottica della quantificazione della
sanzione amministrativa pecuniaria, andrà considerata la particolare
circostanza attenuante che avrebbe dovuto essere introdotta, in ossequio al
principio di offensività concreta (art 11 lett. d), “qualora il fatto abbia cagionato un’offesa di particolare
tenuità”. In altri termini il danno di
particolare tenuità potrà rilevare innanzitutto ai fini della riduzione della
pena per la persona fisica, ma anche, in seconda battuta, della sanzione pecuniaria
per la società, stante il disposto dell’art 11 del d.lg. 231 (nel quadro della
ridotta gravità del fatto). - Lo
schema di decreto legislativo - La Commissione presieduta dal sottosegretario alla Giustizia
Vietti, ha predisposto in tempi brevissimi, uno schema di decreto delegato con
il quale si sostituisce per intero il Titolo XI del libro V del codice civile
(Disposizioni penali in materia di società e consorzi). In particolare viene introdotto l’art 25-ter al d.lg. n. 231 (art 3). Come si vede, il d.lg. 231 è un vero e proprio contenitore
delle ipotesi di corporate liability, di
quelle esistenti e di tutte quelle che verranno introdotte in un futuro
prossimo: si ricordi che già il D.L. n. 350/2001 aveva inserito un art 25-bis, in materia di falsificazioni
nummarie connesse all’entrata in vigore dell’euro. Nel nuovo art 25-ter
vengono indicate, per ciascuna nuova violazione, le cornici edittali delle
sanzioni amministrative pecuniarie irrogabili alle società. In altri termini: il numero minimo e massimo delle quote,
secondo il nuovo meccanismo di commisurazione delle sanzioni pecuniarie
previsto dal d.lg. n. 231. In particolare la sanzionabilità delle società commerciali
viene prevista in relazione alla commissione dei seguenti reati: falsità in bilancio, nelle relazioni o nelle altre
comunicazioni sociali previste dalla legge (artt 2621 e 2622 c.c.); falso in prospetto (art 2623); falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni della società
di revisione (art 2624); impedito controllo, se ne deriva un danno ai soci (art
2625); formazione fittizia del capitale (art 2632); indebita restituzione dei conferimenti (art 2626); illegale ripartizione degli utili e delle riserve (art
2627); illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della
società controllante (art 2628); operazioni in pregiudizio dei creditori (art 2629); indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei
liquidatori (art 2633); illecita influenza sull’assemblea (art 2636); aggiotaggio (art 2637); ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità
pubbliche di vigilanza (art 2638). Non è prevista invece la responsabilità dell’ente in
relazione ai delitti di infedeltà patrimoniale e di comportamento infedele, per
le ragioni sopra esposte: si tratta di condotte contrarie all’interesse della
società, che arrecano o possono arrecare un danno alla stessa. Per altra evidente ragione non coinvolge la società nemmeno
la commissione degli illeciti amministrativi di impedito controllo (senza danno
ai soci) e di omessa convocazione dell’assemblea, appunto in quanto non cè un
previo reato della persona fisica. Si aggiunge che se l’ente ha conseguito dal reato un
profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo
(art 3 comma 2). Infine nei casi di condanna in relazione a taluno dei
delitti appena visti, si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste
dall’art 9 comma 2 del d.lg. 231, per una durata non superiore ad un anno (art
3 comma 3). Non deve fuorviare la dizione “si applicano” che sembra
imporre un’applicazione automatica delle sanzioni interdittive. Ai sensi dell’art 13 del d.lg. 231, per l’applicazione di
una sanzione interdittiva deve pur sempre ricorrere l’ipotesi del profitto di
rilevante entità o la reiterazione degli illeciti da parte della società. Una prima lettura dello schema di decreto in esame consente
alcune considerazioni critiche. In primo luogo, il d.lg. non si limita – come il d.l. 350
menzionato – ad introdurre disposizioni sull’entità delle sanzioni, ma
interviene anche sulla “parte generale” dell’illecito amministrativo dell’ente. Infatti l’art 3 consente la punibilità della società in
relazione ai reati commessi nel suo “interesse” e non anche a suo “vantaggio”. In altri termini il d.lg. - se resterà questa la
formulazione definitiva - sembra distaccarsi dal criterio di imputazione
oggettiva richiesto dalla legge n. 300 e dal d.lg. n. 231 (e sottolineato dalla
relazione d’accompagnamento): la commissione del reato “nell’interesse o a
vantaggio” dell’ente. L’altra ipotesi - quella di una riformulazione del criterio
di imputazione, nel senso di introdurre un concetto onnicomprensivo di
“interesse” – non persuade, in quanto, pur consentita dal pari grado gerarchico
delle fonti normative, sarebbe attuata per così dire incidenter tantum e in un decreto delegato volto a disciplinare uno
specifico settore di illeciti penali. La riforma del diritto penale societario introduce la
procedibilità a querela di alcune fattispecie, quali il falso in bilancio con
danno ai soci e ai creditori nelle società non quotate, l’impedito controllo
con danno ai soci, le operazioni in pregiudizio dei creditori, l’indebita ripartizione dei beni
sociali da parte dei liquidatori. E’ opportuno ricordare che l’esistenza (e la permanenza) di
siffatta condizione di procedibilità riverbera importanti effetti sul
procedimento di accertamento della responsabilità della società. Infatti non si procede nei confronti dell’ente se l’azione
penale non può essere iniziata o proseguita nei confronti della persona fisica
per la mancanza di una condizione di procedibilità (art 37 d.lg. 231). Si noti che l’art 5 dello schema di decreto legislativo
chiarisce che per i reati procedibili a querela commessi prima della data di
entrata in vigore dello stesso, il termine per la proposizione della querela
decorre dalla data predetta. 3. Alcuni reati si estinguono se il soggetto attivo pone in
essere certe condotte “riparatorie”
dell’interesse patrimoniale leso. In particolare: Illegale ripartizione degli utili: la restituzione degli
utili o la ricostituzione delle riserve prima della scadenza del termine
previsto per l’approvazione del bilancio estingue il reato; Illecite operazioni sulle azioni o quote: la ricostituzione
del capitale e delle riserve prima della scadenza del termine per
l’approvazione del bilancio relativo all’esercizio nel quale è stata posta in
essere la condotta estingue il reato; Operazioni in pregiudizio dei creditori: il risarcimento del
danno ai creditori prima del giudizio estingue il reato; Indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei
liquidatori: il risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio estingue
il reato. Quali effetti produce l’estinzione del reato
sull’accertamento a carico della società (prescindendo dalla possibilità di rimettere
la querela)? E’ noto che per il d.lg. 231 solo l’ amnistia – tra le cause
di estinzione del reato – impedisce l’accertamento della responsabilità
dell’ente (art 8 comma 1 lett. b). Tuttavia ipotizzare la permanenza del procedimento a carico
della società nel caso in cui non si procede nei confronti della persona fisica
per l’intervenuto risarcimento del danno appare una conseguenza eccessivamente gravosa del
principio di autonomia della responsabilità dell’ente. Così opinando si eluderebbe poi la stessa ratio della legge-delega che richiede
l’essenzialità della lesione patrimoniale dei soci o dei creditori. Ma tant’è: ci si trova senz’altro di fronte ad una lacuna
normativa che – ove non “riempita” nella versione definitiva, magari su
sollecitazione delle Camere – lascerebbe lo spazio a censure di
incostituzionalità per ingiustificato diverso trattamento di situazioni
analoghe. |
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