inserito in Diritto&Diritti nel luglio 2002

Nel codice civile la garanzia per il consumatore di acquisti sicuri: primi spunti interpretativi sul d. lgvo. n. 24 del 2 febbraio 2002

di Avv. Massimiliano Dona (Unione Nazionale Consumatori)

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Non è ancora chiara la reale portata del decreto legislativo 2 febbraio 2002, n. 24 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 marzo 2002), in attuazione della direttiva 1999/44/CE riguardante taluni aspetti della vendita e delle garanzie di consumo.

Le nuove norme -che fanno ingresso nell’ordinamento italiano attraverso la porta principale, andando a collocarsi all’interno del codice civile, articoli 1519 bis e seguenti- si caratterizzano, infatti, per alcune appariscenti ambiguità che, prestandosi ad interpretazioni divergenti da parte di consumatori e fornitori, lasciano sul campo inquietanti interrogativi sulle reali conseguenze che realizzeranno nel mercato.

Senza dubbio la disciplina della “vendita dei beni di consumo”, estendendosi anche ai contratti di permuta, di somministrazione, di appalto, d’opera e a tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre, realizza un vero e proprio “statuto” dei diritti del consumatore che acquisti un bene mobile (anche usato o da assemblare). E’ per questo che si rende quanto mai urgente chiarire gli aspetti di novità per il consumatore e far luce sui punti controversi.

La normativa, che va ad aggiungersi ai “frammenti di disciplina della vendita di beni di consumo” già presenti nel nostro ordinamento (DPR 224/1998 sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi; articoli 1469 bis e seguenti c.c. sui contratti del consumatore e le clausole abusive; d.lgs. 181/1999 sui contratti a distanza e tramite Internet), si caratterizza per alcuni aspetti qualificanti che meritano di essere posti in evidenza.

Una prima impronta di rilevante novità consiste nel criterio di individuazione della responsabilità del venditore: questa non è più ancorata ad un parametro negativo (prodotto non difettoso o non viziato), ma si fonda su una valutazione espressa positivamente in termini “conformità al contratto”.

La scelta tra “defect” e “non conformity” fu oggetto di discussione fin dalle prime sedute della commissione di esperti che, tra il 1994 e il 1995, elaborò a Bruxelles quel testo di 14 articoli che avrebbe condotto alla Proposta di Direttiva presentata il 18 giugno 1996 alla Commissione. La Direttiva 1999/44/CE accolse, infine, la più ampia nozione di “non conformity” anche per restare nel solco tracciato dalla Convenzione di Vienna che tanto ha influito su alcuni codici europei (in particolare quelli scandinavi, ma anche sul codice olandese e su quello tedesco).

Così, l’art. 1519 ter c.c. specifica che “il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita”. Il secondo comma pone un sistema di presunzioni di conformità in presenza delle seguenti circostanze: idoneità all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo; conformità alla descrizione fatta dal venditore; sussistenza delle qualità e prestazioni che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi; idoneità all’uso particolare voluto dal consumatore, nell’ipotesi in cui questo venga portato a conoscenza del venditore e sia da questi accettato.

La conformità è anche valutata in relazione alle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche del prodotto fatte dal venditore nella pubblicità o nell’etichettatura, che diventano, quindi, ulteriori parametri di verifica della soddisfazione del consumatore (art. 1519 ter, 2° comma, lettera c).

Altri aspetti qualificanti della normativa sono l’applicabilità ai beni usati (art. 1519 bis, ultimo comma); l’equiparazione della imperfetta installazione al difetto di conformità, quando questa è compresa nel contratto di vendita ed è stata effettuata dal venditore sotto la sua responsabilità (art. 1519 ter, ultimo comma); i più ampi termini (art. 1519 sexies) a disposizione del consumatore per denunciare il vizio di conformità (60 giorni dalla scoperta, mentre l’azione diretta a far valere i difetti non dolosamente occultati è soggetta al termine “finale” di 26 mesi dalla consegna del bene).

La portata della disciplina si estende anche alle istruzioni per il montaggio che devono essere quanto più possibile chiare e complete, atteso che, in caso di prodotto concepito per essere installato dal consumatore, in presenza di istruzioni carenti, del difetto di conformità risponderà il venditore.

La nuova disciplina si caratterizza, inoltre, per il sostanziale ampliamento dei possibili rimedi concessi al consumatore in caso di difformità: a norma dell’articolo 1519 quater, secondo comma, in caso di difetto di conformità il consumatore può richiedere la riparazione o la sostituzione del bene ovvero la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. La legge prevede che la scelta del rimedio spetti all’acquirente (a condizione che quello prescelto non sia oggettivamente impossibile o troppo oneroso rispetto ad altri), ma è probabile che sarà la giurisprudenza a creare categorie di difetti di conformità “maggiori” e “minori”.

Su questo punto è facile prevedere che nasceranno le prime difficoltà interpretative. La gradazione dei rimedi si presenta indubbiamente ambigua ed alimenterà le controversie fra consumatori e venditori, anche perché in molti casi la valutazione è soggettiva (si pensi ad un consumatore che si accorge di una macchia di ruggine su un’auto o su un frigorifero appena acquistato: non si accontenterà di una riparazione, sia per l’estetica del prodotto sia perché penserà che è stato fabbricato male e che il difetto potrebbe ripresentarsi).

Inevitabilmente le varie categorie di produttori e venditori predisporranno dei “disciplinari” per regolare almeno i casi più generali: già risulta che l’Associazione Nazionale Industrie Elettriche (ANIE) abbia allo studio la predisposizione di un protocollo concordato fra produttori e venditori per indicare cosa e quando debba essere sostituito o riparato.

Altre difficoltà interpretative derivano dal regime cui devono assoggettarsi gli interventi di riparazione (o sostituzione) in considerazione del fattore tempo: la norma che stabilisce che “le riparazioni o le sostituzioni devono essere effettuate entro un congruo termine dalla richiesta e non devono arrecare notevoli inconvenienti al consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale il consumatore ha acquistato il bene”. Il “congruo termine” per la consegna del prodotto riparato ed i “notevoli inconvenienti” per il consumatore che renderebbero inefficace il rimedio della riparazione, non sembrano, infatti, parametri facilmente traducibili. Ed ancora, il testo di legge parla di riparazioni al plurale: quante ne deve sopportare il consumatore, se la prima non va a buon fine? La legge tace su questo punto e, di nuovo, tale silenzio alimenterà le controversie, mentre sarebbe stato preferibile seguire l’esperienza americana laddove si prevede una presunzione di difformità nel caso in cui si rendano necessari più di un certo numero di ricoveri di riparazione.

Preoccupa anche -dal punto di vista interpretativo- il regime delle presunzioni previsto dall’art. 1519 ter, 2° comma: in pratica, nei primi 6 mesi dalla consegna, l’acquirente potrà valersi delle citate presunzioni, limitandosi a dedurre che il bene non risponde ai caratteri indicati e spetterà al venditore di fornire la prova contraria, che tuttavia rischia di essere diabolica: come potrà il venditore dimostrare che è conforme al contratto un bene (per ipotesi) non idoneo all’uso o non conforme al campione esibito o che non presenti la qualità di un bene dello stesso tipo?

A mente del terzo comma dell’articolo 1519 ter, il venditore potrà opporre al consumatore che invochi il difetto di conformità il fatto che questo fosse noto all’acquirente o che non poteva essere ignorato con l’ordinaria diligenza. Ma la prova di tale circostanza può essere ugualmente difficoltosa, per non dire impossibile (si pensi al caso in cui l’acquirente deduca di aver richiesto un “uso particolare” a norma della lettera “d” dell’articolo 1519 ter, secondo comma e il venditore debba dimostrare di aver venduto sebbene il consumatore fosse a conoscenza che il bene non avrebbe avuto le caratteristiche richieste).

Ecco forse il più rilevante nodo interpretativo della disciplina in esame: quale operatività concreta è riferibile al sistema di presunzioni poste dall’art. 1519 ter, secondo comma? Quale regime probatorio può immaginarsi, considerando che la maggior parte di contratti di consumo sono contratti verbali?

Per cominciare, andrebbe chiarita la relazione intercorrente tra il primo ed il secondo comma per verificare se le citate presunzioni siano operanti solo nel caso di silenzio del contratto sulle caratteristiche del prodotto. Se così fosse, evidentemente, la portata della disciplina andrebbe notevolmente ridimensionata: in caso di contratto scritto, le garanzie per il consumatore resterebbero quelle previste nel contratto e non altre, ma così era anche nel regime precedente (si è giustamente osservato che in un mercato caratterizzato da contratti verbali, sostenere che la conformità al contratto vada determinata in base al contratto medesimo resterebbe mera affermazione di principio).

Al contrario, estendendo l’operatività delle presunzioni dell’art. 1519 ter anche in presenza di specifiche indicazioni contrattuali sulle caratteristiche del bene, andrebbe verificata la validità di una clausola che preveda (ad esempio) che il prodotto è idoneo soltanto ad una parte degli usi ai quali servono abitualmente beni dello stesso tipo.

Probabilmente simili avvertenze sarebbero idonee ad influire sul sistema di presunzioni previsto dalla legge (dovrebbe escludersi il contrasto con la previsione dell’art. 1519 octies: il secondo comma dell’articolo 1519 ter non riconosce diritti, ma individua presunzioni in favore del consumatore) anche se ne andrebbe comunque approfondita la validità in relazione alla disciplina delle clausole vessatorie (1469 bis e seguenti).

In vista della quotidiana operatività della disciplina sui beni di consumo, molti interrogativi restano in attesa di adeguate risposte. Tra queste -quanto mai attesa- quella che fornirà la prima giurisprudenza chiamata a sciogliere gli accennati nodi problematici.

Per ora, senza dubbio, sembra prefigurabile che tali clausole andranno ad incidere sulle pratiche commerciali adottate dai distributori inducendo una riorganizzazione dei sistemi di vendita, che negli ultimi decenni sembravano sempre più fortemente indirizzati verso modelli di esasperato self-service. Il nuovo impianto della vendita di beni di consumo potrebbe indurre la necessità di tornare all’ampio utilizzo della modulistica onde favorire la fornitura di informazioni di conformità idonee a mitigare la severità delle presunzioni poste dal secondo comma dell’articolo 1519 ter.

Il mercato, d’altra parte, attende di sapere se dovrà rivoluzionare le sue regole, se si assisterà ad un aumento dei prezzi, ma soprattutto quanta rilevanza concreta potrà attribuirsi alle nuove norme nello scenario della complessiva tutela dell’acquirente nel nostro paese.

Alcune associazioni di consumatori hanno già fatto notare che la nuova “garanzia europea” introdotta dal decreto legislativo n. 24/2002 farà probabilmente aumentare i prezzi di alcuni beni, come per esempio gli elettrodomestici, che sono i prodotti sui quali si riversa il maggior numero dei reclami dei consumatori per guasti, malfunzionamenti e anomalie varie (risulta che la grande distribuzione abbia già chiesto un accordo con produttori e fornitori per gestire le probabili e numerose richieste di sostituzione del prodotto, che -si calcola- raggiungeranno il 10% del venduto).

Intanto, presso il Ministro delle Attività Produttive, si è inaugurato un tavolo tecnico, al quale partecipano le rappresentanze di produttori, distributori e consumatori, che dovrebbe condurre alla predisposizione di una circolare interpretativa che chiarisca gli aspetti controversi fornendo le linee guida che impronteranno il nuovo regime di garanzia.

In conclusione, sembra chiaro che, per facilitare l’assimilazione delle nuove norme ed evitare che il proliferare del contenzioso giudiziario tradisca lo spirito della direttiva (tendente a consentire l’autotutela del soggetto acquirente), non si potrà prescindere dal contributo delle associazioni di consumatori nella realizzazione di protocolli di intesa e procedure di conciliazione che agevolino la migliore operatività delle nuove dinamiche sociali ed economiche.