Lo studio legale virtuale

di Danilo Filagrossi Ambrosino

 

Sicuramente una delle prime domande che un avvocato si pone entrando in contatto con la rete è, constatate le potenzialità del mezzo, quale impiego se ne possa fare riguardo la propria professione (usufruire di banche dati, contattare altri professionisti "sparpagliati" per il mondo, aumentare il bacino della propria utenza); ed ad una più attenta analisi si accorgerà di quanto sia facile e di quanto possa essere produttiva l'apertura di un vero e proprio "studio legale virtuale" in cui chiunque accede e chiede al professionista il proprio servizio.

Una tale possibilità significherebbe non solo per l'avvocato uno spread pressochè indefinito della clientela ma altresì un potenziamento per gli stessi destinatari dei servizi estremamente notevole. Sarebbe possibile ricevere consulenza senza doversi muovere da casa e, qualora fosse necessario, avere pareri in tempo reale in merito a normative, orientamenti giurisprudenziali e dottrinari dall'anche più recondito ed inaccessibile paese del mondo.

Allo stato attuale non si può configurare l'ipotesi di un "processo virtuale", pertanto l'avvocato in rete non può espletare i propri compiti di rappresentanza in giudizio; l'unico aspetto della professione che viene ad estrinsecarsi è, per ora, limitato alla semplice difesa e/o consulenza.

Se tecnicamente, però, una tale possibilità è pressochè esente da difficoltà di realizzazione; estremamente spinosi sono gli aspetti afferenti all'ammissibilità giuridica.

Il momento di maggior attrito è connesso alla conformità rispetto all'art.17 del codice deontologico forense che espressamente fa divieto all'avvocato di pubblicizzare la propria attività.

Per comprendere la ratio sottostante al divieto è necessario ricostruire la funzione stessa della pubblicità ed i pericoli che al suo interno si annidano.

La pubblicità nasce nella prassi commerciale, ed è intuitivo comprenderlo, come strumento di informazione dell'impresa, dei suoi prodotti e delle loro caratteristiche e quindi quale "intermediario" tra imprenditore e consumatore; da questo punto di vista ha una valenza di notevole importanza nel commercio garantendo agli operatori di crearsi una clientela ed al pubblico di "sapere dove rivolgersi" qualora si abbiano determinate necessità.

Con lo sviluppo della attività commerciale la pubblicità ha lentamente ma inesorabilmente smesso di avere questa funzione neutra di mera informazione per divenire invece un mezzo di distinzione dell'impresa, ovvero non è più rivolta a creare un contatto tra produttore e consumatore ma piuttosto a porre in maggior evidenza un operatore rispetto agli altri. Di qui il fenomeno della pubblicità commerciale ha finito per interessare lo stesso giurista non tanto riguardo alla sua capacità di informare quanto la sua capacità di individuare; il che ha comportato uno spostamento dell'attenzione dal rapporto operatore/consumatore a quello operatore/operatore. Riguardo all'ordinamento giuridico italiano la presa di coscienza della necessità di disciplina della pubblicità commerciale è comprensibilmente nata in concomitanza con l'intensificarsi dell'attività commerciale il che ha coinciso, grosso modo, con il cd. boom economico degli anni '50, all'indomani, cioè, della stessa entrata in vigore del codice civile. Pertanto è stato compito della giurisprudenza quello di trovare nelle pieghe del diritto oggettivo strumenti di tutela contro comportamenti illeciti connessi alla pubblicità. I giudici hanno sentito l'esigenza di garantire protezione ai concorrenti che venissero lesi da atti di pubblicità "scorretti"; chiaramente l'attenzione si è puntata sull'art. 2598 cc. che prevede e sanziona proprio gli atti di concorrenza sleale. Per anni, perciò, parlare di pubblicità in termini giuridici significava parlare di un fenomeno che aveva rilevenza se e nei limiti di una possibile lesione degli interessi di altri operatori economici; così la pubblicità ingannevole era sanzionata ed inibita solo qualora, dicendosi il falso, si metteva in cattiva luce l'attività di un concorrente e non tanto per il fatto che il destinatario del messaggio fosse leso in quanto tale: intanto il concorrente sleale era punito in quanto il (potenziale) cliente fosse stato furviato nella scelta; così la pubblicità comparativa era, ed è (anche se per poco, considerando l'approvazione della direttiva CEE 97/55 non ancora recepita), sanzionata in quanto rinvenibile un intento denigratorio dell'attività del concorrente.

La pubblicità, perciò, ha questa doppia valenza di mera informazione, da un lato, e di "accaparramento" della clientela, dall'altra, secondo che si guardi il rapporto operatore/consumatore o quello operatore/operatore.

Di fatto è stata sempre relegata nell'ambito dell'attività commerciale e se ne è tendenzialmente esclusa l'estensibilità, quanto meno negli stessi termini, per le attività intellettuali. Si è profilata in modo apodittico ma estremamente stringente questa convinzione secondo cui l'intelletto rifulga di una luce di spiritualità tale da conferirgli la supremazia sulla materiale concretezza dell'attività economica, cosicchè fosse svilente ammettere l'utilizzo della pubblicità. Nel pubblicizzare l'attività di un avvocato verrebbero a scontrarsi due distinti interessi quello (intellettuale) ontologicamente connesso alla professione e quello (commerciale) di accaparrare clienti a discapito di altri professionisti. Ci si è immaginati, cioè, l'avvocato che come uno strillone si aggiri per le strade a forza di slogan svendendo la propria professionalità.

Questo è, in fondo, il fondamento del divieto dell'art.17 del codice deontologico che, però, appare ormai del tutto inconciliabile con le mutate situazioni sociali e professionali.

Anzitutto è indubitabile come lo stesso legislatore mostri segni evidentissimi di quanto il discrimine tra attività intellettuale e commerciale sia molto più labile ed evanescente che non in passato. Basti considerare il superamento del tabù della creazione di una società di professionisti che è la commistione fra due elementi (l'attività professionale e la struttura della società) ritenuti fino a pochi anni fa completamente inconciliabili l'uno all'altro.

Ma questa tendenza, probabilmente, è solo il segno dei tempi; ormai ci si rende conto che la progressiva globalizzazione e massmedizzazione è tale da non permettere più che attività restino relegate nei confini di un ambito locale; ormai la massificazione dei consumi e delle esigenze, l'innalzamento della soglia di ricchezza e la disponibilità di strumenti di comunicazione velocissimi ed estesi sono tali per cui non è più concepibile l'avvocato di paese. Questo implica che le colonne d'Ercole della propria attività debbano necessariamente essere superate per spingersi lì dove le generazioni passate non osavano.

Sia ben chiaro, questo non è connesso ad un rampantismo arrivista e saccente che finisce per trasformare l'avvocato in una sorta di mercante che va propagandando il proprio "prodotto" casa per casa in una rotta che dall'occidente lo conduca in oriente; questo è solo un altro modo di affermare il cambiamento dei tempi: se globalizzazione vuol dire la possibilità per l'uomo della strada di risolvere i propri problemi in modo veloce e senza particolare dispendio di energie, anche l'avvocato, a servizio del cliente, deve entrare nel circuito.

In questo senso val la pena rivalutare la tradizionale concezione di pubblicità a cui facevo riferimento poc'anzi, essa è primariamente uno strumento di informazione, di conoscenza per il pubblico di ciò che un soggetto offre, sia esso un prodotto/servizio commerciale, sia essa una prestazione d'intelletto. La pubblicità, in quest'accezione, perde la sua funzione di accaparramento tanto mal vista dai sostenitori del divieto di pubblicità.

In realtà l'art.17 del nuovo codice deontologico (approvato il 17 aprile 1997) già mostra segni incoraggianti di un'apertura in tal senso; infatti, sebbene in linea di principio viene ribadito il divieto, sono previste tre ipotesi in cui la pubblicità è ammessa (indicazione nei rapporti con i terzi dei propri particolari rami di attività, informazione agli assistiti ed ai colleghi sulla organizzazione dell'ufficio e sulla attività professionale svolta, indicazione del nome di un avvocato defunto che abbia fatto parte dello studio - seppur in limiti espressamente specificati-).

Di notevole importanza è, al riguardo il §4 dello stesso articolo che recita: "in ogni caso l'attività di informazione consentita deve essere attuata in modo veritiero e nel rispetto dei doveri di dignità e decoro". Importante sotto un duplice profilo; anzitutto l'utilizzo del termine informazione e non pubblicità da cui sembrerebbe evincersi proprio che la tendenziale apertura sia comunque limitata alla funzione informativa del messaggio, secondariamente l'aggancio al rispetto dei doveri di dignità e decoro; essi, infatti, rappresentano la vera cartina di tornasole riguardo alla finalità ed alla ammissibilità della pubblicità, la quale solo se fatta in detti termini è lecita.

Venendo al quesito più specifico relativo all'an della creazione di un sito legale è da chiedersi se ciò integri gli estremi della pubblicità e se, dando una risposta affermativa, sia conforme all'art.17.

A mio modesto avviso la restrizione non solo appare anacronistica ma anche minata alla base da un errore di valutazione: l'apertura di un sito non può considerarsi di per sè pubblicità in quanto essa presuppone la diffusione del messaggio ad un pubblico, la semplice creazione della pagina web non realizza tal obiettivo che, invece, si ottiene per il tramite di altri strumenti quali l'inserzione di banner in altri siti, il linkaggio, la spedizione di e-mail (dirette o mediante creazione di mailing lists), la segnalazione in newsgroups; in realtà sono questi soli che fanno apparire all'esterno la pagina che, altrimenti, resterebbe totalmente sconosciuta al mondo degli internauti.

Se vogliamo l'assegnazione di un domain name (o, più in generale, di un url), la successiva creazione della pagina e l'inserzione nei motori di ricerca possono essere paragonati all'assegnazione del numero telefonico, all'allestimento dello studio, all'inserzione del numero nell'elenco telefonico: solo chi conosce il numero (o l'indirizzo), lo utilizza, per cui se mai di esso se ne fa (in altro modo) pubblicità, la pagina resterà spazio occupato nell'hard disk del server a cui non accede nessun altro se non lo stesso webmaster.

Volendo raffrontare la pagina web (ed il relativo indirizzo) ad un fenomeno della vita "reale", questo sembra essere il paragone meglio calzante; pertanto le considerazioni fatte sulla sua ammissibilità rispetto al divieto di pubblicità devono essere riviste in tal senso, ed è ormai pacifico (confermato anche dall'art. 17 del codice deontologico al §1) che l'inserzione del numero telefonico nell'elenco (ma anche in banche dati forensi, persino internazionali) sia una forma ammessa di pubblicità.

Dopo un primo orientamento di chiusura pressochè totale dei Consigli dell'Ordine in merito ai siti di avvocati in internet, le aperture iniziano ed esserci; per tutte valga richiamare una delibera del CdO di Milano del 20 febbraio 1997 (quindi ancor prima dell'approvazione del nuovo codice deontologico) che ha ammesso una tale possibilità purchè le informazioni non costituiscano pubblicità vietata dai principi deontologici. E qui si torna a quanto dicevo poc'anzi: il discrimine tra informazione (ammessa) e pubblicità (non ammessa) va rinvenuta nei principi di decoro e dignità; l'avvocato cioè non deve mai trasformare la sua attività informativa in attività volta a carpire clientela, denigrando i colleghi, ingannando i clienti o utilizzando messaggi suggestivi che ledono il decoro e la dignità dell'intera categoria.

Quest'ultimo aspetto fornirebbe anche una soluzione riguardo al quomodo del sito; esso non andrebbe costituito con l'utilizzo di fonts, colori, gif, jpg e counter (che enfatizzerebbe troppo il traffico all'interno della pagina) tali da renderlo particolarmente "chiassoso", ma andrebbe sempre realizzato in piena sobrietà in omaggio alla sobrietà propria della professione svolta.

(Novembre 98)