*** Questa noterella non vuole entrare nel merito di quanto recentemente deciso dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale con sentenza n. 6010/2002 ma intende solo porre degli interrogativi di fondo circa il, molto spesso irrisolto, problema del rapporto tra la norma di legge e la sua interpretazione. Si premette, qualora mai ce ne fosse bisogno, che chi scrive considera la violenza sessuale, nel pur di per se deviante elenco di gravità dei reati, uno dei delitti più aberranti e ritiene che nei rapporti interpersonali anche la semplice stretta di mano debba essere consensualmente voluta ed accettata. Censurato, quindi, di per sé l’utilizzo della mano propria sulla persona altrui non consenziente ( o consenziente in modo ritenuto non valido dalla legge) ci si chiede come l’unico organo prensile di cui disponiamo ( se vogliamo escludere i contorsionisti ed alcuni velisti assai abili con i piedi ) possa eseguire un’ atto sessuale ai sensi di legge. E qui già ci si addentrerebbe in un autentico ginepraio qualora si volesse definire lo scopo sessuale di un atto in senso lato. Ci si limiti solo a dire che ormai è comune sentire che sessuale sia l’atto non tanto e non solo che riguardi i genitali quanto l’appagamento sessuale di chi lo compie ( da qui i comportamenti aberranti o devianti quali il feticismo, la podofilia ed altri che non necessariamente hanno una liason con la genitalità ). Partendo da questo punto, quasi, fermo si può provare ad immedesimarsi nel giudice che deve oggettivare una sensazione che, per definizione, è soggettiva. Ci spieghiamo. Numerose sentenze hanno già statuito che la nozione di atti sessuali prevista dall’ art. 609 bis c.p. non comprende solo gli atti che involgono la sfera genitale ma anche quelli che che riguardano zone del corpo note, secondo la scienza medica, psicologica, antropologico-sociologica, come erogene. Inoltre tali zone sono definite come quelle note come stimolanti l'istinto sessuale, sicchè detti atti, quando commessi su persona non consenziente o infraquattordicenne, ledono il bene protetto, cioè la libertà sessuale del soggetto passivo (Cass. pen., Sez.III, 21/01/2000, n.400, Cass. pen., Sez.III, 04/12/1998 n. 1137, Cass. pen., Sez.III, 27/04/1998, n.6651 ). Rassicurati dal fatto che la erogenità di una parte del corpo possa essere individuata con metodi scientifici notiamo, forse errando, che non risulterebbe ben chiaro se la stimolazione sessuale proveniente da dette zone valga per la vittima del reato o per l’autore di esso o per entrambi. Nella mano è assai sviluppato il senso del tatto per cui si potrebbe optare per la capacità di trasmettere sensazioni, in senso lato, sessuali a chi con essa abusa. Ma ciò non basta. La mano deve essere posta su una zona erogena altrui affinché si compia l’atto sessuale. E ora, ci pare, cominci a vacillare la costruzione che fin qui abbiamo edificato. Orfana di una definizione legislativa di atto sessuale ( giustamente, si può dire, per mantenere aperte le più impensate varianti dell’ atto) la giurisprudenza deve però fare i conti con la realtà quotidiana e non sempre la scienza la aiuta per cui è tentata, per necessità, a fornire decaloghi di comportamenti definibili come atti sessuali ( la già citata sentenza Cass. pen., Sez.III, 04/12/1998 n. 1137, ad esempio, definisce atti sessuali i toccamenti delle mammelle, delle cosce e il bacio a labbra chiuse ). Tenendo conto di tale elenco e, peraltro di ben più
marcati comportamenti lesivi dell’ altrui dignità sessuale avvenuti in
un momento anteriore, nella sentenza in commento, è stata qualificata
come violenza sessuale l’atto di libidine su una parte, si noti del
corpo femminile – e non maschile - ( la coscia della dipendente sulla
quale si è concentrata l’azione palpeggiatrice dell’imputato)
, definita
come inequivocamente
rientrante nella gamma della c.d. appetibilità sessuale. Ora si noti che
il palpamento, definito subdolo dalla Suprema Corte, era avvenuto di
fronte ad una paziente del
medico stomatologo imputato e che la reazione della parte offesa era stata
la dichiarazione di essere già felicemente fidanzata ( debole difesa
attesa la posizione di dipendente dell’imputato e il conseguente stato
di soggezione ).
Si è prima
affermato che ci si vuole astenere
da giudizi in merito alla sentenza in sé ma che si desidera porre degli
interrogativi di fondo.
Attenendoci a
questo principio ci si pone il quesito se, effettivamente, la casistica in
materia di violenza sessuale ( reato si ripete odioso ma anche gravemente
infamante nei confronti di chi ne subisce la condanna) possa essere
lasciata sic et sempliciter al
giudizio di un apparato giudiziario che, immotivatamente, ritiene
erogena una zona del corpo umano anziché un’altra. Ora che, con un
passo avanti in civiltà, la violenza sessuale non viene più considerato
un reato contro la pubblica morale ma
contro la persona anche i metodi di giudizio dovrebbero seguire
questo percorso. Si ravvisa un afflato di moralismo, infatti, nella
definizione che la Suprema Corte dà della coscia, e si rimarca ancora,
esclusivamente femminile come inequivocabilmente appetibile sessualmente.
Le Corti si trovano nella scomoda situazione di individuare elementi
oggettivi in un campo in cui la soggettività è padrona ( intendiamo la
appetibilità sessuale di una parte del corpo umano nonché la
soddisfazione sessuale che deriva a un soggetto dal contatto con essa
) e non agiscono neppure secondo un principio statistico del genere
dell’ id quod plerumque accidit,
ma secondo classificazioni lasciate alla moralità di chi giudica
o, il che è peggio, alla moralità che chi giudica pensi essere quella
inequivoca della società in cui si trova a vivere, operare e decidere).
Ciò che interessa in questa sede è porre in evidenza questa discrasia
tra la ( dichiarata e supposta )oggettività dell’ atto sessuale
violento e la soggettività (quasi) inevitabile di chi deve decidere sulla
natura dell’atto. Secondo il nostro modesto punto di vista un grande
obiettivo di natura giuridica sarà raggiunto quando i cosiddetti
operatori del diritto riusciranno a ragionare in termini a-morali nel
momento in cui devono
trattare temi che coinvolgono la
sessualità umana. In caso contrario si rischia di confondere la
oggettivazione della parte erogena del corpo ( la coscia anziché la
spalla o il ginocchio) con la
obiettività del giudizio.
Enrico Ruggiero,
avvocato in Savona
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