L'Antropologia
del diritto fra teorie evoluzioniste, stereotipi e tradizione
di
Barbara Faedda
a) La
differenza giuridico-culturale e i popoli "primitivi"[i]
La specie
umana e la cultura in genere sono contraddistinte dalla variazione culturale:
per comporre la propria identità, infatti, l'uomo produce differenza.
Proprio
riguardo a questa molteplicità e proliferazione l'antropologia giuridica
considera il suo oggetto di studio, ossia il diritto, solo uno dei numerosi
elementi di un sistema, variamente interpretato e realizzato in rapporto al
gruppo di riferimento.
Qualora
non si tenga conto della pluralità delle possibilità e delle creazioni
culturali, ci s'imbatte in una "presunzione" che viene spesso
dimostrata attraverso quella tipologia di definizioni per mezzo delle quali si
asserisce, ad esempio, che gli aborigeni non abbiano alcun sistema giuridico.
L'antropologia giuridica, muovendo i passi dall'antropologia sociale e culturale
ha potuto, prima attraverso le monografie etnologiche poi attraverso un
dibattito sempre più critico, affermare, con autorevolezza, l'esistenza presso
tutti i popoli di "fatti con caratteristiche giuridiche".
La nozione
stessa di diritto, infatti, è quanto meno variabile e dipendente dalla
specifica società cui si riferisce; purtroppo, nel tempo, si è sempre più
imposto l'atteggiamento caratteristico dell'etnocentrismo giuridico occidentale
che ha voluto, spesso, identificare il diritto con lo Stato, individuando le
forme più prossime alla perfezione proprio entro i confini europei e in alcune
culture mesoamericane, africane o asiatiche, in gran parte oramai scomparse.
Il
centrismo, l'etnocentrismo e il pregiudizio sono stati, e lo sono tuttora,
oggetto di numerosi studi e ricerche antropologiche e sociologiche. L'etnocentrismo,
soprattutto, ossia il considerare il proprio gruppo al centro del mondo
giudicando le altre culture in base ai propri valori di riferimento, è stato il
principale responsabile della mancata conoscenza di talune culture
etno-giuridiche. In realtà, seppur dopo secoli, ci si è ritrovati a far
proprio il concetto greco di "barbaroi" riferito a tutti coloro che
non appartenevano alla stessa matrice culturale.
Così
concepita, la scienza del diritto lasciava ovviamente da parte le società
definite e considerate "selvagge", "senza storia", in una
parola "primitive". La non conoscenza dei diritti "altri" si
è trasformata facilmente in pregiudizio: il diritto non poteva nascere che
all'interno d'istituzioni statali, raggiungendo il massimo sviluppo solo in
contesti europei e soprattutto classici. I popoli indigeni erano così
letteralmente tagliati fuori dal dibattito giuridico "culto" per
mancanza pressoché totale di istituzioni e sistemi definibili giuridici,
secondo i più rigidi schemi di riferimento occidentali.
Il
concetto di "primitivo" era un retaggio, un pesante fardello, lasciato
in eredità dagli studi evoluzionistici, ma già l'Illuminismo aveva
abbondantemente romanzato la figura del selvaggio, poggiando tale creazione
sulla cosiddetta letteratura amerindia. Nel XVIII secolo si elaborò la teoria
dello sviluppo dell'umanità attraverso stadi: l'antropologo americano, di
formazione giuridica, Lewis Henry Morgan propose uno schema di sviluppo delle
società che andava dalla selvatichezza alla civiltà passando per la barbarie
(riprendendo uno schema già adottato da Montesquieu).
Di questa
etichetta di "primitivi" si può affermare che, ancora oggi, non ci si
è del tutto liberati. Anche se si comprese nel tempo, attraverso una varietà
di studi e ricerche, che i cosiddetti "primitivi" erano solo
tecnologicamente meno avanzati, si continuò a dividere l'umanità ancora in due
emisferi: i civili, ossia gli occidentali, e gli incivili, ossia le popolazioni
extraoccidentali.
Nella
seconda metà del XX secolo prendeva però forza il dibattito scientifico
proprio sul concetto di primitività. Esso fu messo seriamente in dubbio, a tal
punto che la maggioranza degli antropologi culturali, sociali e del diritto
decise che fosse arrivato il momento di abbandonare tale termine e di cercarne
altri che non contenessero le stesse connotazioni negative.
Una delle
critiche fondamentali era ovviamente rivolta all'implicazione sottesa al
termine, in base alla quale, come abbiamo appena visto, si reputa che le
popolazioni così designate rappresentino uno stadio precedente o originario,
una sopravvivenza evolutiva, un residuo preistorico. Si contrastò l'idea che
esistesse una mentalità primitiva che differiva qualitativamente da quella dei
popoli "progrediti" o "civili", che erano ovviamente i
"bianchi" occidentali. Si riteneva che la mentalità primitiva fosse
pre-logica[ii]
e dominata istintualmente dalla radicata credenza in forze soprannaturali.
I
"popoli primitivi" sono stati considerati biologicamente inferiori e
"senza storia": si credeva in pratica che fossero incapaci di
qualsiasi mutamento e quindi condannati alla staticità e alla stagnazione
culturale.
In
occidente il termine "primitivo" è stato spesso associato a quello di
"razza": un concetto quest'ultimo particolarmente pregnante e potente.
Sebbene non esista nessun fattore scientifico che sul piano biologico autorizzi
oggi a suddividere la specie umana in "razze" diverse, tale concetto
è ancora molto in uso: esso viene utilizzato strumentalmente per classificare,
ed escludere sistematicamente, i membri di precisi gruppi sociali. Il concetto
di razza è impiegato per attribuire, al di là delle caratteristiche fisiche,
anche peculiarità psicologiche e morali, giustificando in tal modo un sistema
sociale discriminatorio.
Già l'Antropologia fisica scoprì nel passato che non
esistono gruppi razziali fissi, ma che, piuttosto, essi mutano continuamente,
interagendo permanentemente. Ovviamente, le differenze esteriori tra gli
individui sono innegabili: ma esse sono unicamente semplici tratti distintivi,
poiché riflettono debolmente il patrimonio genetico e spesso sono influenzati
esclusivamente da fattori ambientali.
L'antropologia
giuridica, dal canto suo, s'impegnò affinché si riuscisse a far luce sulle
peculiarità etno-giuridiche dei popoli extraoccidentali. Dimostrò ampiamente
che il diritto esisteva anche tra i cosiddetti "primitivi", persino
quando non si riscontrava una forma statale. Purtroppo, molti giuristi
conservatori hanno continuato ad asserire che le società non in possesso di un corpus
ben definito di norme non hanno neanche un diritto.
Ritenendo
così che molte delle società extraoccidentali sono state incapaci di produrre
un sistema giuridico autoctono, si è rafforzata l'idea che gli europei abbiano
veramente "civilizzato" il mondo, "regalando" ai poveri
selvaggi gli unici veri diritti degni di questo nome: il Civil law e il Common
law. Molta parte degli studiosi occidentali di diritto comparato continua a
suddividere la produzione normativa mondiale in due grandi blocchi, appunto
quello di Civil law e quello di Common law, relegando quelli che chiamano
diritti consuetudinari alla sfera del periodo precoloniale e reputandoli oramai
una produzione etnica appartenente ad un passato remoto di difficile risveglio.
In Africa
i missionari, già nei primi anni dell'Ottocento, s'incaricarono di risolvere le
dispute fra autoctoni servendosi della legge biblica e delle procedure
anglosassoni. Lo stesso si registrò nelle colonie del Pacifico, dove anche i
rituali cristiani hanno contribuito allo sradicamento delle tecniche locali di
riabilitazione dell'armonia sociale.
Le
sovrapposizioni, le imposizioni, gli innesti e i trapianti giuridici sono stati
un'arma forte della colonizzazione europea nel mondo: l'antropologo si è reso
conto che residui di particolarismi e di pluralismi etnogiuridici rimanevano
talvolta gli unici testimoni dei superstiti diritti tradizionali. Non solo, ma
dalla decolonizzazione in poi, ha assistito ad un nuovo processo di
occidentalizzazione dei metodi, delle strutture e delle tecniche giuridiche,
denunciando in tal modo la difficoltà crescente di individuazione della
produzione e delle modalità normative etniche. Ancora una volta l'occidente
"civilizzava".
Questa
ristrettezza di vedute, questa ennesima adesione all'idea del potere
civilizzatore della cultura occidentale, questo continuo riconoscere solo
all'Europa (e al mediterraneo in particolare) lo status di culla del diritto
universalmente valido, hanno impedito a lungo la possibilità dell'instaurazione
di rapporti di scambio e collaborazione con l'Antropologia del diritto.
Ci si è
fermati in tal modo ad una conoscenza superficiale e distorta dei diritti
autoctoni; laddove non si riscontravano le aule dei tribunali, i codici scritti,
i banchi degli imputati e le toghe non poteva esistere il diritto. Solo chi
avesse utilizzato codici simili a quelli occidentali avrebbe goduto di
considerazione: per tutti gli altri il discorso era chiuso a priori. Fu un
celebre antropologo, Radcliffe-Brown, ad opporsi con fermezza all'applicazione
del binomio diritto penale/diritto civile alle società senza scrittura. Dopo di
lui, con il contributo dei numerosi lavori sul campo, si giunse a spostare il
baricentro del dibattito dal contrasto tra concetti giuridici occidentali ed
extraoccidentali ad una nuova comprensione dei sistemi indigeni di controllo
sociale all'interno del proprio contesto culturale di riferimento. In seguito,
la ricerca si rifinì ulteriormente e, dallo studio dei sistemi di controllo
sociale, si è passati a studiare i sistemi di risoluzione delle controversie.
È stato il momento in cui ha espresso il suo vigore scientifico l'approccio
"casistico": il caso giudiziario divenne cioè l'unità d'analisi. Un
altro celebre antropologo del diritto, Max Gluckman, formulò la tesi secondo la
quale se si è in grado di stabilire la natura dei rapporti sociali tra le parti
in lite, si può conseguentemente prevedere quale tipologia di procedure si
adotteranno nel processo decisionale. La relazione che vi è tra le parti
condiziona la risoluzione della controversia; l'elemento cardine è
rappresentato fondamentalmente dalla necessità di mantenere rapporti di tipo
duraturo, scongiurando la rottura di relazioni sociali importanti.
Negli anni
sessanta il metodo "casistico" è stato notevolmente arricchito ed
ampliato: gli studi sul campo hanno contribuito a mettere in luce l'importanza
anche dei legami di lealtà, dello scontro diretto, del senso del pudore e del
ridicolo, della varietà delle alternative che si hanno a disposizione. Si è
giunti in tal modo ad un approccio tipicamente "procedurale",
attraverso cui si è riusciti ad approfondire i meccanismi e le dinamiche delle
negoziazioni.
L'antropologia
del diritto ha voluto e vuole tuttora dimostrare che il campo giuridico è molto
variabile e ricco. Ha sostenuto che l'aggettivo "giuridico" può
riferirsi ad una molteplicità di sistemi e valori. Paul Bohannan, antropologo
africanista specializzato nello studio dei Tiv della Nigeria, ha sostenuto, in
tal senso, la teoria dell'impossibilità di creare una definizione universale di
diritto, una che valga egualmente in ogni parte del mondo; si può invece
individuare una "doppia istituzionalizzazione", ossia quel duplice
procedimento in base al quale le norme di comportamento diventano giuridiche
quando vengono riformulate ad un diverso livello, con lo scopo di ampliare il
raggio d'azione del controllo anche su altre istituzioni sociali. In altre
parole, ad un primo livello si "fissano" i costumi e l'etichetta, ad
un secondo le norme di diritto vere e proprie.
Altre
ricerche etnologiche hanno dimostrato l'enorme ricchezza della produzione
giuridica presso le culture indigene, ognuna con le proprie peculiarità e
soprattutto con le proprie varietà. Gran parte di tale ricchezza etnogiuridica
poggia sul ventaglio di alternative possibili, soprattutto per quanto riguarda
la risoluzione delle controversie. L'esistenza di regole giuridiche alternative,
adattabili allo stesso contesto, ci porta a riconoscere una molteplicità di
forme giuridiche che riescono ad operare contemporaneamente. Questo è il
pluralismo giuridico: esso caratterizza i sistemi sociali e rende il diritto un
discorso ed una pratica polifonica.
Oggi sappiamo che molte società tradizionali obbediscono, non
tanto a norme esplicite, quanto a modelli di comportamento, la cui sanzione non
è automatica, come potrebbe sembrare necessario a noi, secondo il nostro punto
di vista.
In realtà,
il problema dell'alterità è determinante. E riguardo questa tematica
l'Antropologia culturale e l'Antropologia sociale sono state un faro nella
notte. Esse si posero, infatti, come scienza dell'uomo in rapporto alle sue
molteplici varianti culturali.
E da qui,
nell'ottocento, è nata l'antropologia giuridica. Essa al principio fu
fortemente influenzata dall'evoluzionismo unilineare. L'evoluzionismo
legittimava l'opera coloniale quale strumento d'accelerazione della storia:
sottomettere i popoli "primitivi" e "selvaggi" significava
civilizzarli.
L'occidente
fu vittima consapevole (e sotto tanti aspetti lo è ancora) del più bieco
etnocentrismo: considerò le società "altre" in rapporto alle proprie
categorie ideali, reputandole universalmente valide, le migliori. Di qui, il
passo verso una profonda e violenta svalutazione culturale fu breve. Questo
movimento irrazionale è stato molto presente nel campo del diritto e le
"cronache" di etnocentrismo giuridico riportano esempi drammatici, di
cui molti paesi ancor oggi pagano le conseguenze.
Tra i
principali fondamenti di tale etnocentrismo giuridico si possono individuare
soprattutto due elementi ben precisi: l'eredità del diritto romano, considerato
a lungo come Ragione Scritta; la codificazione napoleonica, influenzata
contemporaneamente dal diritto romano e dalle idee dei filosofi razionalisti del
XVIII secolo.
Questa
tradizione, gloriosa e ricca, è adatta senza dubbio al nostro tipo di storia e
cultura, ma non può rendere conto di tutte le culture giuridiche mondiali, a
loro volta costruite intorno a sistemi di valori, peculiari delle rispettive
società di riferimento.
Proprio le
su citate peculiarità dei diritti indigeni sono state maggiormente
sottovalutate dai giuristi occidentali: il fatto che tali diritti spesso siano
trasmessi oralmente è stato considerato sinonimo di approssimazione, labilità,
instabilità ed arbitrarietà.
La
pluralità degli ordinamenti giuridici fu interpretata non come esempio di
ricchezza e multiforme creatività, ma come disordine e ingiustizia rispetto
alle ideologie occidentali unitariste ed egualitariste.
I giuristi
europei non riuscirono, e non vollero neanche tentare, a riportare,
reinterpretandola, la specificità dei concetti aborigeni in un corrispondente
linguaggio giuridico. Testimonianza di ciò rimane senza dubbio l'enorme
importanza di cui godette l'opera di Ermanno Post, Ethnologische
Jurisprudenz, un'estensione applicativa dello schema classificatorio
pandettistico alle realtà giuridiche "esotiche". Attraverso un taglio
dichiaratamente evoluzionista, anche questo noto autore confermò nel suo testo
la possibilità di individuare degli stadi fissi di sviluppo per tutta l'umanità.
Tale
atteggiamento etnocentrico è tuttora più diffuso di quanto si creda. Si tende
in modo permanente di affermare e definire esclusivamente i propri interessi e
le proprie caratteristiche, dando loro una veste di autorità assoluta, di
universalità.
Per questo
l'Antropologia culturale risulta fondamentale in questo discorso di
etnocentrismo giuridico: il fine principale dell'insegnamento delle culture non
occidentali dovrebbe essere quello di stimolare la curiosità, di creare nuovi
saperi e di rendere possibile il dialogo.
Attraverso
la conoscenza si attua lo scambio e nello scambio si produce qualcosa di nuovo e
di migliore: si giunge in altre parole ad una riflessione più attenta e critica
su se stessi ed il proprio sistema culturale di riferimento. Si scopre che
esistono altre possibilità che non erano state previste e soprattutto altre
espressioni ed altre scelte rispetto a vecchi modelli che nel tempo abbiamo
"necrotizzato", non ritenendo potessero dar adito a risultati diversi.
Ecco perché
molte delle nostre classificazioni, culturali in genere, giuridiche in
particolare, risultano di scarsa utilità nella comprensione delle culture
"altre": rapporti che noi, ad esempio, consideriamo privatistici sono
per loro pubblicistici e viceversa; fenomeni che per noi rientrano
esclusivamente nella sfera morale, altrove sono considerati giuridici. Non a
caso una delle grande questioni tuttora irrisolte è quella inerente la necessità
di una lingua franca, fruibile ugualmente da giuristi ed antropologi del
diritto.
L'Antropologia
del diritto ha rivisto anche la concezione datata che attribuisce l'etichetta di
diritto consuetudinario a tutte le forme di diritto extraoccidentali. In realtà,
tutto il diritto può essere definito consuetudinario: ovunque i costumi e le
tradizioni di un popolo entrano in un certo qual modo nei processi e nei
giudizi.
Oltretutto
è doveroso affermare con decisione che quando si parla di tradizione non
s'intende qualcosa d'antico ed immutabile: le consuetudini nel tempo hanno
subito modifiche e variazioni, revisioni e rivisitazioni, e non solo in
conseguenza all'incontro coloniale. Ogni cultura ha la possibilità di riformulare e
negoziare sempre le proprie tradizioni.
b) Qualche osservazione sul
concetto di tradizione[iii]
La
tradizione è spesso un fattore trascurato, a volte male interpretato, di solito
interessante solo per gli specialisti che studiano la cultura dei paesi non
occidentali. Studiando tali paesi è, infatti, virtualmente impossibile ignorare
il soggetto "tradizione".
La
tradizione sembra essere ovunque - riti tradizionali, norme tradizionali, usi
tradizionali, cibi tradizionali, mestieri tradizionali, passatempi tradizionali,
leaders politici tradizionali - costretta a combattere con le forze
globalizzanti della modernità.
Questa
battaglia fra tradizione da una parte e modernità dall'altra si vorrebbe negare
invece in occidente, dove pare che la modernità abbia preso il sopravvento anni
fa. In realtà la tradizione non è affatto assente in occidente.
È
un'errata credenza che tradizione e modernità siano opposte, e che dove regna
l'una l'altra è automaticamente esclusa. Per questo gli occidentali, che si
ritengono al vertice di una linea evolutiva di sviluppo, chiamano le società
indigene "tradizionali". Si ritiene che gli elementi moderni siano
solo quelli prodotti dall'Europa e dal Nordamerica: automobili, alta tecnologia,
plastica.
In realtà
gli antropologi del diritto affermano che tutte le società possono essere
considerate "tradizionali". Bisogna, innanzi tutto, eliminare come al
solito gli stereotipi: le società tradizionali non sono statiche o reazionarie.
Ad esempio, il capo tradizionale di un certo villaggio delle Fiji oggi può
godere di un numero diverso (maggiore o minore) di poteri e responsabilità
rispetto a quelle di un capo di un secolo fa; egli inoltre potrebbe essere
diventato capo in un modo differente e molte cerimonie cui egli prende parte
potevano essere, nel passato, sconosciute.
Questo,
che è solo uno dei tantissimi esempi presenti nelle varie culture, è la
dimostrazione praticA che le tradizioni cambiano: esse sono un collegamento con
il passato, ma devono cambiare per rimanere aperte. Il concetto di tradizione,
cioè, non è antitetico rispetto al concetto di cambiamento. Tradizione non
vuol dire fissa immobilità: forse è per questo che spesso al termine
tradizione si coniuga una valenza sacrale. Perché la si considera fondata una
volta per tutte, eterna nella sua perfezione.
In realtà
la tradizione è qualcosa di molto vivo ed umano: essa è una forma di
conoscenza circa le credenze e le pratiche delle società umane. Tale conoscenza
particolare è condivisa sempre da un gruppo, non solo da pochi individui; è un
patrimonio comune che si basa sul consenso generale e su una conseguente
legittimazione.
La
tradizione è, come abbiamo visto, una conoscenza del gruppo. Una generazione,
in un certo periodo, ha deciso di adottare una tal pratica. La generazione
successiva ha imparato questa pratica ma poi, da un'altra fonte, ne impara una
alternativa che adempie lo stesso compito ma è, per qualche motivo, considerata
preferibile. Si conoscono quindi ambedue le pratiche, ma s'inizia ad usare
solamente quella nuova. La generazione successiva conoscerà esclusivamente la
nuova pratica in uso e così imparerà solo questa.
Il nuovo
ha rimpiazzato il vecchio. Con il
tempo, la nuova pratica può assumere il titolo di "tradizione", perché
le ultime generazioni presumono molto spesso che il modo in cui agiscono ora sia
il modo in cui si è sempre operato. Ciò che un tempo fu un'alternativa, una
novità, è diventata oggi tradizione.
Così
anche le tradizioni, come le conoscenze personali, evolvono attraverso un
processo di selezione. Ci piace pensare che le tradizioni giungano
"illibate" direttamente dal passato: in realtà esse sono estremamente
dinamiche, pur nello spirito della conservazione del valore in sé; debbono
essere flessibili e aperte al cambiamento al fine di poter sempre adattarsi ai
cambiamenti culturali, storici e ambientali.
È
comprensibile, dal punto di vista umano, che molti individui che hanno
abbracciato una tradizione da molto tempo e l'hanno resa parte della loro
conoscenza si sentano personalmente minacciati se tale tradizione viene cambiata
o abbandonata. Ci sarà sempre qualcuno che desidererà difendere la vecchia
pratica contro la nuova per la ragione, del tutto razionale, che essa funziona
ancora e non sarà quindi convinto che l'alternativa possa essere migliore.
Per quanto
riguarda il discorso giuridico-politico, le tradizioni di riferimento sono una
rilevante fonte di conflitti. Qualsiasi cambiamento che diventi materia di
dibattito pubblico è condotto, infatti, attraverso il sistema
giuridico-politico. Tale sistema deve poter rispondere alle pressioni per il
cambiamento operanti su molte tradizioni. Se il sistema non riesce a sopportare
il peso di tali pressioni, esso deve cambiare. Nessuna tradizione, mai, sarà
immune dal cambiamento.
[i]
Fabietti U. - Malighetti R. - Matera
V., Dal tribale al globale,
Mondadori, 2000.
Fabietti U. - Remotti
F., Dizionario di Antropologia, Zanichelli, 1997.
Losano M.G., I
grandi sistemi giuridici, Einaudi, 1988.
Motta R., Teorie
del diritto primitivo. Un'introduzione all'antropologia giuridica,
Unicopli, 1986.
Motta R., L'addomesticamento
degli etnodiritti, Unicopli, 1994.
Negri A., Il
giurista dell'area romanista di fronte all'etnologia giuridica, Giuffré,
1983.
Remotti F., Temi
di antropologia giuridica, Giappichelli, 1982.
Rouland N., Antropologia
giuridica, Giuffré, 1992.
Seymour Smith C., Dizionario
di Antropologia, Sansoni, 1991
Tentori T., Il
rischio della certezza, Studium, 1996.
[ii]
Di mentalità primitiva parlò il filosofo francese Lucien Levy-Bruhl
(1857-1939). Egli sostenne che tale mentalità fosse pre-logica poiché non
sa distinguere la causa dall'effetto.
[iii]
Ewins R., Some Effects of Tradition on
Politics, Department of Political Science, Australian National
University, 1996.
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