INTRODUZIONE ALLA STORIA DELL'ANTROPOLOGIA GIURIDICA

  I fondatori (prima parte)

 

Tra coloro che sono generalmente considerati i padri fondatori dell’antropologia del diritto vi è, senza alcun dubbio, Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1775) il quale, con il suo Esprit des Lois del 1748, descrisse comparativamente (anche se con tutti i limiti del momento storico e culturale) numerose tipologie giuridiche e sociali. Molte delle sue idee furono riprese in seguito da studiosi di filosofia e scienze sociali, tra i quali, per l’appunto, anche numerosi antropologi.

Quest’opera subì numerose persecuzioni e fu messa all'Indice nel 1751, ma il successo fu grandioso: la teoria della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) espressa nelle poche pagine del capitolo sei del libro XI (dal titolo «Della Costituzione dell'Inghilterra»), è divenuta una realtà istituzionale in quasi tutti i Paesi del mondo. Il punto di partenza dell’autore è la relatività delle leggi: la religione, il regime politico, i costumi, il clima, il commercio influenzano e apportano modifiche alla formulazione delle leggi. Dissimili sono le cose lecite e illecite nei vari Paesi e nello stesso Paese in epoche diverse; ma al di là della messa per iscritto (ossia il «codice»), è l’esprit che conta, cioè quel complesso di cause, alla base dell’esistenza di ogni popolo, che spinge gli uomini a scegliere i valori e le finalità delle leggi scritte. Quando cambia l’esprit, allora cambiano anche le leggi; tale relativismo giuridico induce Montesquieu ad affermare che ogni mutamento legislativo è fondato effettivamente sulla natura delle cose.

La sua opera merita di essere ricordata soprattutto perché incarna il forte desiderio di conoscenza, da parte di un giurista-filosofo, di altre realtà giuridiche ed organizzative, oltre alla propria, perché in essa, come abbiamo visto, si parla di diritto come di quell’elemento sociale e politico che cambia secondo la società, il periodo e il luogo che si prendono in esame. La natura influisce sui diversi sistemi giuridici: il clima, il territorio ed altri fattori contribuiscono a creare quelle particolarità tipiche di ogni diritto. Il merito di Montesquieu rimane, in definitiva, quello di avere allargato gli orizzonti della conoscenza giuridica e di aver posto l’accento sull’importanza del fattore “locale”. 

Tutto ciò accadeva nel XVIII secolo, periodo che vide un’altra grande figura, che può essere annoverata (anche se ciò può sembrare una novità) tra i fondatori dell’antropologia del diritto: Cesare Beccaria (1738-1794). Il suo si può considerare un tentativo antropologico ben riuscito: oltre i pregiudizi dell’epoca, il desiderio di portare alla luce le esigenze più profonde dell’uomo, attraverso lo studio delle istituzioni e la loro messa in discussione.

Con la sua opera Dei delitti e delle pene del 1764 (che, per ovvie ragioni di prudenza, fu stampata anonima), pubblicata nell’ambiente lombardo riformista del periodo, egli affronta la questione del diritto penale che, in pieno secolo XVIII, era ancora una struttura totalmente medioevale. In alcuni fondamentali capitoli si leggono frasi come: “… un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso che egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata”; oppure: “Qual è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? La pena di morte è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere”; ed ancora: ”Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle.[1]

Di là da puri e semplici sentimenti filantropici, si scorge l’elaborazione attenta e di notevole spessore intellettuale di quel mondo giuridico oramai in netto ritardo rispetto alla situazione storica e sociale. Uno studio antropologico nel senso di una disamina culturale degli atteggiamenti umani, delle modalità del pensiero, dei sentimenti.  Ancora, occorre mettere nella giusta evidenza un passo esemplare dell’opera più celebre di Beccaria: “Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione…”. Egli merita, anche per questo, di essere giustamente annoverato tra i fondatori dell’antropologia del diritto.

Fu nel secolo seguente che la situazione intorno alla disciplina divenne letteralmente effervescente: lo svizzero Johan Jacob Bachofen (1815-1887), classicista e giurista elvetico, esplora la via dell’etnologia della parentela ed è, in questo ambito, un vero precursore. La sua opera, Das Mutterecht, è contemporanea di Ancient Law di Maine, e rimane ancora oggi l’opera più conosciuta sul matriarcato[2]: in essa vengono affermate la promiscuità primitiva e la priorità della forma matriarcale su quella patriarcale. Anche se queste sue teorie con il tempo sono state confutate, egli rappresenta una figura importante soprattutto per le discipline giuridiche, poiché, studiando in particolar modo la mitologia e i simboli delle varie culture (e quindi allontanandosi dallo studio esclusivo della scrittura), ha sciolto quel cordone ombelicale tra diritto e testo, che sembrava fino allora ineliminabile.

Bachofen aprirà la strada agli studi di Lewis H. Morgan e di John F. McLennan che, rispettivamente con Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family del 1871 e con Primitive Marriage del 1865, dimostrano effettivamente che sta nascendo quella disciplina che sarà presto chiamata Anthropology of Law, l’antropologia del diritto.

C’è da rilevare in ogni modo, riguardo ai lavori di questa fase, che essi non sempre riportavano fedelmente la realtà, anche perché spesso, all’osservazione diretta, si preferivano ipotesi e congetture, oppure ci si basava su lavori precedenti non totalmente (e a volte affatto) attendibili, soprattutto a causa del forte etnocentrismo[3] che permeò il periodo storico.

Fu, però, l’evoluzionista britannico-vittoriano Henry James Sumner Maine (1822-1888) ad ampliare notevolmente l’orizzonte della tradizione Romanistica e a far conoscere i cosiddetti diritti primitivi. Maine, che è riconosciuto come il creatore dell’antropologia del diritto e come il punto di contatto tra storia del diritto e antropologia giuridica, iniziò con l’insegnamento (diritto civile, diritto romano, diritto internazionale) e ricoprì anche importanti cariche amministrative all’estero: fu membro del Consiglio del Governo Generale dell’India e partecipò alla stesura del diritto indiano.

La sua opera più nota, Ancient Law del 1861, è comunemente considerata il testo base della nuova disciplina ed il manifesto della teoria evoluzionistica dei sistemi giuridici. Egli fu esperto sia dei diritti europei che di quelli extraeuropei, profondo conoscitore del diritto irlandese come di quello indiano, dotto storico del diritto, come lui stesso dimostra quando afferma, nel primo capitolo del suo testo: “Themis, it is well known, appears in the later Greek pantheon as the Goddess of Justice, but this is a modern and much developed idea, and it is in a very different sense that Themis is described in the Iliad as the assessor of Zeus[4]”.

A differenza di Bachofen, egli ipotizza una originale forma di patriarcato[5], la stessa che afferma di ritrovare nella patria potestà dei Romani; con questa idea egli giustificherà ancora più decisamente il concetto in base al quale il componente del gruppo prevale sull’individuo già dal momento della nascita. Egli rifiuta decisamente l’idea di patto sociale originario: per quanto riguarda i primordi del diritto, l’individuo non ha avuto alcun rilievo, ma è stato il gruppo a prevalere e la potestà del patriarca, solo in quanto rappresentante della collettività.

 E’ allora che il soggetto viene, per così dire, investito di uno status, che non vuol dire prestigio, ma posizione nella società e nel gruppo parentale, come si legge nel quinto capitolo di Ancient Law: “All the forms of Status taken notice of, in the Law of Persons were derived from, and to some extent are still coloured by, the powers and privileges anciently residing in the Family[6]”. Dallo status si passa quindi al contratto, in una concezione totalmente evoluzionistica: “Nor is it difficult to see what is the tie between man and man which replaces by degrees those forms of reciprocity in rights and duties which have their origin in the Family. It is Contract ... We may say that the movement of the progressive societies has hitherto been a movement from Status to Contract”.

Il suo progetto scientifico era quello di elaborare una teoria del diritto su base metodologica comparativa, che prendesse le distanze dal rigido dogmatismo deduttivo. L’essere d’origine anglosassone probabilmente lo ha aiutato nell’apertura alle culture giuridiche altre, proprio perché lontano dalla venerazione, tipica degli storici del diritto di area di Civil Law[7], per il tradizionale ed aureo diritto romano. Dobbiamo sottolineare la formazione culturale e scientifica di quest’autore che, non discostandosi dagli altri colleghi dello stesso settore, rimane ancorato a concetti marcatamente evoluzionistici: le società tradizionali sono per lui infantili, allo stadio primordiale di uno sviluppo che si pensa lineare e di cui l’Europa occupa il primo posto.

Come evoluzionista, accanto alla figura di Maine, si pone generalmente quella del giurista Lewis Henry Morgan (1818-1881), di professione avvocato, interessato ai problemi degli Irochesi a tal punto da studiarne l’organizzazione sociale e il costume, che descrisse in  League of the Iroquois del 1851. Con questo lavoro egli aprì la strada al filone degli studi sulla parentela e sul matrimonio in particolare, i risultati dei quali si leggono nell’opera Systems of Consanguinity in the Human Family del 1871. Questa pubblicazione consacrò Morgan come primo vero esperto di terminologia della parentela che egli considerava indispensabile per qualsiasi studio sui sistemi familiari. Nel 1877, con Ancient Society, propone la suddivisione (già usata da Montesquieu) in tre fasi - selvaggia, barbara e civile - e successivi tre gradi - antico, medio e recente - dello sviluppo dell’umanità. L’opera ebbe effettivamente un immediato successo, ma alla lunga furono notati e sottolineati soprattutto i limiti: il criterio di classificazione era unicamente tecnologico, e troppa fiducia l’autore ripose nel concetto di progresso, non riuscendo ad evitare, inoltre, una comparazione troppo affrettata.

Morgan rappresentò in questo periodo storico il portabandiera della nascente antropologia sociale e, sicuramente, il rappresentante più impegnato nei paesi anglo-americani o di common law[8]. Insistette sull’importanza della terminologia della parentela e sulla distinzione tra terminologia classificatoria e descrittiva[9]. Le sue teorie influenzarono profondamente anche l’opera di Engels e Marx a tal punto da farne il loro punto di partenza teorico: tra i tanti concetti ripresi dal lavoro di Morgan, per esempio, quello della famiglia coniugale moderna come evoluzione della comunità coniugale arcaica[10].

Anche John F. McLennan (1827-1881), avvocato scozzese, si colloca sulla scia degli studi sulla promiscuità primitiva ed il matriarcato. Egli focalizzò l’attenzione sui concetti di esogamia ed endogamia[11], di cui coniò i termini, cioè del matrimonio obbligato all’interno o all’esterno del proprio gruppo di appartenenza, teorizzandone i principi nell’opera del 1865 Primitive Marriage. Egli sosteneva la forma matriarcale primordiale, come aveva già affermato Bachofen, aggiungendo un approfondimento sul tema del ratto della sposa[12] che ritrova, come sopravvivenza di un'antica consuetudine, nel matrimonio romano.

Chi però rese sistematico un programma giuridico antropologico fu lo studioso di origine polacca Bronislaw Kaspar Malinowski (1884-1942) che, con la sua ricerca diretta sul campo, si occupò a lungo di problematiche giuridiche e di metodi di osservazione al riguardo, all’interno delle società tradizionali. Fu proprio la sua insistenza sulla metodologia “dell’osservazione partecipante” che contribuì a riavvicinare il diritto, spesso così teorico e lontano, alla realtà del quotidiano: con l’osservazione diretta si studiano fenomeni concreti e comuni.

Malinowski si schiera contro il dominio intellettuale e scientifico del credo evoluzionista (che per tanto tempo aveva influenzato i campi del sapere), e contesta anche i principi del diffusionismo[13]. Egli viene ricordato, prima di tutto, come il padre del funzionalismo, come colui che fa ricerca in chiave sincronica, rigettando l’approccio storico. Nel suo concetto di cultura si inserisce la teoria della istituzione come risposta ad un bisogno umano, come egli stesso afferma nel V capitolo del testo Teoria scientifica della cultura e altri saggi (pubblicato postumo negli Stati Uniti, nel 1944): “la cultura è il tutto integrale consistente degli strumenti e dei beni di consumo, delle carte costituzionali per i vari raggruppamenti sociali, delle idee e delle arti, delle credenze e dei costumi… Si devono risolvere i problemi avanzati dai bisogni nutritivi, riproduttivi e igienici dell’uomo. Essi sono risolti con la costruzione di un ambiente nuovo, secondario o artificiale. Questo ambiente, che non è né più né meno che la cultura stessa, deve essere continuamente riprodotto, mantenuto e diretto.[14]”.

Il diritto fa parte di queste risposte, e il diritto primitivo, in particolare, rappresenta per lui un corpus di norme e regole che serve a frenare le inclinazioni umane: “Nel caso di deviazione o violazione, vi sono alcuni mezzi per il ristabilimento dell’ordine e per il soddisfacimento dei diritti non esercitati[15]”. La sua idea di diritto rientra quindi nella sfera del controllo sociale e della coercizione: “Il comportamento umano, per quanto riguarda le sue prescrizioni tecniche, consuetudinarie, legali o morali, deve essere codificato, regolato in azioni e sanzioni”[16].

Con la sua opera Crime and Custom in Savage Society del 1926 egli presenta il programma della nuova disciplina, che incontrerà in ogni caso molte critiche, soprattutto per l’intreccio un po’ confuso da lui creato tra diritto, costume e controllo sociale. Spesso, infatti, egli parla di law e di custom usandoli come sinonimi, intercambiandoli senza troppe preoccupazioni, né terminologiche né contenutistiche.

Importante però l'accento sulla consuetudine, quell’insieme di regole che, per Malinowski, è rispettato a causa della sua ragionata e comprovata utilità pratica. Non a caso, ancor oggi, la maggior parte dei giuristi e degli antropologi riconosce nella consuetudine un corpus, per così dire, di comportamenti, i quali sono ripetuti nella certezza che essi siano giusti per sé e per gli altri. Nella sua definizione di diritto questo celebre studioso rileva due concetti ben precisi, quello di “obbligo vincolante” e quello di “meccanismo di reciprocità”: per Malinowski, infatti, il diritto comprende molteplici obblighi, vale a dire diritti/doveri, vincolanti in un discorso di reciprocità intrinseca alla società. Ribadisce che il diritto non deve essere studiato attraverso le sue manifestazioni, bensì attraverso la sua funzione, che è funzione di reciprocità: è quest’ultima che permette la coesione di un gruppo sociale, non la costrizione dell’autorità statale.

Il suo concetto di diritto fu tacciato di estrema generalizzazione, poiché è stato osservato che l’obbligo non identifica da solo il fatto normativo: esso è presente in vari aspetti della vita quotidiana in generale, ben diverso da quello che s’intende per “obbligazione[17]”.

Sebbene colpito da numerose e spesso violente critiche, Malinowski ha offerto un contributo notevole alla disciplina: ha posto l’accento sul fatto che il diritto è un aspetto della vita sociale e quindi della cultura in generale ed ha forzato il formalismo giuridico offrendo (e nel fare questo fu tra i primi) nuova linfa al dibattito antropologia-diritto.

Anche il sociologo ed antropologo francese Emile Durkheim (1858-1917) si interessò di diritto, approfondendo soprattutto lo studio della socialità e della normatività. Ancorato, sotto certi aspetti, alla prospettiva evoluzionistica, egli vide nel passaggio da cultura a norma, attraverso l’uso della forza coercitiva, l’origine della società primordiale: sosteneva che fosse proprio tale forza coercitiva la base dei fatti sociali, a tal punto da affermare che, nelle società tradizionali, il diritto fosse esclusivamente penale. Era facile arrivare a vedere, così, nella sanzione l’elemento costitutivo del diritto[18].

Durkheim parla di coscienza collettiva come norma che definisce il lecito e il proibito, come patrimonio culturale dei popoli, come insieme di elementi morali, cognitivi e religiosi che sono la base della consapevolezza della comunità sociale. A questa idea di coscienza collettiva, dopo alcuni anni, sostituì quella di rappresentazione collettiva, cioè “quello stato di coscienza collettiva distinto dallo stato di coscienza individuale[19]”.

Interessante risulta la sua raffigurazione dell’iceberg giuridico: il diritto ne è la punta, la parte visibile, mentre la morale ne rappresenta la parte immersa. Di seguito, quindi, la sanzione giuridica organizzata è più facilmente rilevabile della sanzione morale, in ogni caso più diffusa. Il diritto è il “simbolo visibile della solidarietà sociale e corpo di norme a sanzione organizzata[20]”. Esso è sempre bivalente: pubblico perché prodotto sociale, privato perché finalizzato a disciplinare l’agire umano.

Il diritto quindi, per Durkheim, rappresenta i sentimenti collettivi che fondano il gruppo, rispetto all’ordine e alla coesione; esso è strumento interpretativo sia per quanto riguarda la società che la sua cultura. Il diritto simboleggia la solidarietà sociale che, nella sanzione, viene regolata. Rientra nella concezione della sociologia classica l’idea durkheimiana del diritto come sistema alternativo di controllo sociale.

Il grande contributo di E. Durkheim rimane lo studio De La Division du travail social del 1893, nel quale l’autore nega l’idea contrattualistica come base dell’ordine sociale ed elabora teorie sulle forme di organizzazione umana. Il contratto si verifica solo dopo che si sono strutturate le forme sociali.

Egli difende il concetto di specializzazione delle funzioni economiche e quindi della divisione del lavoro; quest’ultima crea solidarietà tra gli individui. Presso le società tradizionali la divisione del lavoro è veramente esigua e spesso inesistente: individui simili svolgono attività simili e il tipo di solidarietà che si crea è meccanico. Nelle società cosiddette complesse gli individui svolgono invece lavori diversi: vi è specializzazione ed interdipendenza e si parla allora di solidarietà organica. La divisione del lavoro incarna la tendenza della società, che si realizza in ogni individuo, a specializzarsi dal punto di vista tecnico.

Da Durkheim è coniato il termine anomia, cioè assenza di norme, situazione che si verifica quando esse, diventate inadatte e anacronistiche, non vengono più riconosciute né adottate. Subentra quindi una profonda crisi dell’organizzazione sociale alla quale l’autore collegò sia il grado di devianza che il tasso di suicidio. Con il testo Le Suicide del 1897 egli intese confutare le cause psicologiche del suicidio, dimostrando l’esistenza di tendenze “suicidogene” all’interno di ogni società: in quelle tradizionali si assiste a suicidi di tipo altruistico, causati dalla pressione collettiva e meccanica, mentre in quelle moderne si manifesta il suicidio egoistico, cagionato dalla mancanza di solidarietà organica. 

Marcel Mauss (1872-1950), nipote di E. Durkheim, per quanto riguardava l’interesse per il diritto seguì le orme dello zio: iniziò con alcune note critiche a testi etno-giuridici, per passare poi alla stesura di veri e propri saggi sull’argomento. Tra questi l’Essai sur les variations saisonnieres des societas esquimaux del 1906, in cui approfondiva i rapporti tra società e diritto tra gli Eskimo. In questo saggio egli riporta il livello di socialità e promiscuità, le variazioni stagionali (estate all’insegna dell’individualismo ed inverno teatro di una vita sociale e religiosa intensamente comunitaria e pubblica), la risoluzione pacifica di ogni disputa, spesso mediante il “song duel”[21].

Nel celebre Saggio sul dono, scritto nel 1923 ma pubblicato nel 1926, Mauss studia parallelamente il potlach[22] del nordovest americano, studiato da F. Boas, e il kula[23] melanesiano, studiato da Malinowski. Egli, unendo a questi due fenomeni anche esempi storici (Celti, Vichinghi, Germani, Romani, ecc.), ha approfondito così il tema della reciprocità attraverso lo studio dei rituali: situazioni reali nelle quali le obbligazioni giuridiche si intrecciano con obblighi puramente economici[24]. Tali obbligazioni sono di tre tipi: del dare, del ricevere e del contraccambiare (o del restituire). Quest’ultimo è collegato all’idea che il dono mantenga un rapporto di carattere spirituale con il donatore, in quelle società nelle quali gli oggetti vengono considerati il prolungamento di chi li possiede[25].

Alla base di questo movimento circolare di beni vi è una forza magica, il mana. Essa è insita nell’oggetto come potere spirituale che dona benefici solo se si verifica un reale e continuo trasferimento dei beni (fino al donatore d’origine), seguendo vari passaggi rituali. E’ così che si instaurano e si mantengono rapporti pacifici tra gruppi diversi, che possono essere interrotti se l’operazione “dare-ricevere-restituire” viene fermata; tale suddetta operazione garantisce, inoltre, il riconoscimento del prestigio sociale.

[1] Beccaria C., Dei delitti e delle pene, a cura di R. Fabietti, Mursia, Milano, 1973-1982.

[2] Teoria in base alla quale si ritiente che, all’interno di gruppi sociali primitivi, il potere fosse detenuto dalle donne. In seguito, gli studiosi di scienze sociali hanno dimostrato l’infondatezza di tale teoria, provando che il potere, anche quando vige un sistema di discendenza matrilineare, rimane prerogativa maschile.

[3]Ancora oggi si combatte per eliminare un radicato eurocentrismo giuridico: il diritto europeo non è superiore agli altri, ma soltanto diverso. L’etnocentrismo giuridico nacque con l’imposizione del modello europeo di sviluppo economico a paesi retti da economie tradizionali che avevano usufruito, fino a quel momento, di un diritto considerato poi dagli europei inadatto al nuovo sviluppo economico. Una certa ignoranza rispetto agli altri diritti extraeuropei, unita al fatto che i diritti europei odierni derivano dalla grande tradizione del diritto romano, ha contribuito a rinforzare questo malsano e limitativo atteggiamento di superiorità. 

[4] Maine H. S., Ancient Law, Capitolo 5.

[5] Il termine si riferisce ad una organizzazione sociale nella quale domini il principio del diritto paterno e del controllo assoluto, da parte maschile, dell’autorità familiare.

[6] Maine H. S., Ancient Law, Capitolo 5.

[7] Questo sistema nasce in Francia nel XIX secolo con il celebre Code Napoleòn e si diffonde in tutta l’Europa continentale, l’America latina ed anche il Giappone. Comprende quindi tutti i Paesi che si basano su un diritto di fonte legislativa, con norme che vengono create politicamente; in questo sistema perciò i giudici hanno solamente un potere “applicativo”, cioè fanno in modo che siano rispettate le suddette leggi, soprattutto nella risoluzione delle controversie. 

[8] Per Common Law si intende il diritto di formazione giudiziaria, cioè quello che si basa sulla formula dello “stare decisis”, ossia sul vincolo del precedente giudiziario, per cui un giudice che si trova a dover decidere su un caso si deve attenere alle sentenze di altri giudici che lo hanno preceduto nel trattare casi analoghi. Non è quindi il legislatore che crea il diritto, ma i giudici. Tale sistema nasce in Gran Bretagna nel XVII secolo ed è stato, per così dire, esportato in tutti i Paesi che da questa sono stati resi colonie di conquista.

[9] La terminologia classificatoria colloca i parenti lineari e collaterali (ossia i parenti consanguinei, imparentati orizzontalmente come i fratelli o i cugini) nella stessa categoria; la terminologia descrittiva indica solamente un tipo di parentela biologica e distingue i parenti lineari da quelli collaterali. Seymour-Smith C., Dizionario di antropologia, Sansoni, Firenze, 1991.

[10] Rouland N., Antropologia giuridica, pag. 46, Giuffré, Milano, 1992.

[11] L’esogamia è la pratica di sposarsi al di fuori del proprio gruppo sociale. Endogamia è esattamente l’opposto: è l’obbligo di scegliere il coniuge all’interno di precisi limiti sociali. Essa si distingue ulteriormente in varie tipologie, quali l’endogamia di gruppo parentale, di alleanza e di gruppo locale. Seymour-Smith C., Dizionario di antropologia, Sansoni, Firenze, 1991.

[12] McLennan collegò il ratto della sposa all’infanticidio femminile praticato dagli uomini primitivi, i quali, per procurarsi una sposa, dovevano quindi ricorrere ad un'azione di forza.

[13] Il termine “diffusione” fu introdotto da E. B. Tylor in riferimento alla trasmissione di elementi culturali nello spazio, ad opera di movimenti migratori e/o di trasferimenti per contatto culturale. Nella vivace diatriba che si verificò tra evoluzionisti e diffusionisti nel XIX secolo, i primi affermavano che invenzioni simili fossero nate spontaneamente in varie aree del mondo a causa di tratti intellettivi universali, i secondi sostenevano invece che le invenzioni partissero da pochissimi punti precisi del globo e si diffondessero tuttavia attraverso una semplice propagazione culturale nello spazio.

[14] Malinowski B., Teoria scientifica della cultura e altri saggi, traduzione di G. Faina, pagg. 44-45, Feltrinelli, Milano, 1962.

[15] Malinowski B., op. cit., pag. 135.

[16] Malinowski B., op. cit., pag. 131.

[17] “ L’obbligazione è un vincolo giuridico che impone ad un determinato soggetto di tenere un dato comportamento al fine di soddisfare un interesse proprio di altra persona determinata… Oggetto dell’obbligazione è la prestazione dovuta, cioè il comportamento che il debitore deve tenere in funzione della realizzazione del diritto del creditore e del sotteso suo interesse a conseguire il risultato finale cui conduce il comportamento stesso”. Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1996.

Le obbligazioni sono di tre tipi: di dare (il debitore deve consegnare un bene o una somma di denaro), di fare (il debitore deve compiere una determinata azione o attività), di non fare (il debitore è impegnato a non compiere una determinata attività o azione).

[18] Bernardi B., Uomo Cultura Società, F. Angeli, Milano, 1985.

[19] Seymour-Smith C., Dizionario di antropologia, Sansoni, Firenze, 1991.

[20] Durkheim E., La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano, 1977.

[21] Gara canora satirica che si tiene davanti a tutta la comunità. L’abilità della parola e del canto viene utilizzata per ridicolizzare l’avversario in una forma agonistica molto forte.

[22] Cerimonia-sfida in cui i capi distruggono grandi quantità di provviste e beni, offrendo contemporaneamente banchetti regali. Questa forma di scambio cerimoniale viene praticata nel Canada nordoccidentale, sulla costa, e viene interpretata sotto vari aspetti: il principio di ridistribuzione, l’uso competitivo per la scalata sociale; il riconoscimento del proprio status.

 

[23] Cerimoniale che comprende un complicato traffico, su canoe, di monili fatti di conchiglie e coralli, da un’isola all’altra, in senso orario ed antiorario. Rinsalda alleanze tra i diversi villaggi, rendendo possibile gli approvvigionamenti dei vari gruppi sociali.

[24] Motta R., Teorie del diritto primitivo. Un’introduzione all’antropologia giuridica, Unicopli, Milano, 1986.

 

[25] Sul concetto di prolungamento della personalità attraverso gli oggetti personali, si veda anche: Faedda B., Antropologia, Diritto e Arbitrato, in Finanza, sviluppo e territorio, Aprile 1999, n. 4, pag. 156.