INTRODUZIONE
ALLA STORIA DELL'ANTROPOLOGIA GIURIDICA
I
fondatori (prima parte)
Tra
coloro che sono generalmente considerati i padri fondatori dell’antropologia
del diritto vi è, senza alcun dubbio, Charles
Louis de Secondat, barone di
Montesquieu (1689-1775) il quale, con il suo Esprit
des Lois
del 1748, descrisse
comparativamente (anche se con tutti i limiti del momento storico e culturale)
numerose tipologie giuridiche e sociali. Molte delle sue idee furono riprese
in seguito da studiosi di filosofia e scienze sociali, tra i quali, per
l’appunto, anche numerosi antropologi.
Quest’opera
subì numerose persecuzioni e fu messa all'Indice nel 1751, ma il successo fu
grandioso: la teoria della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e
giudiziario) espressa nelle poche pagine del capitolo sei del libro XI (dal
titolo «Della Costituzione dell'Inghilterra»),
è divenuta una realtà istituzionale in quasi tutti i Paesi del mondo.
Il punto di partenza dell’autore è la
relatività delle leggi: la religione, il regime politico, i costumi, il
clima, il commercio influenzano e apportano modifiche alla formulazione delle
leggi. Dissimili sono le cose
lecite e illecite nei vari Paesi e nello stesso Paese in
epoche diverse; ma al di là della messa per iscritto (ossia il «codice»),
è l’esprit che
conta, cioè quel complesso di cause, alla base dell’esistenza di ogni
popolo, che spinge gli uomini a scegliere i valori e le finalità delle leggi
scritte. Quando cambia l’esprit,
allora cambiano anche le leggi; tale relativismo giuridico induce Montesquieu
ad affermare che ogni mutamento legislativo è fondato effettivamente sulla
natura delle cose.
La
sua opera merita di essere ricordata soprattutto perché incarna il forte
desiderio di conoscenza, da parte di un giurista-filosofo, di altre realtà
giuridiche ed organizzative, oltre alla propria, perché in essa, come abbiamo
visto, si parla di diritto come di quell’elemento sociale e politico che
cambia secondo la società, il periodo e il luogo che si prendono in esame. La
natura influisce sui diversi sistemi giuridici: il clima, il territorio ed
altri fattori contribuiscono a creare quelle particolarità tipiche di ogni
diritto. Il merito di Montesquieu rimane, in definitiva, quello di avere
allargato gli orizzonti della conoscenza giuridica e di aver posto l’accento
sull’importanza del fattore “locale”.
Tutto
ciò accadeva nel XVIII secolo, periodo che vide un’altra grande figura, che
può essere annoverata (anche se ciò può sembrare una novità) tra i
fondatori dell’antropologia del diritto: Cesare
Beccaria (1738-1794). Il suo si può
considerare un tentativo antropologico ben riuscito: oltre i pregiudizi
dell’epoca, il desiderio di portare alla luce le esigenze più profonde
dell’uomo, attraverso lo studio delle istituzioni e la loro messa in
discussione.
Con
la sua opera Dei delitti e delle pene
del 1764 (che, per ovvie ragioni di prudenza, fu stampata anonima), pubblicata
nell’ambiente lombardo riformista del periodo, egli affronta la questione
del diritto penale che, in pieno secolo XVIII, era ancora una struttura
totalmente medioevale. In alcuni fondamentali capitoli si leggono frasi come:
“… un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la
società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso che
egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata”; oppure: “Qual è
dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un
giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o
innocente? La pena di morte è una guerra della nazione con un cittadino,
perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere”; ed
ancora: ”Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare,
semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e
nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle.[1]”
Di
là da puri e semplici sentimenti filantropici, si scorge l’elaborazione
attenta e di notevole spessore intellettuale di quel mondo giuridico oramai in
netto ritardo rispetto alla situazione storica e sociale. Uno studio
antropologico nel senso di una disamina culturale degli atteggiamenti umani,
delle modalità del pensiero, dei sentimenti.
Ancora, occorre mettere nella giusta evidenza un passo esemplare
dell’opera più celebre di Beccaria: “Finalmente il più sicuro ma più
difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare
l’educazione…”. Egli merita, anche per questo, di essere giustamente
annoverato tra i fondatori dell’antropologia del diritto.
Fu
nel secolo seguente che la situazione intorno alla disciplina divenne
letteralmente effervescente: lo svizzero Johan
Jacob Bachofen (1815-1887), classicista e giurista elvetico, esplora la
via dell’etnologia della parentela ed è, in questo ambito, un vero
precursore. La sua opera, Das
Mutterecht, è contemporanea di Ancient
Law di Maine, e rimane ancora oggi l’opera più conosciuta sul
matriarcato[2]:
in essa vengono affermate la promiscuità primitiva e la priorità della forma
matriarcale su quella patriarcale. Anche se queste sue teorie con il tempo
sono state confutate, egli rappresenta una figura importante soprattutto per
le discipline giuridiche, poiché, studiando in particolar modo la mitologia e
i simboli delle varie culture (e quindi allontanandosi dallo studio esclusivo
della scrittura), ha sciolto quel cordone ombelicale tra diritto e testo, che
sembrava fino allora ineliminabile.
Bachofen
aprirà la strada agli studi di Lewis
H. Morgan e di John
F. McLennan che,
rispettivamente con Systems of
Consanguinity and Affinity of the Human Family del 1871 e con Primitive
Marriage del 1865, dimostrano effettivamente che sta nascendo quella
disciplina che sarà presto chiamata Anthropology of Law, l’antropologia del
diritto.
C’è
da rilevare in ogni modo, riguardo ai lavori di questa fase, che essi non
sempre riportavano fedelmente la realtà, anche perché spesso,
all’osservazione diretta, si preferivano ipotesi e congetture, oppure ci si
basava su lavori precedenti non totalmente (e a volte affatto) attendibili,
soprattutto a causa del forte etnocentrismo[3]
che permeò il periodo storico.
Fu,
però, l’evoluzionista britannico-vittoriano Henry
James Sumner Maine (1822-1888)
ad ampliare notevolmente l’orizzonte della tradizione Romanistica e a far
conoscere i cosiddetti diritti primitivi.
Maine, che è riconosciuto come il creatore dell’antropologia del diritto e
come il punto di contatto tra storia del diritto e antropologia giuridica,
iniziò con l’insegnamento (diritto civile, diritto romano, diritto
internazionale) e ricoprì anche importanti cariche amministrative
all’estero: fu membro del Consiglio del Governo Generale dell’India e
partecipò alla stesura del diritto indiano.
La
sua opera più nota, Ancient Law
del 1861, è comunemente considerata il testo base della nuova disciplina ed
il manifesto della teoria evoluzionistica dei sistemi giuridici. Egli fu
esperto sia dei diritti europei che di quelli extraeuropei, profondo
conoscitore del diritto irlandese come di quello indiano, dotto storico del
diritto, come lui stesso dimostra quando afferma, nel primo capitolo del suo
testo: “Themis, it is well known, appears in the later Greek pantheon as the
Goddess of Justice, but this is a modern and much developed idea, and it is in
a very different sense that Themis is described in the Iliad as the assessor
of Zeus[4]”.
A
differenza di Bachofen, egli ipotizza una originale forma di patriarcato[5],
la stessa che afferma di ritrovare nella patria potestà dei Romani; con
questa idea egli giustificherà ancora più decisamente il concetto in base al
quale il componente del gruppo prevale sull’individuo già dal momento della
nascita. Egli rifiuta decisamente l’idea di patto sociale originario: per
quanto riguarda i primordi del diritto, l’individuo non ha avuto alcun
rilievo, ma è stato il gruppo a prevalere e la potestà del patriarca, solo
in quanto rappresentante della collettività.
E’
allora che il soggetto viene, per così dire, investito di uno status,
che non vuol dire prestigio, ma posizione nella società e nel gruppo
parentale, come si legge nel quinto capitolo di Ancient
Law: “All the forms of Status
taken notice of, in the Law of Persons were derived from, and to some extent
are still coloured by, the powers and privileges anciently residing in the
Family[6]”.
Dallo status si passa quindi al
contratto, in una concezione totalmente evoluzionistica: “Nor is it
difficult to see what is the tie between man and man which replaces by degrees
those forms of reciprocity in rights and duties which have their origin in the
Family. It is Contract ... We may say that the movement of the progressive
societies has hitherto been a movement from Status to Contract”.
Il
suo progetto scientifico era quello di elaborare una teoria del diritto su
base metodologica comparativa, che prendesse le distanze dal rigido dogmatismo
deduttivo. L’essere d’origine anglosassone probabilmente lo ha aiutato
nell’apertura alle culture giuridiche altre, proprio perché lontano dalla
venerazione, tipica degli storici del diritto di area di Civil Law[7],
per il tradizionale ed aureo diritto romano. Dobbiamo sottolineare la
formazione culturale e scientifica di quest’autore che, non discostandosi
dagli altri colleghi dello stesso settore, rimane ancorato a concetti
marcatamente evoluzionistici: le società tradizionali sono per lui infantili,
allo stadio primordiale di uno sviluppo che si pensa lineare e di cui
l’Europa occupa il primo posto.
Come
evoluzionista, accanto alla figura di Maine, si pone generalmente quella del
giurista Lewis Henry Morgan
(1818-1881), di professione avvocato, interessato ai problemi degli
Irochesi a tal punto da studiarne l’organizzazione sociale e il costume, che
descrisse in League
of the Iroquois del 1851. Con questo lavoro egli aprì la strada al filone
degli studi sulla parentela e sul matrimonio in particolare, i risultati dei
quali si leggono nell’opera Systems
of Consanguinity in the Human Family del 1871. Questa pubblicazione
consacrò Morgan come primo vero esperto di terminologia della parentela che
egli considerava indispensabile per qualsiasi studio sui sistemi familiari.
Nel 1877, con Ancient Society,
propone la suddivisione (già usata da Montesquieu) in tre fasi - selvaggia,
barbara e civile - e successivi tre gradi - antico, medio e recente - dello
sviluppo dell’umanità. L’opera ebbe effettivamente un immediato successo,
ma alla lunga furono notati e sottolineati soprattutto i limiti: il criterio
di classificazione era unicamente tecnologico, e troppa fiducia l’autore
ripose nel concetto di progresso, non riuscendo ad evitare, inoltre, una
comparazione troppo affrettata.
Morgan
rappresentò in questo periodo storico il portabandiera della nascente
antropologia sociale e, sicuramente, il rappresentante più impegnato nei
paesi anglo-americani o di common law[8].
Insistette sull’importanza della terminologia della parentela e sulla
distinzione tra terminologia classificatoria
e descrittiva[9].
Le sue teorie influenzarono profondamente anche l’opera di Engels e Marx a
tal punto da farne il loro punto di partenza teorico: tra i tanti concetti
ripresi dal lavoro di Morgan, per esempio, quello della famiglia coniugale
moderna come evoluzione della comunità coniugale arcaica[10].
Anche
John F. McLennan (1827-1881),
avvocato scozzese, si colloca sulla scia degli studi sulla promiscuità
primitiva ed il matriarcato. Egli focalizzò l’attenzione sui concetti di esogamia
ed endogamia[11],
di cui coniò i termini, cioè del matrimonio obbligato all’interno o
all’esterno del proprio gruppo di appartenenza, teorizzandone i principi
nell’opera del 1865 Primitive
Marriage. Egli sosteneva la forma matriarcale primordiale, come aveva già
affermato Bachofen, aggiungendo un approfondimento sul tema del ratto
della sposa[12]
che ritrova, come sopravvivenza di un'antica consuetudine, nel matrimonio
romano.
Chi
però rese sistematico un programma giuridico antropologico fu lo studioso di
origine polacca Bronislaw Kaspar Malinowski
(1884-1942) che, con la sua ricerca diretta sul campo, si occupò a lungo
di problematiche giuridiche e di metodi di osservazione al riguardo,
all’interno delle società tradizionali. Fu proprio la sua insistenza sulla
metodologia “dell’osservazione partecipante” che contribuì a
riavvicinare il diritto, spesso così teorico e lontano, alla realtà del
quotidiano: con l’osservazione diretta si studiano fenomeni concreti e
comuni.
Malinowski
si schiera contro il dominio intellettuale e scientifico del credo
evoluzionista (che per tanto tempo aveva influenzato i campi del sapere), e
contesta anche i principi del diffusionismo[13].
Egli viene ricordato, prima di tutto, come il padre del funzionalismo, come
colui che fa ricerca in chiave sincronica, rigettando l’approccio storico.
Nel suo concetto di cultura si inserisce la teoria della istituzione come
risposta ad un bisogno umano, come egli stesso afferma nel V capitolo del
testo Teoria scientifica della cultura
e altri saggi (pubblicato postumo negli Stati Uniti, nel 1944): “la
cultura è il tutto integrale consistente degli strumenti e dei beni di
consumo, delle carte costituzionali per i vari raggruppamenti sociali, delle
idee e delle arti, delle credenze e dei costumi… Si devono risolvere i
problemi avanzati dai bisogni nutritivi, riproduttivi e igienici dell’uomo.
Essi sono risolti con la costruzione di un ambiente nuovo, secondario o
artificiale. Questo ambiente, che non è né più né meno che la cultura
stessa, deve essere continuamente riprodotto, mantenuto e diretto.[14]”.
Il
diritto fa parte di queste risposte, e il diritto primitivo, in particolare,
rappresenta per lui un corpus di
norme e regole che serve a frenare le inclinazioni umane: “Nel caso di
deviazione o violazione, vi sono alcuni mezzi per il ristabilimento
dell’ordine e per il soddisfacimento dei diritti non esercitati[15]”.
La sua idea di diritto rientra quindi nella sfera del controllo sociale e
della coercizione: “Il comportamento umano, per quanto riguarda le sue
prescrizioni tecniche, consuetudinarie, legali o morali, deve essere
codificato, regolato in azioni e sanzioni”[16].
Con
la sua opera Crime and Custom in Savage
Society del 1926 egli presenta il programma della nuova disciplina, che
incontrerà in ogni caso molte critiche, soprattutto per l’intreccio un
po’ confuso da lui creato tra diritto, costume e controllo sociale. Spesso,
infatti, egli parla di law e di custom
usandoli come sinonimi, intercambiandoli senza troppe preoccupazioni, né
terminologiche né contenutistiche.
Importante
però l'accento sulla consuetudine, quell’insieme di regole che, per
Malinowski, è rispettato a causa della sua ragionata e comprovata utilità
pratica. Non a caso, ancor oggi, la maggior parte dei giuristi e degli
antropologi riconosce nella consuetudine un corpus, per così dire, di
comportamenti, i quali sono ripetuti nella certezza che essi siano giusti per
sé e per gli altri. Nella sua definizione di diritto questo celebre studioso
rileva due concetti ben precisi, quello di “obbligo vincolante” e quello
di “meccanismo di reciprocità”: per Malinowski, infatti, il diritto
comprende molteplici obblighi, vale a dire diritti/doveri, vincolanti in un
discorso di reciprocità intrinseca alla società. Ribadisce che il diritto
non deve essere studiato attraverso le sue manifestazioni, bensì attraverso
la sua funzione, che è funzione di reciprocità: è quest’ultima che
permette la coesione di un gruppo sociale, non la costrizione dell’autorità
statale.
Il
suo concetto di diritto fu tacciato di estrema generalizzazione, poiché è
stato osservato che l’obbligo non identifica da solo il fatto normativo:
esso è presente in vari aspetti della vita quotidiana in generale, ben
diverso da quello che s’intende per “obbligazione[17]”.
Sebbene
colpito da numerose e spesso violente critiche, Malinowski ha offerto un
contributo notevole alla disciplina: ha posto l’accento sul fatto che il
diritto è un aspetto della vita sociale e quindi della cultura in generale ed
ha forzato il formalismo giuridico offrendo (e nel fare questo fu tra i primi)
nuova linfa al dibattito antropologia-diritto.
Anche
il sociologo ed antropologo francese
Emile Durkheim (1858-1917) si interessò di diritto, approfondendo
soprattutto lo studio della socialità e della normatività. Ancorato, sotto
certi aspetti, alla prospettiva evoluzionistica, egli vide nel passaggio da
cultura a norma, attraverso l’uso della forza coercitiva, l’origine della
società primordiale: sosteneva che fosse proprio tale forza coercitiva la
base dei fatti sociali, a tal punto da affermare che, nelle società
tradizionali, il diritto fosse esclusivamente penale. Era facile arrivare a
vedere, così, nella sanzione l’elemento costitutivo del diritto[18].
Durkheim
parla di coscienza collettiva
come norma che definisce il lecito e il proibito, come patrimonio culturale
dei popoli, come insieme di elementi morali, cognitivi e religiosi che sono la
base della consapevolezza della comunità sociale. A questa idea di coscienza
collettiva, dopo alcuni anni, sostituì quella di rappresentazione
collettiva, cioè “quello stato
di coscienza collettiva distinto dallo stato di coscienza individuale[19]”.
Interessante
risulta la sua raffigurazione dell’iceberg giuridico: il diritto ne è la
punta, la parte visibile, mentre la morale ne rappresenta la parte immersa. Di
seguito, quindi, la sanzione giuridica organizzata è più facilmente
rilevabile della sanzione morale, in ogni caso più diffusa. Il diritto è il
“simbolo visibile della solidarietà sociale e corpo di norme a sanzione
organizzata[20]”.
Esso è sempre bivalente: pubblico perché prodotto sociale, privato perché
finalizzato a disciplinare l’agire umano.
Il
diritto quindi, per Durkheim, rappresenta i sentimenti collettivi che fondano
il gruppo, rispetto all’ordine e alla coesione; esso è strumento
interpretativo sia per quanto riguarda la società che la sua cultura. Il
diritto simboleggia la solidarietà sociale che, nella sanzione, viene
regolata. Rientra nella concezione della sociologia classica l’idea
durkheimiana del diritto come sistema alternativo di controllo sociale.
Il
grande contributo di E. Durkheim rimane lo studio De
La Division du travail social del 1893, nel quale l’autore nega l’idea
contrattualistica come base dell’ordine sociale ed elabora teorie sulle
forme di organizzazione umana. Il contratto si verifica solo dopo che si sono
strutturate le forme sociali.
Egli
difende il concetto di specializzazione delle funzioni economiche e quindi
della divisione del lavoro; quest’ultima crea solidarietà tra gli
individui. Presso le società tradizionali la divisione del lavoro è
veramente esigua e spesso inesistente: individui simili svolgono attività
simili e il tipo di solidarietà che si crea è meccanico.
Nelle società cosiddette complesse gli individui svolgono invece lavori
diversi: vi è specializzazione ed interdipendenza e si parla allora di
solidarietà organica. La divisione
del lavoro incarna la tendenza della società, che si realizza in ogni
individuo, a specializzarsi dal punto di vista tecnico.
Da
Durkheim è coniato il termine anomia,
cioè assenza di norme, situazione che si verifica quando esse, diventate
inadatte e anacronistiche, non vengono più riconosciute né adottate.
Subentra quindi una profonda crisi dell’organizzazione sociale alla quale
l’autore collegò sia il grado di devianza che il tasso di suicidio. Con il
testo Le Suicide del 1897 egli
intese confutare le cause psicologiche del suicidio, dimostrando l’esistenza
di tendenze “suicidogene” all’interno di ogni società: in quelle
tradizionali si assiste a suicidi di tipo altruistico, causati dalla pressione
collettiva e meccanica, mentre in quelle moderne si manifesta il suicidio
egoistico, cagionato dalla mancanza di solidarietà organica.
Marcel
Mauss (1872-1950), nipote di E. Durkheim, per quanto riguardava
l’interesse per il diritto seguì le orme dello zio: iniziò con alcune note
critiche a testi etno-giuridici, per passare poi alla stesura di veri e propri
saggi sull’argomento. Tra questi l’Essai
sur les variations saisonnieres des societas esquimaux del 1906, in cui
approfondiva i rapporti tra società e diritto tra gli Eskimo. In questo
saggio egli riporta il livello di socialità e promiscuità, le variazioni
stagionali (estate all’insegna dell’individualismo ed inverno teatro di
una vita sociale e religiosa intensamente comunitaria e pubblica), la
risoluzione pacifica di ogni disputa, spesso mediante il “song duel”[21].
Nel
celebre Saggio sul dono, scritto
nel 1923 ma pubblicato nel 1926, Mauss studia parallelamente il potlach[22]
del nordovest americano, studiato da F. Boas, e il kula[23]
melanesiano, studiato da Malinowski. Egli, unendo a questi due fenomeni anche
esempi storici (Celti, Vichinghi, Germani, Romani, ecc.), ha approfondito così
il tema della reciprocità attraverso lo studio dei rituali: situazioni reali
nelle quali le obbligazioni giuridiche si intrecciano con obblighi puramente
economici[24].
Tali obbligazioni sono di tre tipi: del dare, del ricevere e del
contraccambiare (o del restituire). Quest’ultimo è collegato all’idea che
il dono mantenga un rapporto di carattere spirituale con il donatore, in
quelle società nelle quali gli oggetti vengono considerati il prolungamento
di chi li possiede[25].
Alla
base di questo movimento circolare di beni vi è una forza magica, il mana.
Essa è insita nell’oggetto come potere spirituale che dona benefici solo se
si verifica un reale e continuo trasferimento dei beni (fino al donatore
d’origine), seguendo vari passaggi rituali. E’ così che si instaurano e
si mantengono rapporti pacifici tra gruppi diversi, che possono essere
interrotti se l’operazione “dare-ricevere-restituire” viene fermata;
tale suddetta operazione garantisce, inoltre, il riconoscimento del prestigio
sociale.
[1]
Beccaria C., Dei delitti e delle pene,
a cura di R. Fabietti, Mursia, Milano, 1973-1982.
[2] Teoria in base alla quale si ritiente che, all’interno di gruppi sociali primitivi, il potere fosse detenuto dalle donne. In seguito, gli studiosi di scienze sociali hanno dimostrato l’infondatezza di tale teoria, provando che il potere, anche quando vige un sistema di discendenza matrilineare, rimane prerogativa maschile. [3]Ancora oggi si combatte per eliminare un radicato eurocentrismo giuridico: il diritto europeo non è superiore agli altri, ma soltanto diverso. L’etnocentrismo giuridico nacque con l’imposizione del modello europeo di sviluppo economico a paesi retti da economie tradizionali che avevano usufruito, fino a quel momento, di un diritto considerato poi dagli europei inadatto al nuovo sviluppo economico. Una certa ignoranza rispetto agli altri diritti extraeuropei, unita al fatto che i diritti europei odierni derivano dalla grande tradizione del diritto romano, ha contribuito a rinforzare questo malsano e limitativo atteggiamento di superiorità. [4]
Maine H. S., Ancient Law,
Capitolo 5.
[5]
Il
termine si riferisce ad una organizzazione sociale nella quale domini il
principio del diritto paterno e del controllo assoluto, da parte maschile,
dell’autorità familiare.
[6]
Maine H. S., Ancient Law,
Capitolo 5.
[7]
Questo
sistema nasce in Francia nel XIX secolo con il celebre Code
Napoleòn e si diffonde in tutta
l’Europa continentale, l’America latina ed anche il Giappone. Comprende
quindi tutti i Paesi che si basano su un diritto di fonte legislativa, con
norme che vengono create politicamente; in questo sistema perciò i giudici
hanno solamente un potere “applicativo”, cioè fanno in modo che siano
rispettate le suddette leggi, soprattutto nella risoluzione delle
controversie.
[8]
Per Common Law si intende il diritto di formazione giudiziaria, cioè quello
che si basa sulla formula dello “stare decisis”, ossia sul vincolo del
precedente giudiziario, per cui un giudice che si trova a dover decidere su
un caso si deve attenere alle sentenze di altri giudici che lo hanno
preceduto nel trattare casi analoghi. Non è quindi il legislatore che crea
il diritto, ma i giudici. Tale sistema nasce in Gran Bretagna nel XVII
secolo ed è stato, per così dire, esportato in tutti i Paesi che da questa
sono stati resi colonie di conquista.
[9]
La terminologia classificatoria colloca i parenti lineari e collaterali
(ossia i parenti consanguinei, imparentati orizzontalmente come i fratelli o
i cugini) nella stessa categoria; la terminologia descrittiva indica
solamente un tipo di parentela biologica e distingue i parenti lineari da
quelli collaterali. Seymour-Smith C., Dizionario
di antropologia, Sansoni, Firenze, 1991.
[10]
Rouland N., Antropologia giuridica,
pag. 46, Giuffré, Milano, 1992.
[11]
L’esogamia è la pratica di sposarsi al di fuori del proprio gruppo
sociale. Endogamia è esattamente l’opposto: è l’obbligo di scegliere
il coniuge all’interno di precisi limiti sociali. Essa si distingue
ulteriormente in varie tipologie, quali l’endogamia di gruppo parentale,
di alleanza e di gruppo locale. Seymour-Smith C., Dizionario
di antropologia, Sansoni, Firenze, 1991.
[12]
McLennan
collegò il ratto della sposa all’infanticidio femminile praticato dagli
uomini primitivi, i quali, per procurarsi una sposa, dovevano quindi
ricorrere ad un'azione di forza.
[13]
Il termine “diffusione” fu introdotto da E. B. Tylor in riferimento alla
trasmissione di elementi culturali nello spazio, ad opera di movimenti
migratori e/o di trasferimenti per contatto culturale. Nella vivace diatriba
che si verificò tra evoluzionisti e diffusionisti nel XIX secolo, i primi
affermavano che invenzioni simili fossero nate spontaneamente in varie aree
del mondo a causa di tratti intellettivi universali, i secondi sostenevano
invece che le invenzioni partissero da pochissimi punti precisi del globo e
si diffondessero tuttavia attraverso una semplice propagazione culturale
nello spazio.
[14]
Malinowski
B., Teoria scientifica della cultura
e altri saggi, traduzione di G. Faina, pagg. 44-45, Feltrinelli, Milano,
1962.
[15]
Malinowski
B., op. cit., pag. 135.
[16]
Malinowski
B., op. cit., pag. 131.
[17]
“ L’obbligazione è un vincolo giuridico che impone ad un determinato
soggetto di tenere un dato comportamento al fine di soddisfare un interesse
proprio di altra persona determinata… Oggetto dell’obbligazione è la
prestazione dovuta, cioè il comportamento che il debitore deve tenere in
funzione della realizzazione del diritto del creditore e del sotteso suo
interesse a conseguire il risultato finale cui conduce il comportamento
stesso”. Gazzoni F., Manuale di
diritto privato, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli, 1996.
Le
obbligazioni sono di tre tipi: di dare (il debitore deve consegnare un bene
o una somma di denaro), di fare (il debitore deve compiere una determinata
azione o attività), di non fare (il debitore è impegnato a non compiere
una determinata attività o azione).
[18]
Bernardi
B., Uomo Cultura Società, F.
Angeli, Milano, 1985.
[19]
Seymour-Smith
C., Dizionario di antropologia,
Sansoni, Firenze, 1991.
[20]
Durkheim E., La divisione del lavoro
sociale, Comunità, Milano, 1977.
[21]
Gara
canora satirica che si tiene davanti a tutta la comunità. L’abilità
della parola e del canto viene utilizzata per ridicolizzare l’avversario
in una forma agonistica molto forte.
[22]
Cerimonia-sfida in cui i capi distruggono grandi quantità di provviste e
beni, offrendo contemporaneamente banchetti regali. Questa forma di scambio
cerimoniale viene praticata nel Canada nordoccidentale, sulla costa, e viene
interpretata sotto vari aspetti: il principio di ridistribuzione, l’uso
competitivo per la scalata sociale; il riconoscimento del proprio status.
[23]
Cerimoniale che comprende un complicato traffico, su canoe, di monili fatti
di conchiglie e coralli, da un’isola all’altra, in senso orario ed
antiorario. Rinsalda alleanze tra i diversi villaggi, rendendo possibile gli
approvvigionamenti dei vari gruppi sociali.
[24]
Motta R., Teorie del diritto
primitivo. Un’introduzione all’antropologia giuridica,
Unicopli, Milano, 1986.
[25]
Sul
concetto di prolungamento della personalità attraverso gli oggetti
personali, si veda anche: Faedda B., Antropologia,
Diritto e Arbitrato, in Finanza, sviluppo e territorio, Aprile 1999, n.
4, pag. 156.
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