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Circolare Ministero delle attività produttive 10 novembre
2003, n. 168 - Etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti
alimentari.
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(G.U. n. 4, 7 gennaio 2004, Serie Generale)
Al Ministero della salute
Al Ministero delle politiche agricole e forestali - Ispettorato repressione
frodi
Alle regioni e province autonome di Trento e di Bolzano
Alla Federalimentare
Alla Confcommercio
Alla Confartigianato
Alla C.N.A.
Alla A.N.C.C.-COOP
Questo Ministero è già intervenuto più volte, in occasione dell'entrata in
vigore di norme di particolare rilievo, per chiarirne la portata e fornire
informazioni per una corretta ed uniforme loro applicazione sia da parte delle
imprese sia da parte degli organi di vigilanza.
Pervengono, poi, quesiti sia da parte di aziende ed associazioni professionali
sia da parte di alcuni organi di controllo, che chiedono precisazioni sulla
applicazione di talune norme, in particolare di quelle relative
all'etichettatura.
Sulla scia di quanto già fatto in precedenti occasioni, con la presente si
forniscono i chiarimenti richiesti:
A) Utilizzazione del termine «Integrale" nell'etichettatura dei prodotti
da forno.
E' stato sollevato un problema di interpretazione relativamente all'uso del
termine «integrale" nella etichettatura dei prodotti da forno ottenuti
attraverso la miscelazione di farina di grano tenero con crusca e/o cruschello
invece che con farina integrale, come definita dal decreto del Presidente della
Repubblica n. 187/2001.
La questione è rilevante per diversi aspetti. Anzitutto occorre distinguere la
denominazione di vendita dall'ingrediente, secondo le diverse utilizzazioni
della farina. Nel caso in cui questa venga destinata alla vendita diretta al
consumatore o alla panificazione, occorre rispettare quanto previsto dal decreto
n. 187/2001. Quando è ingrediente, la farina in parola può essere designata col
nome «farina di frumento" o «farina di frumento integrale" così come
avviene negli altri Stati membri.
Le denominazioni di vendita, riservate agli sfarinati, previste dal decreto n.
187/2001 sono vincolanti solo per i produttori di farine e le caratteristiche
fissate al comma 3 dell'art. 1 di detto decreto si applicano esclusivamente
alle farine destinate alla panificazione e alla vendita diretta al consumatore:
non sono, quindi, vincolanti per gli altri settori industriali, in particolare
per i prodotti da forno, tanto è vero che l'art. 10 ha previsto una specifica
deroga.
L'uso, poi, del qualificativo «integrale" nella denominazione di vendita
(esempio: biscotti integrali) risulta coerente sia nel caso di utilizzo di
farina di frumento integrale acquistata come tale da aziende molitorie, sia nel
caso in cui si ottenga tale prodotto, con le medesime caratteristiche,
nell'ambito dello stesso opificio, ove viene utilizzata, aggiungendo crusca e/o
cruschello alla farina di grano tenero. Il termine «integrale", infatti,
implica la presenza di crusca e/o di cruschello in quantità tale da assicurare
un significativo apporto nutrizionale di fibre nel prodotto finito.
La crusca/cruschello sono, infatti, gli unici elementi che differenziano la
farina di frumento integrale dalla farina di grano tenero non essendo, inoltre,
vincolanti per utilizzazioni diverse dalla panificazione e dalla vendita
diretta al consumatore i parametri previsti al comma 3 dell'art. 1 del decreto
n. 187/2001.
Pertanto non ha rilevanza alcuna, ai fini dell'informazione al consumatore, la
messa in evidenza che si tratta di «farina integrale di grano tenero"
proveniente dai molini con i parametri previsti dalla norma suddetta oppure di
«farina di frumento integrale" sempre proveniente dai molini ma con
parametri diversi da quelli previsti dalla norma o, infine, di farina integrale
ricostituita, all'interno dell'azienda utilizzatrice, con parametri uguali o
diversi da quelli previsti dalla norma. I prodotti finiti sono tutti legali con
caratteristiche organolettiche pressoché identiche.
Si ritiene utile evidenziare, a tal fine, che lo scopo primario della norma
consiste nella protezione e nella informazione dei consumatori e non nella
protezione delle esigenze delle categorie economiche.
Si ritiene utile ricordare anche che, durante l'elaborazione del decreto n.
187/2001, è stata prestata molta attenzione ai principi comunitari sulla libera
circolazione delle merci, che riguardano in particolare la loro utilizzazione,
nonché a quanto sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 443/1997
sulla pasta, finalizzata ad evitare discriminazioni alla rovescia a danno
dell'industria nazionale rispetto alla concorrenza estera.
Ciò che cambia dal punto di vista giuridico, ai fini del rispetto delle regole
di etichettatura relative alla definizione di «ingrediente", è che, nel
caso in cui la farina provenga direttamente dal molino, si ha un unico
ingrediente da menzionare come tale e cioè «farina di frumento integrale";
nel caso in cui, invece, la farina integrale si ottenga per ricostituzione si
hanno due o tre ingredienti che vanno designati separatamente col proprio nome
(farina di frumento, crusca, cruschello). V'è da chiedersi al riguardo se in
questo caso l'uso del termine «integrale" nella denominazione del prodotto
finito comporti l'obbligo dell'indicazione del QUID. Ebbene, poiché nella
denominazione di vendita non figura alcun ingrediente particolare, nessun adempimento
ulteriore è richiesto, a meno di espliciti richiami in etichettatura circa la
specifica tipologia di farina impiegata.
B) Somministrazione della croissanterie.
L'esigenza di avere un'ampia tipologia di prodotti, freschi e fragranti, quali
croissant, krapfen, sfogliatine, strudel e simili, ha indotto l'industria a
preparare prodotti a temperatura controllata destinati, con appositi fornetti,
senza alcuna manipolazione, che integri una attività produttiva, ad essere
somministrati sul punto di vendita. I prodotti in questione non sono
semilavorati o preparazioni alimentari, ma sono prodotti finiti, in quanto,
come detto, non necessitano di manipolazione o ulteriore lavorazione, per
essere somministrati.
Questo Ministero ha già precisato in precedenti occasioni che, tenendo conto
della evoluzione delle modalità di prestazione del servizio di
somministrazione, tale attività è del tutto compatibile con l'attività di
somministrazione, di cui all'art. 5, lettera b), della legge n. 287/1991.
Qualora si volesse attribuire a tale attività un diverso significato, si
correrebbe il rischio di offrire un cattivo servizio al consumatore, le cui
esigenze devono sempre essere considerate prioritarie, senza creare inutili
ostacoli alla commercializzazione, soprattutto quando non è messo in
discussione il rispetto delle norme igienico-sanitarie.
Nulla vieta, pertanto, di ricondurre nella specifica autorizzazione sanitaria
rilasciata al pubblico esercizio l'attività di cui sopra, alla stregua di
quanto avviene per il pane parzialmente cotto surgelato o meno. Si tratta di
situazione analoga. Il legislatore, peraltro, nel caso del pane, è dovuto
intervenire, perché v'era il problema della denominazione di vendita che non
consentiva di denominare «pane" il prodotto parzialmente cotto: situazione
che non si presenta nel caso specifico della croissanterie.
C) Uso dei termini «All'aceto", «Con aceto" e simili.
Con circolari n. 379/1966 e n. 385/1968 il Ministero dell'industria, del
commercio e dell'artigianato fornì, sulla base delle norme allora vigenti, una
serie di indicazioni alle aziende alimentari conserviere circa l'uso delle
diciture suddette nel caso di utilizzazione di aceto come ingrediente.
L'adozione di norme comunitarie in materia di etichettatura negli anni
successivi ha reso praticamente superate dette circolari. I termini, quindi,
riportati in titolo sono da considerarsi utilizzabili alternativamente con
equivalente significato.
D) Vendita prodotti congelati.
Da qualche tempo si osserva che, in alcune superfici della grande
distribuzione, nei banchi di vendita dei prodotti surgelati sono immessi anche
prodotti congelati non confezionati, esposti con gli estremi dell'azienda
produttrice, che spesso incorpora nel proprio nome la parola «surgelati",
anche se poi sulle singole etichette o nei depliants
a disposizione del pubblico compare l'indicazione che si tratta di prodotti
congelati.
Questo modo di operare, oltre ad essere ingannevole per il consumatore,
rappresenta anche una forma di slealtà commerciale.
Si invitano, pertanto, gli organi di vigilanza a verificare che, per i prodotti
congelati venduti sfusi, siano fornite adeguate informazioni al consumatore, in
conformità a quanto previsto dall'art. 16 del decreto legislativo 27 gennaio
1992, n. 109, come modificato dall'art. 13 del decreto legislativo 23 giugno
2003, n. 181, il quale stabilisce che detti prodotti devono essere muniti di
apposito cartello, applicato ai recipienti che li contengono oppure applicato
nei comparti in cui sono esposti.
Sul cartello devono figurare:
a) la denominazione di vendita, accompagnata dal termine «congelato",
senza che compaia, a qualsiasi titolo, il termine «surgelato/i";
b) le modalità di conservazione dopo l'acquisto;
c) la percentuale di glassatura per i prodotti
glassati.
I banchi ed i prodotti in essi contenuti, infine, vanno adeguatamente protetti
e vanno rispettate le norme igieniche di cui al decreto legislativo n. 155 del
26 maggio 1997 (attuazione della direttiva 93/43/CE sull'igiene).
E) Utilizzazione uova fresche.
I regolamenti (CEE) 1907/90 e 1274/91 fissano le norme per la
commercializzazione delle uova vendute in guscio tal quali. Ai sensi dell'art.
5 del regolamento n. 1274/1991 le uova di categoria A o «uova fresche"
devono possedere determinate caratteristiche tra cui quella di non aver subito
alcun trattamento di conservazione.
Dal momento che le uova utilizzate nei prodotti trasformati, indipendentemente
dalla categoria di riferimento, devono essere pastorizzate, la sola menzione
«uova fresche" potrebbe sembrare non corretta. Al riguardo è da precisare
che la pastorizzazione delle uova fresche in questo caso è richiesta dal
decreto legislativo n. 65/1993 relativo agli ovoprodotti
(art. 3, lettera e) non come trattamento di conservazione ma come esigenza di
ordine igienico-sanitario obbligatoria.
Pertanto, ai fini della qualificazione dei prodotti finiti preparati con
l'impiego di uova fresche (categoria A) e per garantire un'idonea informazione
del consumatore, si ritiene che gli ovoprodotti
ottenuti esclusivamente da uova fresche di gallina vadano distinti da quelli
ottenuti da uova di gallina di categoria diversa dalla categoria A, attraverso
l'etichettatura. Si suggerisce, pertanto, che le uova fresche, come sopra
descritte, siano designate nell'elenco degli ingredienti dei prodotti finiti
trasformati con la menzione «uova fresche" e le altre come «uova".
Tale soluzione è da ritenersi conforme a quanto previsto all'art. 5, comma 13,
del decreto legislativo n. 109/1992.
Se ciò non fosse, non vi sarebbe neppure la necessità di utilizzare le uova
fresche, con conseguenti ingenti danni alla relativa produzione agricola.
Si precisa infine che il divieto del trattamento della pastorizzazione a scopo
conservativo per le uova fresche, previsto dalla normativa comunitaria, riguarda
solo il prodotto in guscio venduto tal quale.
F) Prodotti artigianali.
Nella commercializzazione di taluni prodotti artigianali, quali le paste
alimentari di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 187/2001,
talvolta viene fatto con una certa enfasi riferimento alla «produzione
artigianale", come se si trattasse di una garanzia di qualità
organolettica, nutritiva o sanitaria superiore.
L'uso di diciture quali «lavorato a mano" e simili è ingannevole quando
soltanto alcune fasi secondarie e collaterali della produzione sono effettuate
a mano.
Nel comparto delle paste alimentari, ad esempio, le diciture «lavorato a
mano" e simili potranno essere apposte unicamente qualora le fasi di
impasto, trafilatura, taglio ed essiccazione della pasta siano state effettuate
in tutto o per la maggior parte a mano e non anche quando la manualità abbia
riguardato unicamente fasi secondarie come lo svuotamento dei sacchi di semola,
il riempimento delle tramogge, il dosaggio degli ingredienti o il confezionamento. Inoltre, sempre più spesso, viene fatto
riferimento al tenore proteico e al contenuto in glutine sia delle materie
prime che del prodotto finito. Questi messaggi devono essere idoneamente
dimostrati e comportano la realizzazione dell'etichetta nutrizionale, in quanto
viene fornita una informazione su un elemento fondamentale dell'etichettatura
nutrizionale disciplinata dal decreto legislativo n. 77/1996: la quantità di
proteine.
E' vero che l'uso di diciture concernenti le caratteristiche del metodo di produzione
costituisce una garanzia fornita al consumatore sul metodo, ma non si traduce,
di regola, anche in un aumento della qualità del prodotto finito in termini di
caratteristiche ingredientistiche, nutrizionali, chimico-fisiche, organolettiche ed igienico-sanitarie.
Delle metodologie artigianali viene fornito un elenco, non esaustivo ma di
rilievo, nella pronuncia n. 8884 del 9 novembre 2000 dell'Autorità garante
della concorrenza e del mercato, che si può così riassumere: la presenza di una
struttura organizzativa tipicamente artigianale e/o familiare è caratterizzata
dal basso numero di addetti e soprattutto dall'incidenza dell'apporto umano e
personale nella produzione. Questo aspetto concerne, ovviamente ed unicamente,
le caratteristiche dell'azienda. Pertanto non può in alcun modo essere
utilizzato per presentare i prodotti come superiori nella qualità. L'azienda
artigianale non può cioè trasformare la sua qualifica giuridica in un elemento
di qualità dei prodotti finiti.
In tale contesto non si può non tener conto anche di quanto previsto dal
decreto legislativo n. 74/1992 che, anche se di portata generale, vieta ogni
forma di pubblicità subliminale e subordina l'uso dei termini «garantito e
garanzia" e simili, quali «selezionato e scelto", alla precisazione
in etichetta del contenuto e delle modalità della garanzia offerta.
G) Paste speciali.
Sono stati chiesti più volte chiarimenti circa i limiti di riferimento per le
ceneri, l'acidità e gli altri parametri analitici, di cui all'art. 6, comma 3,
del decreto del Presidente della Repubblica n. 187/2001, per la produzione di
paste speciali, sia secche, sia fresche, sia stabilizzate.
Tale problema è stato affrontato più volte anche nel corso dell'elaborazione
del decreto n. 187/2001, dove non si è ravvisata la necessità di apportare
specifiche precisazioni, essendo la norma già chiara.
Infatti, mentre per la pasta di semola di grano duro (semola+acqua),
il limite massimo di ceneri è 0,90 su cento parti di sostanza secca, per i casi
di presenza di altre sostanze oltre alla semola, come le uova della pasta
all'uovo, il legislatore ha conseguentemente provveduto ad adeguare il limite
di ceneri, fissandolo a 1,10 per la pasta con quattro uova per chilogrammo di
semola ed ammettendo un ulteriore incremento di 0,05 per ogni uovo in più
rispetto al minimo prescritto.
Quando all'impasto vengono miscelati altri ingredienti alimentari, allo scopo
di ottenere una pasta «speciale", secca, fresca o stabilizzata, i
parametri previsti all'art. 6, comma 3, non dovranno essere applicati al nuovo
prodotto finito, bensì esclusivamente alla materia prima di base impiegata.
Nella valutazione del tenore delle ceneri e degli altri parametri analitici si
dovrà tener conto sia del contributo apportato dalla materia prima di riferimento
impiegata, sia dell'effetto esercitato sul parametro analitico finale
dall'ingrediente/i aggiunto/i.
Ad esempio, nel caso delle ceneri di un pasta di semola di grano duro con
spinaci, è errato non sottrarre il contributo delle ceneri apportate dagli spinaci
a quello rilevato sul prodotto finito.
Si deve altresì fare riferimento, per definire il contributo portato dagli
spinaci, alla quantità impiegata in ricetta, al loro contenuto medio di ceneri
e relativa variabilità naturale.
Pertanto, in fase di accertamento analitico, i valori delle ceneri,
dell'acidità e degli altri parametri apportati dagli ingredienti alimentari a
quelli apportati dalle materie prime di base vanno scorporati dal computo
globale; la quantità di tali ingredienti, poi, è facilmente rilevabile sulla
base della loro dichiarazione quantitativa in etichetta, ai sensi dell'art. 8
del decreto legislativo n. 109/1992 o meglio ancora analizzando la ricetta
all'origine.
H) Bevande di fantasia al gusto di frutta.
Le bevande in parola hanno un contenuto di succo frutta inferiore al 12% ma
devono essere poste in vendita con un nome di fantasia tale da non ingenerare
confusione con le bevande, di cui all'art. 4 del decreto del Presidente della
Repubblica 19 maggio 1958, n. 719 che disciplina le bevande analcoliche con
almeno il 12% di succo.
Detto limite del 12% era previsto anche per le bevande alcoliche (liquori,
amari, ecc.) dall'art. 14 della legge n. 1559/1951, risultato poi incompatibile
con le disposizioni comunitarie in materia di bevande spiritose.
Le bibite in questione, comunque, sono generalmente identificate da nomi di
fantasia e da ulteriori diciture indicative del gusto: l'indicazione del succo
è obbligatoria ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 109/1992. Non si
tratta, come da alcune parti si vuol far credere, di un modo per trarre in
errore il consumatore ma di una precisazione per identificare la natura della
bevanda che potrebbe essere composta anche solamente da acqua, zucchero, aromi
e coloranti. Il tipo di aromatizzazione utilizzato può essere evidenziato con
la dicitura «al gusto di ...", «al sapore di ..." o dicitura simile.
Mentre per le bevande di cui all'art. 4 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 719/1958, il requisito di identificazione è dato dal nome della
bevanda (aranciata, limonata, ecc.), per le bevande di cui all'art. 7 il
requisito è dato dal suo gusto.
La questione è stata affrontata dalla Corte di cassazione nella sua sentenza
del 6 marzo 1992, n. 2726 nella quale, con riferimento ad una bevanda
denominata «quench" che riportava anche la
dizione «cedro gusto arancia" si afferma che:
«Le riportate norme (cioè gli articoli 4 e 5 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 719/1958) non riguardano le bevande analcoliche che siano
commercializzate con un nome di fantasia, le quali, ancorché si avvalgano di
uno o più frutti, non sono soggette a percentuali minime di presenza dei frutti
medesimi".
La sentenza così prosegue:
«Tanto premesso, si deve considerare che la bibita in questione, come accertato
in sede di merito, è stata messa in commercio con marchio inequivocabilmente di
fantasia («quench", tratto dalla parola inglese
«quencher" che vuol dire genericamente bibita),
mentre l'ulteriore dizione «cedro gusto arancia", apposta sul recipiente,
non sostituisce né snatura detta denominazione di fantasia, ma ha soltanto la
funzione di illustrare gusto e aroma".
Il caso esaminato dalla Cassazione è indubbiamente e strettamente analogo a
quello delle bibite in questione in cui si riscontrano marchi di pura fantasia
accompagnati da dizioni indicative del gusto (quali talune indicazioni in
lingua straniera del tipo orange, lemon)
piuttosto che della mera composizione della bevanda, ma che sicuramente non ne
costituiscono la denominazione. Queste ultime (quali ad esempio «bevanda
analcolica"/«bevanda analcolica al gusto di limone") non si
riferiscono al frutto di per sé (come ad esempio la denominazione
«Limonata") e rispondono all'esigenza, imposta dalla norma dell'art. 4,
comma 1-bis, del decreto legislativo n. 109/1992, novellato dal decreto
legislativo n. 68/2000, di «consentire all'acquirente di conoscere l'effettiva
natura e di distinguerlo dai prodotti con i quali potrebbe essere
confuso".
L'eventuale dichiarazione volontaria della percentuale del succo contenuto va
considerata come elemento di una corretta informazione circa le caratteristiche
compositive delle bevande chiarendo che dette bevande
appartengono ad una diversa categoria a più elevato tenore di succo di cui
all'art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica n. 719/1958.
L'art. 11, poi, del decreto del Presidente della Repubblica n. 719/1958 secondo
il quale «le confezioni per le bibite di cui agli articoli 6 e 7 del presente
regolamento non debbono avere forma o colore né portare figure o indicazioni
che facciano comunque riferimento a frutta, piante o loro parti" è da
ritenersi abrogato dall'art. 29 del decreto legislativo n. 109/1992.
Per quanto riguarda infine i coloranti, va posto in evidenza che il loro uso è
subordinato all'integrale rispetto delle disposizioni comunitarie in materia.
In particolare viene richiamata l'attenzione sull'art. 31, primo comma, della
legge comunitaria n. 52/1996 ai sensi del quale sono abrogate, tra l'altro, «g)
articoli 8, 10 e 16, primo comma, lettera c), del regolamento approvato con
decreto del Presidente della Repubblica 19 maggio 1958, n. 719, nonché ogni
altra disposizione in contrasto.".
La legge n. 286/1961 risulta praticamente inapplicabile in considerazione di
quanto sopradetto; si attende ora solo una sorta di norma che provveda alla
relativa soppressione, allo scopo di fare chiarezza.
Si richiama infine la sentenza della Corte costituzionale del 30 dicembre 1997,
n. 443 che, occupandosi della legge n. 580/1967 in materia di paste alimentari,
ha stabilito il principio che le norme nazionali che impongono ai produttori
nazionali obblighi che non incombono sui fabbricanti di altri Paesi membri
dell'Unione europea (che peraltro possono liberamente commercializzare in
Italia i loro prodotti non conformi alle norme italiane, purchè
rispondenti alla legislazione del Paese d'origine) sono contrarie al principio
costituzionale di non discriminazione.
Qualora si volesse ritenere che le indicazioni riportate sull'etichetta delle
bevande in questione e la loro composizione contrastino con norme italiane
ritenute tuttora vigenti, le imprese nazionali produttrici di tali bevande
sarebbero, in base ai principi affermati dalla sentenza in questione, incostituzionalmente discriminate nei confronti dei
fabbricanti dei numerosi altri Paesi membri dell'Unione europea in cui non
vigono le restrizioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica n.
719/1958 e dalla legge n. 286/1961. Tali produttori sarebbero infatti liberi di
commercializzare sul mercato nazionale loro prodotti non conformi alle norme
italiane citate, con conseguente indebito vantaggio competitivo nei confronti
delle imprese nazionali.
I) Etichettatura delle carni, quali ingredienti.
Con la circolare n. 165 del 31 marzo 2000 furono dettate regole dettagliate
circa l'applicazione dell'art. 8 del decreto legislativo n. 109/1992.
La direttiva 101/2001/CE attuata con l'art. 15 del decreto legislativo 23
giugno 2003, n. 181, ha posto altri problemi connessi con la definizione di
carne. Si ritiene pertanto utile, dopo una attenta disamina dei diversi aspetti
relativi ai prodotti più significativi esistenti sul mercato, fornire taluni
chiarimenti al riguardo.
La norma in parola si applica a tutti i prodotti alimentari contenenti carne,
in quanto ingrediente, siano essi preconfezionati o meno. Essa non si applica
alle carni commercializzate tal quali.
Per carne si intende la carne muscolare scheletrica dell'animale compresa la
quantità massima di grasso e di tessuto connettivo prescritti, naturalmente aderenti
alle masse muscolari scheletriche. Le carni di qualsiasi specie vanno designate
col nome specifico previsto dalla normativa comunitaria o, in mancanza, da usi
e consuetudini nazionali. In luogo del nome specifico può essere usato il nome
della categoria: «carne di" seguito dal nome della specie.
Di conseguenza non è più consentito utilizzare, come in passato, il solo
termine relativo alla specie, quale «bovino", «suino", essendo stato
soppresso il comma 10 dell'art. 5 del decreto n. 109/1992.
Le altre parti dell'animale, escluse dalla definizione di «muscoli
scheletrici", sono etichettate con il loro nome specifico di uso comune.
Questi nomi specifici, se non sono legati a specie animali individuate, devono
essere completati con il nome della specie animale da cui provengono. Esempio:
la cotenna è solo di suino e non di altri animali, per cui il prodotto può
essere designato col nome «cotenna" in luogo di «cotenna suina".
La tabella seguente riporta l'indicazione da utilizzare, ad esempio, per le
parti di suino che non rientrano nella definizione di «muscoli
scheletrici" il cui impiego risulta possibile in alcune ricette
tradizionali:
Parti
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Designazione
|
Grasso (eccedente
i limiti prescritti)
|
Grasso suino
|
Cotenna (eccedente
i limiti prescritti)
|
Cotenna
|
Trippino
|
Trippino suino
|
Magro di testa
(diverso dal massetere)
|
Magro suino di
testa
|
I limiti di grasso e di tessuto connettivo contenuti nella tabella dell'art. 15
del decreto n. 181/2003, si intendono riferiti ad ogni specie separatamente. In
un prodotto, ad esempio, costituito da carne bovina e carne suina, detti limiti
sono, per il grasso, 30% per la carne suina e 25% per la carne bovina.
Le parti anatomiche dell'animale, quali coscia suina e pancetta suina,
designate con il loro nome, non soggiacciono ai limiti di grasso e di tessuto
connettivo prescritti. Esse non vanno accompagnate da qualificazioni,
suscettibili di trarre in errore il consumatore sulla effettiva natura del
prodotto e di creare concorrenza sleale, quale il termine «fresco", salvo
il caso di specifica previsione in una norma comunitaria.
La carne meccanicamente separata deve essere designata come tale, completata
dal nome della specie animale. Esempio: carne di pollo separata meccanicamente,
carne suina separata meccanicamente.
I limiti di grasso e di tessuto connettivo sono basati su analisi e calcolati a
livello di messa in opera. Non si tiene conto del budello o dell'involucro che
sono elementi estranei all'impasto.
Per il calcolo si prendono in considerazione il contenuto percentuale di
«proteina di carne", «collagene" e «grasso" di ogni specie
animale separatamente. Tali contenuti, tutti identificati al momento della
messa in opera, si basano su uno dei seguenti dati/analisi:
a) dati di composizione generalmente accettati relativi alle sole parti
dell'animale rientranti nella definizione di carne;
b) analisi rappresentative relative solamente alle specifiche parti
dell'animale rientranti nella definizione di carne;
c) analisi rappresentative di miscele relative solamente a quelle parti
dell'animale rientranti nella definizione di carne.
Tali dati ed analisi devono escludere a priori la possibile presenza di
sostanze non rientranti nella definizione di carne, quali fegato e cuore,
proteine vegetali, additivi ed aromi.
Per quanto riguarda, infine, l'obbligo di indicare la percentuale di carne
utilizzata nella preparazione di prodotti composti, essa è prescritta solo per
i prodotti preconfezionati destinati tal quali al consumatore. Tale obbligo non
si applica ai prodotti costituiti essenzialmente da carne a condizione che la
quantità di acqua aggiunta non superi nel prodotto finito il 5% e non
contengano sostanze diverse da quelle tecnologiche (sale, aromi, additivi,
......). E' fatta salva comunque la facoltà dell'impresa di indicare, per una
migliore informazione del consumatore, la percentuale di carne utilizzata anche
nei casi in cui non ve ne sia l'obbligo.
I controlli, come già ribadito nella precedente circolare n. 165, finalizzati
all'accertamento della quantità di carne e dei limiti di grasso e di connettivo
vanno effettuati ovviamente all'origine. Il controllo sul prodotto prelevato
nelle fasi commerciali non può essere preso a riferimento per valutarne la
conformità, in quanto, ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n.
109/1992, occorre riferirsi al momento della utilizzazione degli ingredienti.
Allo scopo poi di assicurare comportamenti omogenei nella commercializzazione
di taluni prodotti particolarmente diffusi si forniscono delle linee guide che
integrano quelle riportate nella circolare n. 165 del 31 marzo 2000:
1) Cotechino e zampone «puro suino" sono prodotti di solo suino.
La dicitura «puro suino", peraltro non obbligatoria, evidenzia solo che le
carni utilizzate nella preparazione del prodotto sono solo di suino.
Ai fini della determinazione dell'ordine ponderale decrescente nell'elenco
degli ingredienti, il tenore di carne va conseguentemente ridotto quando grasso
e connettivo sono superiori ai limiti prescritti.
Esempio di zampone costituito da carne avente 35% di grasso e 30% di cotenna.
L'elenco degli ingredienti e il seguente: carne suina, cotenna, grasso suino,
aromi.
Esempio di cotechino costituito da carne avente 30% di grasso, 20% di cotenna e
20% di magro di testa (diverso dal massetere). L'elenco degli ingredienti è il
seguente: carne suina, magro suino di testa, aromi.
Non è richiesta l'indicazione di grasso e di cotenna, in quanto sono entro i
limiti massimi prescritti per la non indicazione.
Si evidenzia che, in entrambi i casi, l'elenco degli ingredienti va completato
con l'indicazione delle sostanze tecnologiche eventualmente utilizzate e che la
cotenna può non essere seguita dal termine «suino", giacché essa è solo di
suino.
2) Prosciutto cotto.
Si tratta di prodotto, costituito da carni, acqua e sostanze tecnologiche.
Nel caso di prodotto con una quantità d'acqua aggiunta entro il limite del 5%
nel prodotto finito, non si procede a quantificazione della carne.
Qualora la quantità d'acqua aggiunta superi nel prodotto finito il 5%, occorre
indicare l'acqua nell'elenco degli ingredienti e quantificare la carne suina,
ai sensi dell'art. 8 del decreto n. 109/1992.
3) Mortadella puro suino.
Il riferimento al suino è fatto solo per indicare l'utilizzazione di un solo
tipo di carne, quella suina.
Come nel caso di zampone e cotechino non v'è l'obbligo dell'indicazione
percentuale di carne anche in presenza di eventuale aggiunta di grasso suino
e/o di cotenna e/o di trippino. Il grasso ed il
connettivo, se superano i limiti prescritti, vanno indicati nell'elenco degli
ingredienti della mortadella senza indicazione percentuale della carne.
Le parti anatomiche dell'animale, che non sono considerate carne ai sensi
dell'art. 15 del decreto legislativo, vanno indicate col loro nome specifico
nell'elenco degli ingredienti della mortadella.
In taluni casi viene posto in evidenza una parte anatomica dell'animale per
valorizzare il prodotto: mortadella di fegato oppure mortadella con fegato.
Trattandosi di un ingrediente non considerato carne, ma caratterizzante per il
prodotto, il fegato va quantificato, come nell'esempio seguente: ingredienti:
carne suina, fegato suino 30%, grasso suino, trippino
suino, aromi.
Nel caso, poi, di prodotti ottenuti da carni di più specie, le relative specie
vanno tutte quantificate in percentuale.
4) Wurstel.
Si tratta di prodotto ottenuto utilizzando anche acqua, aromi ed altre parti
anatomiche. I principi cui ispirarsi per l'etichettatura sono gli stessi
indicati per altri prodotti carnei.
Esempi:
a) Wurstel costituito da 60% di carne suina, 30% di acqua, 8% di aromi, .... ha
il seguente elenco di ingredienti: carne suina 60%, acqua, aromi, ...., se i
limiti di grasso e di connettivo sono quelli prescritti.
La quantificazione percentuale della carne è richiesta perché v'è una quantità
d'acqua aggiunta superiore a 5%.
b) Wurstel costituito da carne suina 90%, acqua 5%, aromi, è un prodotto
costituito essenzialmente da carne. La carne può non essere quantificata e
l'acqua, non superando il 5% del prodotto finito, non viene indicata
nell'elenco degli ingredienti. L'elenco degli ingredienti è, quindi, il
seguente: carne suina, aromi;
c) «Wurstel di pollo": identifica un prodotto ottenuto da carne di pollo,
generalmente meccanicamente separata. Tale carne non è considerata carne ai
fini dell'etichettatura e deve essere designata con la dicitura «carne di pollo
separata meccanicamente".
Essa non risponde, ovviamente, ai limiti di grasso e di connettivo previsti per
le carni avicole. La pelle ed altre parti dell'animale composte di grasso e di
connettivo rientrano nell'unica voce «carni di ...... separate
meccanicamente".
Lo stesso vale per le altre carni avicole quali quelle di tacchino e di anatra.
Un esempio di elenco degli ingredienti può essere: carne di tacchino
meccanicamente separata 80%, acqua, aromi, ...... Qualora la quantità di carne
sia più elevata e l'acqua aggiunta non superi il 5%, l'elenco degli ingredienti
può essere: carne di tacchino separata meccanicamente, aromi, .....
Nel caso di miscele, poi, le specie vanno quantificate: carne di pollo separata
meccanicamente 50%, carne di tacchino separata meccanicamente 40%, .... Per
evitare di ripetere ogni volta la dicitura «meccanicamente separata", la
cui indicazione occuperebbe inutilmente molto spazio in etichetta, non si
ravvisano problemi a inserire dopo «carne di pollo" e «carne di
tacchino" un asterisco e riportare in fondo alla lista degli ingredienti
la detta dicitura accanto all'asterisco. Modalità questa già prevista da alcune
regolamentazioni comunitarie specifiche.
5) Strutto.
Lo strutto, generalmente è un monoingrediente, per
cui non porta l'elenco degli ingredienti. Viceversa lo stesso, se ha subito
aggiunte, nell'elenco degli ingredienti può essere designato con la voce
«grasso suino" ma nulla osta a designarlo come strutto.
6) Ciccioli, cigoli e simili.
I ciccioli e simili sono prodotti proteici ottenuti dalla fusione di tessuto
adiposo del suino. Possono contenere anche una parte di carne, che non è
ingrediente. Conseguentemente l'elenco degli ingredienti può essere diverso a
seconda della sua presentazione e cioè:
a) nessun elenco di ingredienti, se il prodotto è ottenuto senza aggiunte;
b) ingredienti: grasso suino, aromi, sale;
c) ingredienti: ciccioli, aromi, sale.
Importante è che il messaggio sia formulato in termini chiari, senza trarre in
errore il consumatore sulla corretta composizione del prodotto.
7) Pancetta cubettata e prodotti simili.
Si tratta di prodotto suino in pezzi, che mantiene comunque la sua riconoscibilità. Il riferimento al taglio anatomico può
essere, pertanto, effettuato nell'elenco degli ingredienti con la voce
«pancetta suina".
J) Commercializzazione degli oli di oliva, quali ingredienti.
Col decreto legislativo n. 181/2003 è stato aggiunto all'art. 4 del decreto
legislativo n. 109/1992 il comma 5-bis, ai sensi del quale, nella denominazione
di vendita di un prodotto trasformato, un ingrediente può essere indicato col
nome della categoria anziché col nome specifico. Esempio: «Carciofini all'olio
di oliva" in luogo di «Carciofini all'olio di oliva composto da olio di
oliva raffinato ed olio di oliva vergine".
Lo stesso comma prescrive, però, che nell'elenco degli ingredienti il nome deve
essere completo.
La Commissione europea - D.G. agricoltura - D.C. mercato dei prodotti di
origine vegetale, tuttavia, su richiesta di alcune organizzazioni professionali
(ANCIT, Federolio) ha precisato, a norma dell'art. 6
del regolamento (CE) della Commissione n. 1019/2002, che «se in un prodotto
alimentare diverso da quelli indicati al paragrafo 1 dell'art. 6 è presente
come ingrediente la categoria «olio di oliva composto da oli di oliva raffinati
e oli di oliva vergini", nell'elenco degli ingredienti può figurare la
denominazione generica «olio di oliva". Tuttavia, se nel prodotto
alimentare è presente olio di sansa di oliva, nella denominazione di vendita e
nell'elenco degli ingredienti, deve figurare la denominazione «olio di sansa di
oliva, conformemente al disposto dell'art. 6, paragrafo 3, del regolamento in
oggetto".
Quanto sopra si porta a conoscenza degli operatori interessati e degli organi
di vigilanza e di controllo, per quanto riguarda la corretta applicazione delle
norme sopracitate.
L) Prodotti venduti sfusi.
L'art. 16 del decreto n. 109/1992, nel testo originario, prevedeva per i
prodotti preincartati l'uso del cartello con un
limitato numero di indicazioni obbligatorie. Nell'attività di vigilanza sono
stati seguiti comportamenti non sempre coerenti, contestando la mancata
indicazione di altre diciture che la norma non prescriveva espressamente, quale
la data di scadenza.
Nel concetto di prodotto preincartato rientrava,
secondo la definizione data all'art. 1, qualsiasi operazione di incarto e di preconfezionamento sul luogo di vendita, così come previsto
dalla direttiva n. 79/112 all'art. 12 (art. 14 della direttiva 2000/13) per le
quali gli Stati membri potevano prevedere regole meno severe.
Per superare le difficoltà sorte, soprattutto a seguito della recente sentenza
della Corte di cassazione, il comma 1 dell'art. 16 del decreto n. 109/1992 è
stato modificato attraverso l'indicazione dettagliata dei casi in cui si
applicano le disposizioni di tale articolo, tra cui figurano «i prodotti
preconfezionati destinati alla vendita immediata" nell'esercizio ove sono
stati preparati. Si tratta di preimballaggi a tutti
gli effetti, ma con la peculiarità della destinazione alla vendita immediata,
assimilati, quindi, ai prodotti sfusi.
Relativamente alla dicitura «vendita immediata", si precisa che essa
significa «vendita a libero servizio" senza la presenza di un addetto.
Si richiama l'attenzione, al riguardo, sull'obbligo dell'indicazione della data
di scadenza, che - giova ribadire - deve figurare, con la dicitura «da
consumarsi entro" seguita dalla data stessa, solamente sulle paste fresche
(categoria nella quale non sono comprese le paste stabilizzate). Gli altri
prodotti ne sono esenti.
M) Preparati per brodo e condimento.
La legge 6 ottobre 1950, n. 836 ed il suo regolamento di esecuzione approvato
con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1953, n. 567
sottoponevano ad autorizzazione ministeriale preventiva la produzione a scopo
di vendita dei preparati per brodo e condimento.
L'autorizzazione, oltre a disciplinare la composizione standardizzata degli
stessi, serviva soprattutto per ammettere l'impiego di altri ingredienti che
potevano rivelarsi utili per esigenze tecnologiche, per migliorare la qualità
di detti prodotti, per innovare i processi produttivi ed altro nonché per
garantire trasparenza sul mercato e soddisfare le esigenze dei consumatori.
La legislazione suddetta è stata oggetto di condanna dell'Italia da parte della
Corte di giustizia con sentenza del 19 giugno 1990, in ragione delle
restrizioni attinenti alla composizione e alla denominazione subordinando
inoltre la messa in commercio dei prodotti ad una preventiva autorizzazione.
L'autorizzazione è stata soppressa con l'art. 52 della legge 29 dicembre 1990,
n. 428, mentre in materia di composizione le restrizioni, già oggetto della
condanna di cui sopra, non trovano più alcuna giustificazione neppure dal punto
di vista igienico-sanitario. Infatti, ai sensi degli
articoli 28 e successivi del trattato UE i divieti di utilizzazione di
ingredienti alimentari nella preparazione dei prodotti in parola trovano
giustificazione solo se dettati da esigenze di ordine igienico sanitario.
Siffatta situazione è stata causata anche da una erronea interpretazione delle
disposizioni in materia, che hanno indicato solo gli ingredienti di base che
potevano essere utilizzati, mentre con il decreto di autorizzazione si
consentiva l'impiego anche di altri ingredienti alimentari idonei allo scopo.
La soppressione dell'autorizzazione ha fatto venir meno tale procedura, per
cui, alla luce delle recenti nuove regole comunitarie che hanno imposto al
fabbricante l'autocontrollo sulla propria produzione in collaborazione anche
con la competente autorità sanitaria, si può ritenere che quanto poteva essere
oggetto di autorizzazione è direttamente ammissibile nella fabbricazione dei
prodotti in parola, fatta eccezione degli additivi il cui impiego soggiace alle
disposizioni del decreto n. 209 del 27 febbraio 1996.
Quanto sopra trova piena rispondenza nell'indirizzo delineato dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 443/1997, secondo cui non possono essere
posti a carico delle aziende italiane oneri che non trovano riscontro negli
altri Stati membri e che non siano motivati da comprovate esigenze di tutela
della salute. N) Formaggi freschi a pasta filata.
Come è noto i formaggi freschi a pasta filata destinati al consumatore devono
essere posti in vendita preconfezionati, così come precisato dall'art. 23 del
decreto legislativo n. 109/1992. Il preconfezionamento
deve essere effettuato all'origine direttamente dal produttore.
Al venditore al dettaglio, salvo nel caso di vendita diretta nel caseificio,
non è concesso di vendere allo stato sfuso o previo ulteriore preconfezionamento ai fini della vendita immediata,
ricorrendo ad artifizi, quale l'aggiunta di un po' d'olio d'oliva e/o qualche
oliva.
E' ben nota e tradizionale l'aggiunta di ingredienti non lattieri ai formaggi,
ad esempio spezie, erbe, noci, olive e simili, e detta aggiunta non è tale da
modificare la natura merceologica del formaggio fresco a pasta filata.
Perché detto formaggio possa essere venduto non preconfezionato deve essere
ingrediente di una preparazione gastronomica, al di fuori del campo di
applicazione dell'art. 23 del decreto legislativo n. 109/1992; è necessario,
quindi, che il formaggio sia lavorato in maniera sostanziale ed il prodotto
finito sia posto in vendita con una diversa specifica denominazione di vendita,
che deve essere utilizzata anche dal dettagliante.
Anche in precedenti occasioni questo Ministero ha precisato espressamente che
la vendita allo stato sfuso di detti formaggi, salvo che nei caseifici, è
vietata e che sui relativi involucri devono figurare tutte le indicazioni
obbligatorie prescritte nel decreto legislativo n. 109/1992, salvo quella della
quantità netta per il formaggio pesato su richiesta e alla presenza
dell'acquirente.
Gli organi di vigilanza sono invitati ad applicare, per le violazioni rilevate,
le sanzioni amministrative previste dall'art. 18 del citato decreto n.
109/1992.
O) Peso/Peso netto.
L'art. 9, comma 3, del decreto legislativo n. 109/1992 prescrive che la quantità
dei prodotti alimentari preconfezionati, per i prodotti diversi da quelli
liquidi, debba essere espressa in unità di massa.
Viene segnalato che, in taluni Paesi dell'Unione europea, è richiesto di far
precedere l'indicazione della quantità dalla dicitura «Peso netto" per i
prodotti diversi da quelli liquidi e viene richiesto anche di conoscere se tale
indicazione è effettivamente obbligatoria.
Al riguardo va anzitutto precisato che, nella vigenza della normativa nazionale
anteriore a quella comunitaria, almeno in Italia si era creata l'usanza di
indicare la quantità netta per i prodotti liquidi, senza aggiunta della
dicitura «volume netto", e di indicare per gli altri prodotti la dicitura
«peso netto" e simili prima della indicazione della quantità. Nessuna
norma ha mai prescritto regole al riguardo neppure il decreto legislativo n.
109/1992.
Sulle modalità di indicazione la direttiva 2000/13/CE, ma anche le precedenti,
hanno solo precisato all'art. 8, paragrafo 2 a), che qualunque sia il tipo di
quantità riportato in etichetta (nominale, netta, media, meccanicamente
determinata e simili), tale quantità è la quantità netta ai sensi della
direttiva.
Il decreto legislativo n. 109/1992, come anche le norme metrologiche, nulla
hanno prescritto circa l'obbligo di indicazione della dicitura «peso
netto".
La dicitura «peso netto", pertanto, è da ritenersi non obbligatoria, ma la
sua indicazione non è vietata.
P) Etichettatura degli imballaggi e dei contenitori per liquidi.
L'art. 36 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 dispone, al comma 5,
che «tutti gli imballaggi devono essere opportunamente etichettati secondo le
modalità stabilite dalla Commissione dell'Unione europea, per facilitare la
raccolta, il riutilizzo, il recupero ed il riciclaggio degli imballaggi, nonché
per dare una corretta informazione ai consumatori sulle destinazioni finali
degli imballaggi. Fino alla definizione del sistema di identificazione europeo
si applica agli imballaggi per liquidi la normativa vigente in materia di
etichettatura".
L'ultimo periodo della suddetta disposizione è stato abrogato in forza
dell'art. 9 della legge n. 14/2003.
Nella sostanza ciò significa che non dovrà essere più applicato il decreto del
Ministro dell'ambiente di concerto con quello dell'industria, del commercio e
dell'artigianato 28 giugno 1989 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 166 del
18 luglio 1989) relativo all'apposizione su imballaggi e contenitori per
liquidi dell'invito a non disperderli nell'ambiente e dei contrassegni recanti
l'abbreviazione del materiale per essi utilizzato.
Le aziende interessate possono, tuttavia, continuare ad applicare le
disposizioni del citato decreto in via facoltativa e, per quanto riguarda i
contrassegni, questi possono essere riportati anche nelle forme esistenti negli
altri Stati membri.
Q) Prodotti con edulcoranti.
L'allegato VIII del decreto del Ministro della sanità n. 209/1996 elenca gli
edulcoranti che possono essere utilizzati nella fabbricazione di taluni
prodotti alimentari, indicando casi e dosi d'impiego. Per quanto riguarda i
casi d'impiego vengono indicate le categorie merceologiche e non i singoli
prodotti con le relative denominazioni di vendita. Vi rientrano i prodotti di
cioccolato, i succhi e nettari di frutta, le confetture, le gelatine di frutta,
le marmellate e la crema di marroni nonché altri prodotti.
Le denominazioni di vendita di questi prodotti rimangono inalterate con la
sostituzione totale o parziale degli zuccheri ma devono essere accompagnate
dalla dicitura «con edulcorante (i)" oppure « con zucchero (i) ed
edulcorante (i)" a seconda che si tratti di sostituzione totale o parziale
dello zucchero, inteso come il complesso dei mono-disaccaridi,
secondo quanto previsto dalle disposizioni di etichettatura di cui all'allegato
2, sezione II del decreto legislativo n. 109/1992 e successive modificazioni:
Esempio di prodotto di cioccolato con sostituzione totale di zucchero:
cioccolato fondente con edulcorante;
Esempio di prodotto di cioccolato con sostituzione parziale di zucchero:
cioccolato al latte con zucchero ed edulcorante (i).
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