Lo statuto dei lavoratori -scheda di diritto

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La legge 20 maggio 1970, n. 300 – meglio conosciuta come statuto dei lavoratori – è una delle normative principali della Repubblica Italiana in tema di diritto del lavoro.
Introdusse importanti e notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello dei rapporti fra i datori di lavoro e i lavoratori, con alcune disposizioni a tutela di questi ultimi e nel campo delle rappresentanze sindacali; a oggi di fatto costituisce, a seguito di minori integrazioni e modifiche, l’ossatura e la base di molte previsioni ordinamentali in materia di diritto del lavoro in Italia.
Per approfondimenti consigliamo il volume: Il lavoro subordinato -Rapporto contrattuale e tutela dei diritti

Indice

1. Le origini


1.1. Il percorso politico e la promulgazione
Le prime istanze per un provvedimento coordinato sulla materia risalgono a quando il leader della CGIL, Giuseppe Di Vittorio, si pronunciò apertamente nel 1952 a favore di una legge quadro che riformulasse l’intera materia, e lo fece parlandone proprio in termini di statuto.
Poco dopo iniziavano alla FIAT gli isolamenti degli operai più attivi sul fronte delle rivendicazioni, trasferiti in impianti come l’OSR.
Politicamente, al principio degli anni sessanta, i diversi tentativi di rafforzare gli esperimenti governativi di centrosinistra si tradussero in un notevole impegno riformista primariamente da parte del PSI, il principale interessato a quella formula politica, ma anche della CGIL, che restava lo strumento unitario delle diverse forze di sinistra, divise sul piano politico tra maggioranza e opposizione.
Avanzate in senso programmatico al tempo del primo governo Moro di “centrosinistra organico” (1963), nell’anno nel quale si emanarono norme per la tutela delle donne lavoratrici (ad esempio vietando il licenziamento per causa di matrimonio o consentendo l’accesso delle donne ai pubblici uffici e alle professioni), molte delle riforme sulla quale proposizione si andava condensando l’attenzione socialista furono di fatto “congelate dopo i fatti del luglio 1964 (Piano Solo) e riapparvero  con vigore qualche mese dopo.
Il percorso che sfocerà nell’emanazione dello Statuto, si lega principalmente a una paternità socialista a latere della quale si registrarono adesioni minori di altri partiti o di correnti interne ai partiti.
Con evidenti obiettivi di consolidamento del seguito elettorale, e di rafforzamento del proprio peso nelle coalizioni, ma non senza effettiva determinazione a raggiungere una norma definitiva, fu il partito di Nenni a premere perché la regolamentazione si frapponesse come argine al dilagare del disordine di questa materia, e ne fece cavallo di battaglia reputando che potesse essere la via capace di condurlo alla guida del Paese.
Dopo il D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle norme in materia di infortuni e malattie professionali), la legge 21 luglio 1965, n. 903 (che introduceva le pensioni di anzianità e istituiva la pensione sociale) e la legge 15 luglio 1966, n. 604 (che regolava la materia dei licenziamenti),  questa frutto di un’azione unitaria di parlamentari di Partito comunista, Partito socialista e Psiup, c’era ancora da registrare normativamente la posizione guadagnata dai sindacati e la nuova figura di lavoratore che emergeva dalle loro elaborazioni.
L’nteressamento del PSI sarebbe stato anche strategicamente utile per “scippare” una tematica fondamentale al Partito Comunista, l’altro grande partito della sinistra rispetto al quale il PSI era in quella fase diversamente collocato, primo firmatario il capogruppo alla Camera Pietro Ingrao, presentò una proposta di legge (n. 4227) “per la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e per l’esercizio dei diritti costituzionali all’interno dei luoghi di lavoro”.
 
1.2 Le lotte sindacali
Fu con l’autunno caldo che il tema si ripropose, questa volta in modo più incisivo che ai tempi di Di Vittorio o a quelli del governo di centro-sinistra del 1963 di Aldo Moro.
Le rappresentanze sindacali erano fortemente politicizzate e ognuna aveva un suo Partito politico.
Si distinsero, in particolare, la CGIL, la CISL e la UIL (tecnicamente diventate delle confederazioni), le quali sempre più spesso iniziarono a lavorare in sintonia tra loro sino ad essere collettivamente definite come triplice alleanza” o tout-court la Triplice.
 
1.3 La posizione delle aziende
La classe imprenditoriale dichiarava che alla forza lavoro non si poteva concedere di prendere parte alle decisioni su politiche e strategie aziendali, considerando qualsiasi proposta in materia di gestione del personale (comprese le fasi di assunzione e licenziamento) che non fosse unicamente determinata dagli organi direttivi aziendali, come un’ingerenza non giustificata da alcuna ragione sociale.
Le ventilate formule di “democratizzazione”, per le quali comitati di operai avrebbero potuto censurare le decisioni economiche e produttive, parvero agli industriali strumentali manovre per il rafforzamento di un cospicuo potere dei sindacati di condizionare da un lato le attività economico-imprenditoriali e dall’altro quelle del governo.
Lo slogan “partecipare alla elaborazione dei programmi produttivi” fu considerato e stigmatizzato come un indebito tentativo di sottomettere l’azione imprenditoriale a quella di alcune forze politiche, dalla quale l’attività delle tre confederazioni era scopertamente ispirata, e se ne segnalò la supposta perniciosità nella parte nella quale, poco dopo la stabilizzazione di un autentico mercato internazionale, avrebbe posto pesanti limitazioni alla capacità produttiva (a vantaggio di competitori stranieri) con effetti negativi sulle esportazioni
Furono anche fatte circolare non documentate “veline”, in una delle quali si sospettava che taluni sindacalisti stranieri avessero sollecitato gravi azioni di protesta, tradottesi in cali produttivi, per averne ricevuta remunerata istruzione da parte di industriali statunitensi.
 
1.4 I protagonisti politici
Giacomo Brodolini, sindacalista socialista che fu Ministro del lavoro e della previdenza sociale, legò il suo nome sia alla riforma del 1969 proprio della previdenza sociale (la cosiddetta “riforma delle pensioni”, passate dal sistema “a capitalizzazione” a quello “a ripartizione”), sia all’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali”, sia all’impulso più determinante per la codificazione della materia del lavoro.
Brodolini richiese l’istituzione di una commissione nazionale per la redazione di una bozza di statuto (da lui chiamato “Statuto dei diritti dei lavoratori”), alla quale presidenza chiamò Gino Giugni, anche lui socialista, un semplice docente universitario, anche se noto, e un comitato tecnico di notevole spessore.
Il maggiore promotore dello Statuto, Brodolini, non lo vide venire alla luce, perché morì poco dopo l’istituzione della Commissione tecnica presieduta da Giugni, che portò a compimento il progetto.
Resta Giugni la figura più nota e rappresentativa dell’azione, anzi è comunemente chiamato “padre” dello statuto
S’impegnò molto per l’approvazione della legge il successore di Brodolini, il democristiano Carlo Donat Cattin (ex-sindacalista della CISL torinese, e con un’attenzione particolare verso la FIAT), considerato il politico più “ruvido” della DC.
Secondo il Corriere della Sera, il discorso alla Camera del ministro Donat Cattin è stato permeato di asprezze polemiche.
Gli imprenditori e le forze politiche moderate, non escluse quelle che militano nella Dc, sono state i bersagli delle ripetute tirate del ministro.
I rilievi mossi allo Statuto risentono in gran parte di una mentalità privatistica dei rapporti sindacali ispirata da Dossetti, dice Donat Cattin, e riflettono un punto di vista “ a volte esasperato sino a visioni di tipo americanistico che vedevano il sindacato come libero agente operante nella società al di fuori di ogni regolazione giuridica”.
La punta avanzata della dura azione del padronato è stata rappresentata dalla Fiat, con “massicci licenziamenti di carattere politico e antisindacale”.
 
1.5 L’approvazione
Lo Statuto votato al Senato, fu approvato dalla Camera con 217 voti a favore (la maggioranza di centro sinistra DC, PSI e PSDI nel PSI-PSDI Unificati PRI, con l’aggiunta del PLI, al tempo all’opposizione), si orientarono per l’astensione PCI, PSIUP e MSI e si registrarono dieci voti contrari.
La legge non ricevette l’avallo dei comunisti:
Il Pci si è astenuto per sottolineare le serie lacune della legge e l’impegno a urgenti iniziative che rispecchino la realtà della fabbrica”, scrisse l’Unità del 15 maggio a pagina 2, “il testo definitivo contiene carenze gravi e lascia ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato”.
Alla Camera parlò Gian Carlo Pajetta, che sottolineò i punti più negativi del provvedimento secondo il PCI: l’esclusione dalle garanzie previste dalla legge nei confronti dei lavoratori delle aziende sino a 15 dipendenti, la mancanza di norme contro i licenziamenti collettivi di rappresaglia.
Lo statuto dei lavoratori è legge titolò l’Avanti del 22 maggio 1970 e affermò nell’occhiello:
Il provvedimento voluto dal compagno Giacomo Brodolini è stato definitivamente approvato dalla camera“.
Il giornale ricordò il ruolo di impulso svolto dal Ministro del lavoro socialista, prematuramente scomparso, considerato il vero “padre politico” dello Statuto, e attaccò l’atteggiamento dei comunisti, ambiguo e chiaramente elettoralistico.
L’articolo di fondo del quotidiano socialista proclamava:
La Costituzione entra in fabbrica, sottolineando il riconoscimento esplicito di una nuova realtà che, dopo le grandi lotte d’autunno, nel vivo delle lotte per le riforme sociali, vede la classe lavoratrice all’offensiva, impegnata nella costruzione di una società più democratica.  

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2. Il contenuto


Il testo della legge contiene norme relative a numerose previsioni specifiche, su alcune delle quali si sofferma in modo dettagliato.
Si divide in un titolo dedicato al rispetto della dignità del lavoratore, in due titoli dedicati alla libertà e all’attività sindacali, in un titolo sul collocamento e in uno sulle disposizioni transitorie.
 
2.1. I diritti dei lavoratori
La norma sancisce la libertà di opinione del lavoratore (art.1), che non può essere oggetto di trattamento differenziato in dipendenza da sue opinioni politiche o religiose e che, per un successivo verso, non può essere indagato per queste nemmeno in fase di selezione per l’assunzione.
Questi passi trovano una loro spiegazione di migliore evidenza segnalando che, nel secondo dopoguerra in Italia, si verificarono numerosi casi di licenziamento di operai che conducevano attività politica o che, anche indirettamente, si rivelavano militanti di forze politiche o sindacali non gradite alle aziende.
 
2.2. I divieti di controllo dell’attività lavorativa
L’attività lavorativa, l’apporto operativo del lavoratore, è poi svincolata da alcune forme di controllo che la norma giudica improprie e che portano lo Statuto a formulare specifici divieti quali, ad esempio:

  • divieto, per il datore di retribuzione, di assegnare le guardie giurate al controllo dell’attività  lavorativa dei lavoratori (secondo l’articolo questa figura può esercitare esclusivamente la vigilanza sul patrimonio aziendale)
  • divieto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, salvo accordi coi sindacati.

Anche le visite personali di controllo sul lavoratore, oppure le perquisizioni all’uscita del turno (principalmente effettuate per verificare che il lavoratore non si sia appropriato di beni prodotti o di altro materiale di proprietà dell’azienda), sono sottoposte a limitazioni di dettagliata rigorosità.
Al fine di limitare impropri eccessi del datore di retribuzione, eventualmente risultanti in indebite pressioni, sono vietati accertamenti diretti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, delegando agli enti pubblici competenti tali accertamenti.
Si prevedono appositi permessi per motivi di studio per coloro che frequentassero scuole primarie, secondarie, istituti di formazione professionale o anche università.
 
2.3. La reintegrazione nei casi di licenziamento
Sulla base di quanto disposto dall’articolo 35 dello statuto e dagli articoli dal 19 al 27, applicati ad aziende con “…sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti…”, si afferma la tutela dell’attività sindacale e il principio del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento, nei casi previsti dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Dopo la contrattualizzazione del pubblico impiego in Italia avvenuta negli anni 1990, l’applicabilità della norma fu estesa anche ai dipendenti pubblici italiani.
 
 
2.4. Referendum abrogativo del 1995
Con referendum abrogativo, proposto da Partito Radicale, CGIL e PRI per arginare la crescita in quegli anni dei Comitati di Base, è stato modificato l’articolo 19, in merito alle rappresentanze sindacali.
Con questa modifica le rappresentanze sindacali sono riservate ai sindacati firmatari di contratti nazionali e locali applicati nell’unità produttiva, e non più ai sindacati più rappresentativi in generale. Venne inoltre abrogato l’articolo 26 comma 2 della legge, che sanciva il prelievo forzoso dalla busta paga dei lavoratori di contributi a favore dei sindacati, secondo le modalità stabilite dai CCNL.
La Corte Costituzionale, il 4 luglio 2013, su ricorso della FIOM, ha dichiarato incostituzionale l’articolo19 dello Statutonella parte nella quale non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori”.
 
2.5 Referendum abrogativo del 2000
Nel 2000 si è svolto un referendum per abolire le garanzie previste dall’articolo 18 ai lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti.
Ha votato il 32,00% degli elettori (quindi non è stato raggiunto il quorum), e il si non ha avuto la maggioranza dei voti validi 33,40%.
 
2.6 Referendum abrogativo del 2003
Nel 2003 si è svolto un referendum per estendere le garanzie previste dall’articolo 18 ai lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti.
Ha votato il 25,50% degli elettori (non è stato raggiunto il quorum), e il sì ha avuto l’86,70% dei voti validi.

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Dott.ssa Concas Alessandra

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