Licenziamento illegittimo: art.18 statuto dei lavoratori

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L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori è un articolo della legge 20 maggio 1970, n. 300 della Repubblica Italiana (meglio conosciuta come statuto dei lavoratori).
L’articolo tutela i lavoratori dipendenti in caso di licenziamento illegittimo, ingiusto e discriminatorio.
Nella sua versione iniziale, abolita nel 2015, costituiva applicazione della tutela reale, disciplinando il reintegro con risarcimento e l’indennità in sostituzione della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo, vale a dire, effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o discriminatorio, di un lavoratore.
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Indice

1. Le origini


La disposizione è contenuta nello statuto dei lavoratori emanato nel 1970 e dall’inizio degli anni 2000 vari partiti italiani hanno tentato a più riprese di riformarlo.
Negli anni ‘80, gli stessi sindacati ritenevano che producesse “sperequazioni irrazionali di trattamento dei lavoratori donne”.
Una commissione del CNEL della quale faceva parte anche il leader della CGIL Luciano Lama propose la limitazione del reintegro a due elementi, vizio di forma o discriminazione (il diritto di reintegro in questo caso è anche adesso garantito dalla Costituzione e dal Codice Civile), sul modello del diritto del lavoro tedesco.
Successivamente, i sindacati si sono opposti con decisione a tentativi di riforma, avendo paura di un allentamento della tutela dei lavoratori.
La norma nei dieci anni dell’attuale secolo ha subito modificazioni nell’ottica della flexicurity.
Nel 2012 con la riforma del lavoro Fornero durante il governo Monti prima, e  nel 2015.
In particolare l’articolo, dapprima modificato nel 2012 dalla riforma del lavoro Fornero, è stato abrogato il 29 agosto del 2014, attraverso l’emanazione di diversi provvedimenti legislativi varati tra il 2014 e il 2016, restando in vigore per i rapporti instaurati prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto legislativo numero 23/2015) e destinatari della tutela prevista dalla norma.
Da quella data, per i contratti a tempo indeterminato si applica la disciplina del cosiddetto contratto di lavoro a tutele crescenti, introdotta dallo stesso Decreto Legislativo n. 23/2015


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2. L’ambito di applicazione


La norma era relativa a :

  • le unità produttive con più di 15 dipendenti
  • le unità produttive con meno di 15 dipendenti se l’azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti, suddivise in più unità
  • le aziende con più di 60 dipendenti.

L’insussistenza del fatto, e la possibilità di reintegrazione, non è relativa alla condotta materiale, ma al “fatto giuridico”, è il giudice che deve valutare se un determinato comportamento del lavoratore è giuridicamente rilevante e reca le conseguenze di legge.
Questo deriva:

  • dal proporzionalismo tra gravità del fatto e pena, fondante e imprescindibile nel diritto penale, così come criterio di determinazione di una sanzione amministrativa nel diritto civile. Oltre a valere come criterio per le sanzioni decise da un giudice o da un altro potere pubblico, è pacifico che valga per sanzioni inflitte tra privati (potere disciplinare del datore di lavoro), delle quali un giudice è chiamato a valutare la legittimità
  •  dalla previsione, compiuta dalla riforma del lavoro Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92), di applicare il licenziamento in extrema ratio, e la sanzione più conservativa e favorevole al dipendente tra quelle relative alle condotte tipizzate nei contratti collettivi e nei codici etici o disciplinari aziendali
  • anche in assenza di una previsione di legge esplicita in merito, resterebbe il valore legale e l’esigibilità giudiziale dei contratti o atti scritti inerenti al rapporto di lavoro (come sono i contratti collettivi e i regolamenti aziendali). 

3. I pareri contrari


La reintegrazione non dovrebbe essere legittima per cause in pendenza di giudizio, ammettendo l’articolo 612 del codice di procedura civile l’esecuzione forzata degli obblighi di fare esclusivamente in relazione a una sentenza di condanna per obblighi di fare o di non fare (o a un provvedimento del quale all’articolo 669 duodecies c.p.c.).
In secondo luogo, l’esecuzione forzata è ammessa solo per obblighi di fare fungibili (art. 2131 c.c.), dove la reintegrazione nel posto di lavoro richiederebbe inevitabilmente la partecipazione attiva del datore.
Il primo parere contrario è relativo al principio del diritto romano del nemo ad factum precise cogi potest, presente all’articolo 2931 del codice civile sull’esecuzione forzata degli obblighi di fare per il quale l’avente diritto può richiedere l’esecuzione forzata avvenga a spese dell’obbligato.
Questa norma vale esclusivamente per gli obblighi di fare fungibili, eseguibili da persona diversa dal debitore il quale unico onere consisterà nel pagamento delle spese dell’esecuzione forzata, mentre dovrebbe essere incontestabile l’incoercibilità diretta degli obblighi infungibili di fare, per infungibilità sia di diritto sia di fatto, maggiormente con il comportamento surrogatorio di un terzo.
Non si ritiene ammissibile né la scomposizione dell’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro in una serie di modalità attuative che siano obbligazioni fungibili, non richiedenti atti del datore di lavoro perché diventerebbero lesivi del suo potere direttivo, organizzativo e disciplinare nell’azienda, né la nomina giudiziale di un commissario ad acta, del quale all’articolo 612 del codice di procedura civile.
Secondo questa interpretazione, il dominio della polizia giudiziaria, dopo le sentenze definitive di condanna, e l’oggetto possibile di esecuzione forzata di fare esclusivamente o principalmente i provvedimenti pignoratizi a tutela dei diritti di credito, che di sicuro sono obbligazioni fungibili di fare, le quali non richiedono la collaborazione fattiva del debitore, mentre resterebbero senza tutela giurisdizionale una vasta categoria di diritti soggettivi più importanti di quelli di credito, e garantiti dalla Costituzione.
Se il codice civile limita l’esecuzione forzata agli obblighi di fare fungibili, non esclude affatto sanzioni di carattere penale a carico delle parti inadempienti davanti a una sentenza di condanna definitiva.
Diversamente, se in presenza di una sentenza definitiva di condanna, l’inadempiente non può subire né un’esecuzione forzata della stessa perché obbligo di fare infungibile richiedente la sua partecipazione attiva, né sanzioni di carattere penale e pecuniario ulteriori rispetto alle obbligazioni economiche alternative alla condanna perché l’inadempimento reca vilipendio alla Corte e danno di immagine ed esistenziale al creditore, vengono meno la basi dello stato di diritto, vale a dire la natura imperativa e coattiva del diritto e l’effettività della tutela giurisdizionale, nonché la credibilità dell’istituzione magistratura.
Si incoraggia una risoluzione bonaria, transattiva ed extragiudiziale delle controversie, che distoglie dal giudice naturale precostituito per legge, essendo l’accordo economico l’ultimo epilogo davanti al comportamento inadempiente della parte che soccombe in giudizio.
Limitando l’esecuzione forzata agli obblighi di fare fungibili con la contestuale inapplicabilità di sanzioni penali per i comportamenti inadempienti oppure ostativi verso l’esecuzione dell’ordine giudiziale, la norma cadrebbe in contraddizione con il principio per il quale i diritti soggettivi non possono essere oggetto di rinunce o transazioni, obbligando il codice civile il lavoratore licenziato ingiustamente, specialmente nei casi di licenziamento discriminatorio o di rappresaglia, all’accontentarsi di un risarcimento in denaro, in presenza di un datore inadempiente a un ordine di reintegrazione.

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A cura di Vincenzo Ferrante | Maggioli Editore 2023

Dott.ssa Concas Alessandra

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