Le origini della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Legge sull’Ordinamento Penitenziario)

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Alla metà degli anni Settanta il carcere era ancora disciplinato dal Regolamento penitenziario fascista, emanato dal Ministro di Giustizia Rocco nel 1931, che non prevedeva nessuna misura alternativa, mentre il codice penale prevedeva la liberazione condizionale, che si poteva considerare come un provvedimento straordinario dall’alto, simile alla grazia.

Nel periodo 1968-1975 esplosero diverse rivolte dei detenuti che chiedevano a gran voce una riforma penitenziaria.

Lo Stato rispose con la repressione, con i trasferimenti, gli internamenti nei manicomi criminali o addirittura con il ricorso all’esercito.

Oltre alle lotte che si verificavano dentro le carceri, non si deve dimenticare il fenomeno terroristico che caratterizzava il contesto sociale italiano in quegli anni, il quale ha contribuito a incrementare la popolazione carceraria, comportando una differenziazione della sua composizione, non c’ erano più esclusivamente delinquenti comuni, fanno la loro apparizione i prigionieri politici.

Il carcere diventava, sempre di più, terreno fertile per le lotte contro il sistema istituzionalizzato, che dava spazio all’attività di proselitismo nelle mura degli istituti di reclusione, dove le rivendicazioni legittime dei detenuti per il riconoscimento di maggiori diritti e di una maggiore umanizzazione della pena, si confondevano con la lotta politica contro l’intero sistema.

Nel frattempo, il Parlamento continuava a discutere sui progetti di riforma ma emergevano contrasti e divergenze sia tra le diverse forze politiche, sia in ognuna di esse.

Le questioni del carcere diventarono sempre di più un’emergenza, da un lato, aumentavano le rivolte e le rivendicazioni dei detenuti, dall’altro si faceva più concreta l’esigenza della lotta contro i terroristi che sembravano trovare nel carcere un utile terreno di propaganda.

Alla riforma si arrivò con la legge 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”.

Questa legge è il risultato finale di un lungo e faticoso processo di revisione del sistema penitenziario in risposta sia al contesto socio – culturale, sia ai valori emergenti dalla Carta Costituzionale e delle Convenzioni internazionali.

Le iniziative di riforma dell’Ordinamento Penitenziario hanno preso il via sin dal 1947.

I vari progetti di legge non arrivarono mai in Parlamento e nel 1965 il Consiglio dei Ministri presentò all’organo legislativo un disegno di legge di riforma, ma a causa della fine anticipata della legislatura il progetto fu esaminato esclusivamente al Senato.

In seguito fu costituito un comitato ristretto per l’aggiornamento del testo e ripresentato in Parlamento nel 1968, ma ancora una volta la fine anticipata della legislatura portò all’arresto del procedimento di riforma dell’Ordinamento Penitenziario.

Il disegno di legge, sottoposto all’esame del Parlamento costituiva un sicuro adeguamento delle norme che disciplinano l’esecuzione penitenziaria ai principi stabiliti al comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione e ai principi contenuti nelle regole minime dell’ONU per il trattamento dei detenuti, che ripudiano l’impostazione punitiva, segregazionista e autoritaria dell’ancora vigente regolamento del 1931.

La riforma del 1975 ha introdotto una serie di principi fondamentali di estrema importanza nel sistema penitenziario italiano.

Uno dei pilastri portanti della normativa è stata l’introduzione del trattamento penitenziario ispirato ai principi di umanità e dignità della persona, proprio in attuazione della funzione rieducativa enunciata all’articolo 27 comma 3 della Costituzione.

Questo trattamento secondo l’articolo 13 dell’Ordinamento Penitenziario, deve essere individualizzato, cioè rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto.

I parametri di comportamento del personale che lavora negli istituti di pena, si devono ispirare ai principi di dignità e umanità della persona e rispondere alla finalità del reinserimento sociale dei soggetti sottoposti a trattamento rieducativo.

Il trattamento individualizzato, che deve essere formulato attraverso l’osservazione scientifica della personalità, diventa lo strumento attraverso il quale ricondurre il reo nel contesto sociale dal quale si è distaccato.

Il principio dell’individuazione della pena, non doveva esclusivamente adeguare la pena al fatto commesso dal soggetto nell’ottica della proporzionalità della reazione all’azione svolta, ma soprattutto doveva consentire l’applicazione delle misure alternative, che possono essere considerate l’estrinsecazione più ampia del trattamento risocializzante.

I diritti e le facoltà riconosciuti dalla riforma dell’Ordinamento Penitenziario ai detenuti e internati, insieme alla possibilità per gli stessi di esercitarli anche se eventualmente si trovino in posizione di interdizione legale, rappresentano un’altra rilevante modifica introdotta dalla legge n. 354 del 1975, attraverso la quale viene data attuazione al disposto costituzionale degli articoli 24 e 3 della Costituzione.

Per la prima volta, anche chi è privato della libertà personale ha la concreta possibilità di tutelare i propri diritti.

Tra le altre modifiche introdotte dalla riforma in questione, si ricordano, l’apertura del carcere alla comunità esterna e la previsione di una serie di benefici a favore dei detenuti.

L’articolo 17 dell’Ordinamento Penitenziaro prevede la possibilità a favore di soggetti esterni all’istituto di pena di partecipare all’azione rieducativa e i benefici hanno la finalità di reinserire, gradualmente, il reo nel tessuto sociale.

Un altro pregio della riforma del 1975 è l’introduzione, nel sistema penitenziario, di un doppio grado di giurisdizione, affidando la fase esecutiva della pena a un apposito apparato giurisdizionale, affiancando all’allora giudice di sorveglianza (dopo la riforma del 1986, magistrato di sorveglianza), le sezioni di sorveglianza, competenti sulle questioni relative al trattamento penitenziario e ai diritti dei detenuti.

I principi contenuti nella legge di riforma, hanno creato nei detenuti legittime aspettative, subito deluse dalla carenza di personale e di strutture che hanno, di fatto, limitato la portata applicativa delle innovazioni.

La prospettiva rieducativa scelta dal’ Ordinamento Penitenziario, si adattava a un tipo di autore del reato disadattato e poco integrato nel tessuto sociale, e si è dimostrata inadeguata nei confronti di quei soggetti culturalmente preparati che hanno guidato e sostenuto il fenomeno terroristico che si è sviluppato durante gli anni della riforma dell’Ordinamento Penitenziario.

I protagonisti del terrorismo, ai quali non erano mancate opportunità di adeguato inserimento nel contesto sociale, avevano elaborato un sistema di valori alternativo e antagonistico a quello statuale, incompatibile con la metodologia rieducativa pensata dal legislatore.

In un simile contesto, anche se nell’ottica di una maggiore umanizzazione del sistema carcerario, il mantenimento di ordine e sicurezza erano esigenze non esclusivamente imprenscindibili ma anche irrinunciabili.

Questa situazione non è priva di riscontro nel contenuto normativo, laddove la legge 354/75, all’articolo 1, dopo aver espresso che i contenuti normativi nei quali si ravvisino i principali pilastri sui quali si basa la complessa costruzione giuridica dell’Ordinamento Penitenziario, al comma 3 afferma che negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina.

L’articolo 90 dell’Ordinamento Penitenziario ne è un’altra dimostrazione, prevedendo la possibilità attribuita al Ministro “di sospendere le ordinarie regole di trattamento, quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza”.

Sembra evidente la limitata portata normativa della riforma dell’Ordinamento Penitenziario, considerata la soccombenza delle esigenze di razionalizzazione e umanizzazione delle strutture carcerarie attuative del dettato costituzionale (per il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato), alle finalità sovrane del mantenimento dell’ordine e della sicurezza.

La legge 10 ottobre 1986, n.663, cosiddetta legge Gozzini ha costituito una vera e propria riforma dell’Ordinamento Penitenziario, dando maggiore attuazione ai principi che avevano ispirato la riforma del 1975.

Un argomento di notevole importanza è l’abolizione dell’articolo 90 e l’introduzione del regime di “sorveglianza particolare”, che consentirà una maggiore individualizzazione del trattamento, perché  si isolano dalla popolazione carceraria i detenuti che compromettono l’ordine e la sicurezza del carcere.

La novella del 1986 prende in considerazione anche le misure alternative alla detenzione ampliando il loro ambito operativo, sia per attuare in modo più efficace il trattamento rieducativo, sia per cercare di limitare la questione del sovraffollamento del carcere.

Un altro ambito preso in considerazione dalla novella del 1986 è la riorganizzazione in modo sistematico della magistratura di sorveglianza, trasformando le sezioni di sorveglianza in tribunali di sorveglianza e ampliando il numero e la tipologia delle funzioni dell’autorità giudiziaria.

In particolare, rilevano le funzioni di vigilanza e di controllo che sono attribuite all’organo monocratico.

Il magistrato di sorveglianza è competente a decidere sui provvedimenti di applicazione, esecuzione o revoca, anche anticipata della misura di sicurezza e sulle modifiche delle misure alternative alla detenzione.

Nella prospettiva di una completa giurisdizionalizzazione dell’esecuzione della pena, è ampliata la competenza del tribunale di sorveglianza che oltre a decidere sulle misure alternative, decide in sul rinvio facoltativo o obbligatorio dell’esecuzione e, in sede di appello, sui ricorsi in materia di riesame delle misure di sicurezza.

Dott.ssa Concas Alessandra

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