Le origini del sistema penitenziario

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Il carcere è un microcosmo che riproduce il sistema sociale più vasto, il fulcro istituzionale dove le contraddizioni del contesto nel quale viviamo sono massime e spesso esasperate.

Il penitenziario è l’edificio che ha la funzione di contenere sia i condannati a una pena detentiva, sia gli accusati sottoposti a custodia cautelare, anche se non è sempre stato così.

Nel periodo precedente all’Unità d’Italia il penitenziario era l’edificio nel quale venivano nascoste le persone in attesa di giudizio, i condannati e coloro che la società considerava, per i più svariati motivi, “diversi”, “scomodi” e “pericolosi”.

Queste persone venivano estirpate dalla collettività allo scopo di eliminare il pericolo, in modo che non si potesse propagare agli altri membri della comunità.

Chi fossero queste persone e quale fosse la causa della loro reclusione era un apsetto del quale non ci si preoccupava, l’importante era contenerle, evitare e prevenire i danni che avrebbero potuto causare.

L’avvento dello Stato di diritto apre la strada al concetto di internamento istituzionalizzato, perseguendo la certezza del diritto e della pena.

Iniziava così il declino della dilagante confusione e dell’arbitrio con il quale sino a quel periodo erano state disposte le reclusioni negli istituti penitenziari, nasce il concetto di “pena istituzionalizzata” come conseguenza della violazione di tassative fattispecie di reato previste, unica motivazione legittima del provvedimento di detenzione.

La sanzione penale diventa una sofferenza legale che comporta nei confronti della persona ritenita colpevole, la sottrazione della libertà, per un periodo proporzionato alla gravità del delitto commesso.

In contemporanea alla nascita della “pena detentiva” sorge la questione di come gestire il tempo che il recluso dovrà trascorrere in istituto, di come il detenuto dovrà essere “trattato”.

Nel 1891 fu approvato il “Regolamento degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi”, primo fondamentale documento delle istituzioni penitenziarie dell’Italia post-unitaria, ed era il frutto del positivismo criminologico che aveva individuato nel trattamento differenziato, scientifico ed individualizzato, il cardine della politica penitenziaria e che poneva in primo piano la realtà umana e sociale del condannato.

Questo documento, seguito al codice Zanardelli entrato in vigore l’anno prima ed incentrato sui principi dello Stato di diritto, aveva compiuto una prima distinzione tra “stabilimenti carcerari” e “stabilimenti riformatori”, attuando un’embrionale differenziazione del trattamento dei reclusi, in virtù della loro età e della rispettiva condizione giuridica.

Era dominante l’idea che il periodo di esecuzione della pena doveva diventare un momento teso alla rieducazione del condannato.

La scuola positiva sosteneva che la pena si dovesse ispirare al principio correzionalistico secondo il quale è definito “reo”, quindi imputabile, esclusivamente colui che può essere rieducato.

La condotta dei delinquenti imputabili era considerata il prodotto dell’ignoranza e dell’ozio costante nei quali, questi individui, erano stati costretti dalle diverse condizioni di vita personali e familiari. Nei riguardi di questo tipo di soggetti la sanzione penale poteva avere un senso, i fardelli che avevano fermato la capacità di questi soggetti di interiorizzare i valori di convivenza sociale potevano essere rimossi educando il condannato durante il periodo di reclusione.

Erano considerati non imputabili coloro che, a causa di tare personali proprie e non indotte da fattori ambientali, erano stati definiti “incorreggibili”, e nei loro confronti qualunque percorso di rieducazione, sarebbe stato inutile.

Questi individui dovevano essere neutralizzati e rinchiusi al fine di proteggere la collettività.

Nel regolamento del 1891 si è cominciato a parlare, in modo sistematico, del trattamento del reo e del concetto di istruzione negli istituti penitenziari.

A proposito dell’ istruzione in sé, nello Statuto Albertino non esistevano disposizioni in relazione alla scuola e non era previsto nessun diritto all’istruzione.

Questa materia, in considerazione della natura amministrativa riconosciutale, era diretta ad essere disciplinata dalla legislazione ordinaria.

L’art. 123 del regolamento del 1891 prevedeva l’obbligatorietà della scuola nelle istituzioni penitenziarie, arrivando a sanzionare l’assenza dei detenuti dai corsi di scuola interni al carcere con pane, acqua e pancaccio, una delle massime punizioni che erano all’epoca previste.

Anche la disattenzione durante le lezioni veniva punita, il detenuto disattento subiva un richiamo disciplinare o la censura.

Il regolamento del 1891 indicava che i detenuti dovevano rimanere segregati in cella esclusivamente durante le ore notturne mentre quelle diurne dovevano essere trascorse in comune frequentando i vari corsi di istruzione, e per loro era prevista la possibilità di acquistare libri, anche se questo veniva concepito come ricompensa speciale riservata a coloro che avevano osservato un comportamento carcerario irreprensibile.

Pochi e non degni di nota furono i cambiamenti avvenuti in materia penitenziaria dal regolamento di esecuzione del 1891 al regime fascista, mentre merita di essere ricordato, che in ambito scolastico, la legislazione dell’epoca giolittiana consacrò l’accentramento e la statizzazione della scuola.

In questi provvedimenti legislativi furono affrontati:

il trattamento economico normativo dei maestri, l’estensione dell’obbligo scolastico al dodicesimo anno di età nonché la disciplina dei corsi di istruzione elementare e media inferiore (legge n. 407/1904), l’accentramento dell’intervento finanziario, specialmente nel capo dell’edilizia scolastica (legge n. 383/1906), l’avocazione della scuola elementare, fino ad allora comunale, allo Stato (legge n. 487/1911).

Queste leggi consentirono di aprire scuole anche nei comuni più poveri sino a quel momento sprovvisti di silimi strutture, e durante il periodo del fascismo, con la legge del 1 luglio 1940, fu istituita la scuola media unica di tre anni.

In campo penitenziario fu innescato un processo involutivo del sistema carcerario soprattutto sotto il profilo del trattamento.

Il fascismo si presentava come la prima esperienza italiana di regime di massa nella quale uno Stato autocratico si sforzava, in contrasto con i suoi caratteri, di ottenere il più largo appoggio dai cittadini o almeno il loro totale coinvolgimento nella politica del regime.

La pena esplicava la sua funzione non esclusivamente nei riguardi del singolo delinquente ma verso l’intera collettività, la quale doveva percepire la sanzione penale come il mezzo per difendere e riaffermare i valori travolti, venendo così coinvolta nella politica del regime.

Questa visione retributivo-repressiva della pena indusse ad adottare misure coercitive sempre più rigide anche nell’intento di punire coloro che si dimostravano contrari al regime.

Il fascismo disse la sua anche a livello organizzativo istituzionale sottraendo la competenza dell’amministrazione delle carceri al Ministero dell’Interno ed attribuendola al Ministero di Giustizia.

In linea con le ideologie del tempo le circolari del 1920/21/22 (che possiamo riconoscere come i documenti più importanti del periodo fascista in rifrimento al sistema carcerario), trasfuse successivamente nel R.D. 393 del 1922, introducendo innovazioni, come la possibilità di avere colloqui epistolari anche con i non familiari, di avere contatti con gli altri detenuti all’interno del carcere (come per esempio mangiare insieme), non contemplavano l’istruzione come modalità del trattamento del reo, continuando a percepirla come un privilegio degli uomini liberi: il delinquente non meritava di essere istruito, era inutile sprecare tempo ed energia per farlo e questo individuo non ne avrebbe tratto nessun giovamento.

La questione penitenziaria continuava ad essere intrappolata nella storica ambivalenza insita nel rapporto coercizione-educazione, da una parte l’esigenza di soddisfare la richiesta di ordine, sicurezza e disciplina con l’aiuto delle strutture penitenziarie e dall’altra quella di perseguire la risocializzazione e il reinserimento sociale dei condannati.

Nel 1930 fu approvato, con R.D. n. 1398, il codice penale Rocco e nel 1931, con il R.D. n. 787, il  “Regolamento per gli Istituti di prevenzione e pena”.

 Il regolamento del 1931 era composto da 332 articoli che indicavano le “norme di vita carceraria” con le quali si recepiva l’attenzione positivista e si attribuiva carattere emendativo alla pena mantenendone, nel contempo, il carattere afflittivo ed intimidatorio.

Le indicazioni del regolamento del 1931 in riferimento all’istruzione in carcere erano ispirate dalla stessa logica del testo del regolamento del 1891.

L’articolo 1 del regolamento del 1931 stabiliva:

“i detenuti sono obbligati a frequentare le scuole istituite negli stabilimenti”.

Ed ancora:

“negli stabilimenti sono permesse solamente conferenze e proiezioni cinematografiche istruttive ed educative, con il divieto assoluto di persone estranee, oltre a quelle incaricate delle conferenze e delle proiezioni” e imponeva ai detenuti l’obbligo del lavoro e della partecipazione alle funzioni religiose.

L’istruzione, insieme al lavoro e alla religione erano considerati gli unici mezzi attraverso i quali rieducare e risanare i condannati.

Questi mezzi, meglio definiti come “elementi del trattamento”, erano imposti coattivamente e in relazione alla pressione totalitaria esercitata dal regime politico di quel periodo, dovevano perseguire rispettivamente le seguenti finalità:

attraverso l’istruzione e la religione, si voleva “indottrinare” l’individuo deviato al rispetto dei valori cosiddetti “buoni”, e con l’imposizione dell’obbligo al lavoro, si sfruttava la manodopera dello stesso a favore degli onesti.

Il regolamento di esecuzione del 1931 era orientato verso un’istruzione paternalistica, imposta coattivamente, che inibiva ancora di più la crescita individuale della persona reclusa imbrigliandola nelle regole ideologiche che gli venivano imposte.

Era proibito “ogni gioco, festa, o altra forma di divertimento”, lo scopo era quello di “assicurare al sistema la possibilità di subordinare la coscienza dei reclusi attraverso un uso dell’istruzione perfettamente funzionale alla preservazione-salvazione dell’istituzione stessa”. 

Alla materia dell’istruzione in carcere erano dedicati cinque articoli del capitolo IX del testo regolamentare, che prevedevano l’attivazione di corsi di istruzione elementare per detenuti e analfabeti in ciascun istituto penitenziario.

L’istruzione dei detenuti minorenni che non avevano conseguito la licenza elementare doveva avvenire nelle scuole di avviamento, mentre gli adulti, con lo stesso grado di istruzione ma in età inferiore ai quarant’anni, erano obbligati a frequentare ogni giorno i corsi scolastici per almeno due ore.

I detenuti più anziani, anch’essi privi di licenza elementare, erano ammessi a questi corsi scolastici previa loro richiesta, salvo che il direttore dell’istituto penitenziario, nello specifico, non avesse ritenuto idoneo il soggetto, nonostante l’età, imponendogli l’obbligo di frequentare i corsi d’istruzione elementare.

Le lezioni erano tenute da insegnanti ma anche dal direttore dell’istituto, dal cappellano, dal dirigente tecnico e da altri funzionari dello stabilimento carcerario nonché da privati cittadini autorizzati dal Ministero.

Molte di queste figure spesso non erano “qualificate” allo svolgimento dell’attività didattica esponendo il detenuto a una istruzione non scevra da indottrinamenti di parte.

I detenuti provvisti della licenza elementare, potevano migliorare il loro livello culturale.

Questi soggetti, divisi in gruppi omogenei per moralità e cultura, si dovevano riunire a turno, durante i giorni festivi e fuori dagli orari di lavoro, in determinati locali di studio.

Intorno all’attività didattica continuava ad aleggiare, come era accaduto nel periodo del regolamento del 1891, un clima di ricatto psicologico, dimostrare di essere “attaccati alla scuola” continuava ad essere un elemento per conquistare la qualifica di “buono”,  e l’essere negligenti nell’attività scolastica era ancora valutato come una mancanza disciplinare, che continuava a prevedere come punizione la reclusione in cella a pane e acqua.

Una disposizione che di per se testimonia, una determinata modernità ideologica del testo regolamentare del 1931 è quella che prevedeva l’allestimento di una biblioteca in carcere.

I libri erano a disposizione dei detenuti in base a criteri decisi dal direttore dell’istituto, il quale decideva quali testi potevano essere letti e in quali locali, se in cella o in biblioteca.

Queste le vicende legate alle origini del sistema penitenziario, in riferimento a epoche recenti si può ricordare l’importanza della riforma dell’Ordinamento Penotenziario, la legge 26 luglio 1975, n. 354.

Dott.ssa Concas Alessandra

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