La rieducazione del reo e la relativa disciplina giuridica

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Le attività e procedure di applicazione di una sanzione penale nei confronti di una persona condannata comportano l’adozione di particolari metodi e di un trattamento adeguato.

Il concetto presuppone che l’applicazione della pena si protragga per un tempo prolungato, come di solito avviene se vengono irrogate pene detentive.

Con specifico riferimento all’ordinamento vigente, informato al principio costituzionale della finalità rieducativa delle pene (ex art.27 Cost.), la definizione di trattamento deve essere integrata nel senso che il trattamento penitenziario costituisce quell’attività dello Stato rivolta ad attuare concretamente la sanzione penale irrogata dall’autorità giudiziaria nei confronti del condannato, allo scopo di rieducarlo e consentirgli la piena reintegrazione nella società.

Secondo il principio stabilito dalla celebre sentenza della Corte Costituzionale n.204/1974, relativo alla necessaria commisurazione della durata della pena all’effettiva rieducazione del reo, il trattamento penitenziario deve consentire al condannato il graduale riacquisto di spazi di libertà e autonomia in rapporto alla riscontrata, progressiva maggiore adesione al trattamento e ai risultati conseguiti nel percorso di risocializzazione.

L’Ordinamento Penitenziario vigente prevede espressamente che, nei confronti di imputati, condannati e internati deve essere attuato un trattamento penitenziario che, con riguardo alle due categorie di reclusi, deve essere, in ottemperanza al precetto costituzionale, “rieducativo”.

In particolare, l’art.1 della legge 26 luglio1975 n.354, enuncia i principi fondamentali che devono informare il trattamento penitenziario.

Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona: la norma recepisce e parafrasa il principio costituzionale del quale all’articolo 27 della Costituzione.

Le regole del trattamento non si possono porre in contrasto con il valore della persona come tale e  della persona del condannato, non possono essere ammesse metodologie punitive inumane, degradanti o umilianti per i soggetti reclusi.

L’ordinamento penitenziario, all’articolo 4, della legge 26 luglio 1975 n.354, prevede espressamente un fascio di diritti soggettivi a favore dei detenuti, che non possono essere compressi per effetto della condizione detentiva.

Più precisamente, questi diritti non possono essere legittimamente limitati dall’amministrazione penitenziaria, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, ricorrendo fattispecie e secondo procedure che devono prevedere la possibilità del controllo giurisdizionale sul lavoro dell’amministrazione penitenziaria e la possibilità di reclamo contro le decisioni dell’autorità giudiziaria.

A questo fine, al magistrato di sorveglianza, come figura di “giudice vicino” all’universo penitenziario, la legge attribuisce la specifica e particolare funzione di garante dei diritti dei detenuti (ex artt.35 e 69, L.354/1975 e artt.5 e 75 D.P.R. n.230/2000).

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni di nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose, anche per questo principio sono evidenti la diretta derivazione costituzionale (ex art.3 Cost.) e la finalità di impedire eventuali arbitrii dell’amministrazione penitenziaria nella messa a disposizione in favore dei reclusi degli strumenti e delle offerte di trattamento.

Il trattamento non può prevedere restrizioni della libertà non giustificate dall’esigenza di mantenere l’ordine e la disciplina negli istituti o di tutelare i fini giudiziari connessi alla custodia degli imputati, questo principio pone un invalicabile limite alla possibilità per l’amministrazione penitenziaria e per il Ministro della giustizia di sospendere, nei confronti di determinati detenuti o categorie di detenuti, la normale vigenza delle regole penitenziarie.

Costituiscono, perciò, ipotesi eccezionali le previsioni del regime di sorveglianza particolare (ex art.14 bis L.354/1975 e art.33 D.P.R. n.230/ 2000), del regime differenziato di rigore, contemplato dall’articolo 41 bis L.354/1975, delle limitazioni all’accesso ai benefici penitenziari previste dall’articolo 4 bis L 354/1975, dell’esclusione dalla partecipazione al trattamento a titolo di sanzione disciplinare (ex art.39, L.354/1975 e artt. 73, 82 D.P.R. n. 230/2000), dei controlli e censure alla corrispondenza dei detenuti (ex artt.18 e 18 ter, L.354/1975 e art. 38 D.P.R. n. 230/2000).

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva, principio che introduce un’importante distinzione teorica che intercorre tra il trattamento penitenziario come complesso di regole e principi che informa la vita negli istituti penitenziari, applicabile come ai reclusi indistintamente, e il trattamento penitenziario rieducativo, applicato esclusivamente ai condannati ed agli internati.

La distinzione riflette il dettato costituzionale in relazione al principio di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva (ex art.27 comma 2 Cost.), e sarebbe illogico predisporre una offerta di strumenti trattamentali rieducativi a chi, imputato, non può essere ritenuto, sino a condanna definitiva, colpevole di nessun reato e di conseguenza, non può essere considerato come soggetto da “rieducare”.

La dottrina definisce il rapporto tra le due tipologie di trattamento come quello che interorre tra genere e specie.

In realtà, l’applicazione pratica ha, di fatto, appiattito la posizione degli imputati su quella dei condannati definitivi e degli internati, ai quali indistintamente, vengono applicati gli strumenti di trattamento, con la differenza che esclusivamente ai condannati è riservata l’osservazione scientifica della personalità finalizzata al conseguimento dei benefici penitenziari e alla concessione delle misure alternative alla detenzione.

Il trattamento dei condannati e degli internati deve essere rieducativo e tendere, anche attraverso contatti con l’ambiente esterno al carcere, al reinserimento sociale, deve essere individualizzato e si deve conformare alle specifiche condizioni di ciascun soggetto recluso, deve rispondere ai particolari bisogni di ciascun soggetto, che devono essere individuati attraverso l’osservazione della personalità del detenuto, condotta da un’equipe di esperti e rivolta a evidenziare le carenze sociali, familiari e fisiopsichiche che sono state alla base della devianza del soggetto e del suo disadattamento sociale (ex art.13 L. 354/1975).

La giurisprudenza, a questo proposito si esprime così:

“uno degli elementi che caratterizzano la normativa dell’Ordinamento Penitenziario riguarda il trattamento penitenziario, che oltre ad essere ispirato al principio della umanizzazione della pena deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto e favorire, attraverso un processo evolutivo, il suo reinserimento nella collettività sociale.

A questo fine è stabilito il principio della individualizzazione del trattamento che, preceduto dall’osservazione scientifica della personalità del condannato per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale, e attuato sulla base di un programma rieducativo che potrà poi essere integrato o modificato secondo le diverse esigenze che possono prospettarsi nel corso dell’esecuzione.

Nello schema di questo trattamento si inquadrano le misure alternative alla detenzione che  possono essere disposte sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità, condotta per almeno tre mesi (affidamento in prova al servizio sociale) o in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento (regime di semilibertà) oppure quando il soggetto abbia dato prova di partecipazione al lavoro di rieducazione svolta nei suoi confronti (liberazione anticipata)”.

Sulla base dei risultati dell’osservazione, viene redatto, dagli addetti penitenziari, un programma di trattamento nel quale si danno concrete indicazioni sul percorso di trattamento del condannato, suggerendo all’autorità competente (magistrato e tribunale di sorveglianza) l’eventuale possibilità di concessione al detenuto dei benefici penitenziari giudicati più idonei a favorirne la risocializzazione (ex art.15 L. 354/1975).

Dott.ssa Concas Alessandra

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