La responsabilità civile dei giudici

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Non si tratta di un cambiamento, la responsabilità civile del giudice in caso di dolo o colpa grave risale alla legge Vassalli e si mantiene con l’attuale riforma.

Il risarcimento resta sempre a carico dello Stato, nel senso che il cittadino non può fare causa direttamente al giudice, ma allo Stato, mentre una innovazione è rappresentata dal fatto che una rivalsa nei confronti del giudice scatti quando a causa di una negligenza non scusabile dello stesso ci sia stato un travisamento del fatto o delle prove.

Con questa  legge si è cercato di contemperare i due principi della responsabilità civile dei giudici con l’esigenza di salvaguardarne l’indipendenza e l’autonomia, prevedendo una responsabilità diretta dello Stato e indiretta del magistrato (previa rivalsa dello Stato stesso) e una cosiddetta “clausola di salvaguardia” ha corrisposto in parte agli obiettivi originari fissati con il referendum, realizzando di fatto una responsabilità più virtuale che reale.

L’articolo 1 comma 1 della legge Vassalli delinea il campo di applicazione della responsabilità civile dei magistrati, sancendo che le disposizioni legislative “si applicano agli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria”.

Il comma successivo estende il campo di applicazione anche ai magistrati che esercitano le loro funzioni in organi collegiali.
In relazione all’azione in giudizio, non può agire direttamente nei confronti del magistrato chi ha subito il danno ingiusto, lo dovrà fare contro lo Stato, nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri (ex art. 4).

La competenza spetta al tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’Appello, che si dovrà determinare a norma dell’articolo 11 del codice di procedura penale e dell’art. 1 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.
L’azione può essere esercitata esclusivamente quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti contro i provvedimenti cautelari e sommari, e in ogni caso quando non è più possibile modificare o revocare il procedimento, se questi rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno.

L’azione va proposta entro due anni, a pena di decadenza, a partire dal momento nel quale è possibile esperirla, cioè dopo tre anni dalla data nella quale il fatto è avvenuto se il grado del procedimento nel quale si è verificato il fatto non sia ancora concluso.

Il tribunale, sentite le parti, dichiara l’ammissibilità della domanda e dispone per la prosecuzione del processo (ex art. 5).
Se non vengono rispettati i termini o i presupposti dei quali agli articoli 2, 3 e 4 oppure quando la domanda è manifestamente infondata, il tribunale ne può dichiarare l’inammissibilità, con decreto motivato, la quale è impugnabile, nei modi e nelle forme stabiliti dall’articolo 739 del codice di procedura civile davanti alla Corte d’Appello.

Sempre la legge Vassalli, all’articolo 2 prevede che chiunque abbia subito un danno ingiusto, a causa di un “comportamento”, un “atto” o un “provvedimento giudiziario” posto in essere da qualunque magistrato nell’esercizio delle sue funzioni “può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale” (ex art. 2, comma 1).

La parte può agire contro il magistrato anche direttamente se il danno sia derivato da un fatto che costituisce reato (ex art. 13).

Il danno deve rappresentare l’effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni oppure conseguente “a diniego di giustizia”.

A norma dell’articolo 2 comma 3 costituiscono colpa grave, la grave violazione di legge determinata da negligenza non scusabile, l’affermazione e la negazione, determinate da negligenza non scusabile, di un fatto la quale esistenza è in modo incontrastabile esclusa dagli atti del procedimento, l’emissione di un provvedimento relativo alla libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione.

Secondo la giurisprudenza, la colpa grave della quale all’articolo 2 comma 3 della legge Vassalli, si ravvisa quando:

“il comportamento del magistrato si concretizza in una violazione grossolana e macroscopica della norma opppure in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero”.

Secondo una sentenza in materia della Suprema Corte di Cassazione, la negligenza non scusabile postula un “quid pluris” rispetto alla colpa grave, “richiedendo che essa si presenti come non spiegabile, senza agganci con le particolarità della vicenda atti a rendere comprensibile (anche se non giustificato) l’errore del giudice”.

L’articolo 3 della legge afferma che può dare luogo alla responsabilità civile del magistrato anche il diniego di giustizia, che si configura nei casi di ritardi, rifiuti o omissioni nel compimento di uno o più atti di ufficio, quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e dalla data di deposito in cancelleria siano decorsi  i trenta giorni previsti inutilmente e senza giustificati motivi.

Se il ritardo o l’omissione, immotivati e ingiustificati, siano direttamente  relativi alla libertà personale dell’imputato, la scadenza è diminuita in modo improrogabile a cinque giorni, a partire dal deposito dell’istanza, o coincide con lo stesso giorno nel quale si è verificata una situazione, o è decorso un termine, che renda incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale.

La legge Vassalli prevede  una “clausola di salvaguardia” sancendo all’articolo 2 comma 2, che “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

In simili ipotesi la tutela delle parti è esclusivamente di natura endoprocessuale, e si può attuare attraverso l’impugnazione del provvedimento giurisdizionale che si assume essere viziato.

In seguito all’accertamento della responsabilità del magistrato, entro un anno dal risarcimento, lo Stato esercita nei suoi confronti  l’azione di rivalsa (ex art. 7), e la stessa viene promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri davanti al Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’Appello, da determinarsi a norma dell’articolo 11 del codice di procedura penale e dell’articolo 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale (ex art. 8).

In relazione alla misura della rivalsa, la legge dispone che la stessa “non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo nel quale l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità”.

Il limite è escluso se il fatto è stato commesso con dolo.

Si applicano disposizioni analoghe anche agli estranei che partecipano all’esercizio delle funzioni giudiziarie, nei confronti dei quali la misura della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale, oppure, se l’estraneo percepisce uno stipendio o un reddito di lavoro autonomo inferiore, è calcolata in rapporto allo stesso al tempo della proposizione dell’azione di risarcimento.

I risultati prodotti dalla legge Vassalli da più parti sono stati giudicati non rispondenti agli obiettivi originari posti con l’esito referendario.

Sono stati presentati nel tempo molti progetti di legge rivolti a introdurre modifiche sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello procedurale, al fine di contemperare l’esigenza di una reale applicabilità della responsabilità civile dei magistrati da un lato, e dall’altro di non comprometterne le necessarie autonomia ed indipendenza.

I vari disegni di legge, almeno in caso di dolo, si muovono nell’ottica di una introduzione di forme dirette di responsabilità del magistrato, di una semplificazione del procedimento per la responsabilità in caso di colpa grave, di una garanzia di terzietà dell’organo giudicante con la previsione di una composizione mista, anche di cittadini, della revoca del limite della posta risarcitoria.

Nel difficile dibattito sull’argomento si è inserita anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che si è pronunciata in più occasioni in relazione alla mancata rispondenza della legge Vassalli alle norme del diritto comunitario, soprattutto nei confronti della responsabilità indiretta del magistrato e all’esclusione della stessa nei casi di interpretazione di norme di diritto o della valutazione di fatti e prove (c.d. clausola di salvaguardia), avviando, da ultimo, una procedura di infrazione, conclusa con una sentenza di condanna per l’Italia per violazione del diritto dell’Unione Europea.

In questo contesto sembrerebbe inevitabile una presa di posizione legislativa.

In Parlamento, oltre ai numerosi progetti di legge, è in corso l’iter di discussione sul ddl “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea”, al quale è stato apportato un emendamento, approvato nei giorni scorsi dalla Camera e adesso vaglio del Senato, che introduce una responsabilità diretta del magistrato per ogni comportamento, atto o provvedimento posto in essere con dolo, colpa grave o per diniego di giustizia.

Dott.ssa Concas Alessandra

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