La pena dell’ergastolo e la Costituzione della Repubblica

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La pena dell’ergastolo, per la sua estrema importanza, ha determinato sin dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, un intenso dibattito, sia in sede parlamentare sia dottrinale, con riflessi giurisprudenziali sull’opportunità politica e sull’ammissibilità giuridica della stessa nell’ambito dell’ordinamento costituzionale vigente.

 

In relazione all’ammissibilità giuridica, l’attenzione si è incentrata sulla questione della compatibilità della pena dell’ergastolo, “perpetua per definizione, con i principi sanciti dal comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale

 “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“.

 

Prima di ogni indagine sul valore di questa norma, si deve rilevare che essa ha avuto un’importanza fondamentale per il suo carattere profondamente innovatore, perché con essa per la prima volta nel nostro ordinamento positivo si è assegnato in forma espressa alla pena un compito rieducativo nei confronti della generalità dei condannati, innovando il Codice penale Rocco del 1930, il quale prevedeva il riadattamento esclusivamente per coloro che avessero riportato una pena diminuita e per i minori.

 

La questione della compatibilità dell’ergastolo con la Costituzione fu sollevato in sede di Assemblea costituente, nella discussione che si svolse per l’approvazione di quello che divenne poi l’articolo 27 della Costituzione.

Questa discussione ebbe un obiettivo soprattutto etico e sociale rivolto a rimuovere dal regime carcerario del nostro paese quello che in esso potesse essere ancora contrario al senso umano e lesivo della dignità individuale.

Anche se si avvertiva la necessità di risolvere la questione, si formarono correnti di pensiero antagoniste.

Nel periodo nel quale si svolsero i lavori della Costituente, il dibattito sulle funzioni della pena fondamentalmente ruotava intorno ai contrapposti postulati della Scuola classica e della Scuola positiva, essendo questo il retroterra culturale, molti Costituenti furono preoccupati che un’esplicita presa di posizione (costituzionale) sullo scopo della pena si sarebbe potuto alla fine tradurre nel riconoscimento del primato di una delle due scuole tradizionalmente in conflitto.

 

Nel discutere il comma 3 dell’articolo 21 del progetto formulato dalla Prima Sottocommissione, nel quale si diceva “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità“, gli Onorevoli Terracini e Nobile sostennero in via di principio che la questione dello scopo della pena, pur riguardando il codice, doveva essere risolta espressamente anche nella carta statutaria e proposero di sostituire la disposizione suddetta, in cui la funzione rieducativa assumeva un ruolo preminente con:

Le pene e la esecuzione non possono essere lesive della dignità umana. Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società. Le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di 15 anni.

 Benedetto Croce nel suo libro Etica e Politica ha scritto esser vano discutere sul carattere utilitario e morale delle leggi e di questa o quella legge. Quando ci si pone il quesito se la pena possa o debba avere un contenuto moralistico si può rispondere affermativamente, ma questa affermazione non deve essere contenuta nella Costituzione.

Ancora più esplicito fu il contrasto contro l’accoglimento del principio rieducativo della pena dell’Onorevole Leone, il quale (nella seduta del 27 marzo 1947) dopo avere preliminarmente sostenuto che la Commissione con la formula adottata neppure “aveva tentato di risolvere il problema della funzione della pena”, dichiarò:

Io qui riaffermo la mia concezione conseguente alla concezione cristiano sociale, che la pena ha un duplice fine, la conservazione dell’ordine etico vigente nella società, funzione preventiva, e la restituzione dell’ordine violato, funzione vendicativa e satisfattoria. L’emenda per noi è un fine complementare della pena ed è un fine che nella concezione cristiana si radica nella carità, mentre il fine principale si riallaccia alla giustizia su cui si fonda una ordinata convivenza civile.

Nella stessa seduta l’Onorevole Trimarchi manifestò analogo dissenso e motivò la sua posizione osservando che la formulazione adottata avrebbe potuto prestarsi nel futuro ad un’interpretazione di carattere restrittivo poiché inseriva nel nostro sistema penale la teoria positivistica della pena, non rispondente alle varie finalità di essa:

La pena non ha come unico fine quello dell’emenda poiché vi sono altri fini quali quello della giustizia, della prevenzione generale, i quali esigono che le pene siano giuste ed agiscano come contro spinta al delitto, mentre se si ritiene esclusivo il fine dell’emenda noi creeremmo uno strumento di pena che piuttosto che agire come controspinta al delitto potrebbe agire come spinta al delitto.

Il Trimarchi sostenne, perciò, che la formulazione dell’articolo dovesse essere più esplicata nell’esprimere che il fine rieducativo non escludeva gli altri, sembrando dalla dizione letterale che unico fine dovesse essere invece quello dell’emenda.

L’Onorevole Basile si espresse in favore del principio.

Nella seduta del 15 aprile del 1947 l’Onorevole Leone, dopo avere insistito sul fatto che la commissione non aveva voluto prendere posizione sulla questione della rieducazione, ma esprimere esclusivamente il principio che “nell’esecuzione della pena lo Stato si assume l’impegno di facilitare il processo di rieducazione di recupero morale del delinquente” presentò con l’Onorevole un emendamento.

Le parti salienti del dibattito attestano che il principio della tendenza rieducativa della pena non ebbe facile ingresso nella nuova Costituzione, ma incontrò una grande opposizione. Questo è dovuto non alla volontà dichiarata di evitare una presa di posizione sulla questione, ma a quella di conservare alla pena il suo carattere tradizionale che era quella di “restituzione dell’ordine violato attraverso la funzione vendicativa e satisfattoria”, sostenendo che la rieducazione e l’emenda del condannato rappresentassero esclusivamente un fine collaterale e secondario dell’esecuzione penale

Non aggiunta nessuna parola sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo.  rinviato sine die.

I contrasti nella Commissione per la Costituente tra coloro che concepivano la pena in chiave prevalentemente retributiva o, all’opposto, rieducativa, ebbero come risultato una formulazione definitiva nel comma e dell’articolo 27 che, combinato con l’articolo 25 della Costituzione, pose in modo inequivocabile i principi di afflittività, di umanizzazione e di finalismo rieducativo della pena.

Alcune delle pene previste dal codice del 1930 dovevano essere abolite o riplasmate alla luce dei principi insiti nella norma costituzionale. Restava aperta la questione dell’eterogeneità delle funzioni della pena e della loro reale conciliabilità.

Se sino a quel momento la pena perpetua si armonizzava con la concezione etico-retributiva propria della Scuola classica, non si poteva dire in contrasto, per altro verso, nemmeno con le teorie di stampo positivista che, pur ponendo in risalto la funzione rieducativa della pena, finivano con l’ammettere il ristretto scopo di neutralizzazione della sanzione penale qualora fosse postulata l’incorreggibilità del condannato.

Quando la Costituzione stessa assegnava alle pene il fine di rieducare il colpevole attraverso un trattamento non contrario al senso di umanità, l’ergastolo era posto, per la prima volta, di fronte a un’alternativa che non poteva essere delusa, o questo, attraverso le modifiche delle modalità di trattamento, riusciva ad essere armonico anche con la funzione rieducativa, oppure era diretto ad essere cancellato dal nostro ordinamento, perché in contrasto con i principi costituzionali.

Di fronte a questo dilemma, una parte della dottrina tentò il salvataggio della pena perpetua, ritenuta indispensabile per ragioni di retribuzione e di prevenzione con una duplice azione.

In primo luogo si cercò di limitare la portata del comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione, attribuendogli il carattere di semplice “istanza” che ne avrebbe evidenziato la natura di norma programmatica.

Questa tesi non portò lontano, perché la più autorevole dottrina sottolineò l’efficacia precettiva immediata delle norme programmatiche che, come quella in questione, non fossero generiche ed avessero un contenuto univoco, ed anche la giurisprudenza finì con il riconoscere che l’illegittimità costituzionale di una norma potesse derivare dalla sua inconciliabilità con le norme programmatiche quando esse, per la loro concretezza, vincolassero immediatamente il legislatore

In secondo luogo si cercò di salvare la costituzionalità della pena perpetua, dimostrando la compatibilità dell’ergastolo con l’istanza rieducativa attraverso un recupero di tesi in precedenza collaudate. Si disse, seguendo uno schema logico caratteristico della dottrina degli anni precedenti, che anche questo istituto potesse “tendere alla rieducazione”, purché essa sia intesa come “rieducazione interiore”. Questa rieducazione, che coincideva con il concetto di emenda, era raggiunta attraverso la pena-redenzione che doveva essere espiata, consentendo così al reo di “pagare il suo debito verso la società offesa”.

Questo ragionamento, che poteva rendere labile la linea di demarcazione tra pena rieducativa e pena retributiva, finiva per restringere le funzioni di prevenzione speciale indicate nel comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione e che considerava compito e fine delle discipline giuridiche quell’emendamento morale un secolo prima considerato estraneo al diritto dalla Scuola retribuzionista, è fatto propria dalla Corte di Cassazione, che dichiarò manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’articolo 22 del Codice penale che prevedeva (e prevede anche oggi) la pena dell’ergastolo. 

Dott.ssa Concas Alessandra

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