La legge di riforma dell’Ordinamento Penitenziario

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La riforma penitenziaria del 1975 segna una svolta, almeno in relazione ai principi ispiratori della legislazione penitenziaria, perché sostituisce definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931.

Questo si ispirava a una filosofia di applicazione della pena che aveva caratterizzato la normativa in materia sin dall’Unità di Italia, e che vedeva nelle privazioni e nelle sofferenze fisiche gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo.

Sino a quel momento il carcere era stato concepito come luogo impermeabile e isolato dalla società libera.

L’isolamento trovava espressione nella disciplina dei rapporti con la società esterna – limitati a colloqui, corrispondenza e visite dei prossimi congiunti, peraltro assai restrittiva e aleatoria, in quanto legata al sistema delle ricompense e delle punizioni.

Lo stesso valeva per le visite degli istituti penitenziari ad opera di persone estranee all’amministrazione, riservata esclusivamente a un elenco tassativo di personalità.

Il sistema penitenziario delineato dal Regolamento del 1931 si articolava in una serie di strumenti rivolti a ottenere, anche attraverso punizioni e privilegi, nonché attraverso quotidiane pratiche di violenza, un’adesione coatta alle regole, con una costante violazione delle più elementari regole del rispetto della dignità della persona.

Per modificare la situazione, si succedettero, nel corso degli anni, numerose iniziative ministeriali e parlamentari, che trovarono eco nelle rivolte dei detenuti del 1969, che il clima politico-istituzionale mutò.

Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della libertà”) il lungo percorso della riforma penitenziaria raggiunse una tappa decisiva, dando seguito alle indicazioni contenute nella Costituzione.

La riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 mette finalmente in pratica, dopo molti anni, un dettato costituzionale rimasto per molto tempo inattuato.

L’articolo 27 comma 3 della Costituzione stabilisce:

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Il principio di base di questa concezione è che la pena possa e debba essere rieducativa, e debba includere una serie di attività e misure di natura trattamentale, finalizzati al reinserimento sociale del detenuto.

 

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La legge del ’75 attua, almeno sulla carta, il principio costituzionale del quale sopra.

Essa afferma che, ai fini del trattamento rieducativo, al detenuto deve innanzitutto essere assicurato il lavoro, sia all’esterno sia all’interno del carcere.

C’è la figura del detenuto e non più, come accadeva nel regolamento del 1931, la dimensione organizzativa dell’amministrazione penitenziaria con le esigenze di disciplina ad essa connesse. L’impianto dell’ordinamento penitenziario pone adesso alla base del trattamento i valori dell’umanità e della dignità della persona, ai quali fa da corollario l’affermazione del principio della assoluta imparzialità in relazione ai detenuti, “senza discriminazioni in ordine di nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose” (ex art. 1, 2° comma, ord. penit.).

Ai detenuti viene assicurata parità di condizioni di vita negli istituti penitenziari (ex art. 3, ord. penit.) e nessuno tra essi “può avere, nei servizi dell’istituto, mansioni che comportino un potere disciplinare o consentano una posizione di preminenza sugli altri” (ex art. 32, 3° comma, ord. penit.).

Il rispetto per la persona si esprime anche nella previsione per la quale“i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome (ex art. 1, 4° comma, ord. Penit.).

Si tratta di una netta presa di posizione nei confronti della prassi di indicare i reclusi con il numero di matricola fatta propria dal Regolamento del 19314.

 

L’ordinamento penitenziario vigente è stato concepito e voluto dal legislatore in funzione non della sola custodia del detenuto e neppure del semplice riconoscimento del suo diritto elementare a un trattamento conforme alla sua qualità di persona, ma, rispettando l’articolo. 27 della Costituzione, in funzione del recupero sociale del condannato. Anche da norme regolamentari (D.P.R. 431/76) si ha conferma del superamento definitivo della finalità custodialistica, dove si dispone che “la sicurezza, l’ordine e la disciplina degli istituti penitenziari costituiscono la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento”.

 

La privazione della libertà, aspetto afflittivo della pena, diventa il mezzo per tendere al recupero sociale del condannato mediante il suo trattamento individualizzato.

L’attuazione della legge non è stata immediata.

Sono dovuti passare molti anni prima che si desse avvio a una reale, anche  se lenta, riforma dei vari apparati delle istituzioni carcerarie, a partire dagli edifici, alcuni addirittura di epoca rinascimentale, sino al personale qualificato e al trattamento stesso delle pene e dei detenuti.

 

La legge sull’Ordinamento Penitenziario è divisa in due titoli, “Trattamento” e “Organizzazione”.

Il primo titolo si rifà ai principi costituzionali, sia per le modalità detentive (ex art. 27 Cost.), sia per la libertà personale.

Il concetto di umanizzazione della pena è evidente nell’articolo 1, comma 1 della legge, che stabilisce:

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.”

L’ultimo comma dello stesso articolo recita:

“Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento é attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

 

L’art. 4 dell’Ordinamento Penitenziario è di fondamentale importanza, assicura ai detenuti e agli internati l’esercizio personale dei loro diritti anche se si trovano in stato di interdizione legale.

La decisiva svolta rispetto al Regolamento del 1931 si esprime anche nel riconoscimento al detenuto di una propria soggettività giuridica, venendo identificato e definito quale titolare di diritti e di aspettative e legittimato all’agire giuridico proprio nella qualità di titolare di diritti che appartengono alla condizione di detenuto.

 

Sono valori tutelati dalla Costituzione, esprimendosi nei diritti relativi all’integrità fisica, ai rapporti familiari e sociali, all’integrità morale e culturale.

La riforma prende posizione sui vari aspetti dell’istituzione carceraria, ad esempio, le spese per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza detentive8, gli edifici penitenziari, l’igiene personale, le attrezzature per le attività di lavoro, di istruzione e di ricreazione.

 

Un altro elemento innovativo della legge 354/75 è il trattamento all’individualizzazione.

Si prescrive l’osservazione scientifica della personalità di ciascun detenuto, così da costituire un programma individuale, utile all’assegnare al detenuto il “luogo” in cui scontare la pena (tipo di istituto e sezione).

Risulta essere esemplificativo l’articolo 13, che stabilisce:

“Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale.

L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa.

Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed é compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione.

Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite, unitamente ai dati giudiziari, biografici e sanitari, nella cartella personale, nella quale sono successivamente annotati gli sviluppi del trattamento pratico e i suoi risultati.

Deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento”.

 

Gli elementi del trattamento previsto dalla riforma sono relative all’istruzione, al lavoro, alle attività culturali, ricreative e sportive, nonché agli opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia.

Ci sono due principi molto importanti nella legge del ‘75:

uno sulla discontinuità della pena, con la flessibilità dei permessi (che permette ai detenuti di riallacciare periodicamente i rapporti umani, a partire da quelli familiari).

L’altro sulla flessibilità della pena, con la liberazione.

In base a questo principio, il giudice di sorveglianza controlla il comportamento del detenuto, osserva il divenire della sua personalità, accertandone l’eventuale partecipazione al processo rieducativo, in base al quale poter poi concedere una riduzione della pena.

Questa prospettiva non è comprensibile se si rimane legati a un concetto vendicativo di pena.

Sta qui il netto cambiamento di ottica insito nell’Ordinamento Penitenziario.

 

Si parla di misure alternative alla detenzione, che possono consistere nell’affidamento in prova al servizio sociale, nella semilibertà o nella detenzione domiciliare dopo aver scontato metà di determinate pene.

La modifica, in questo caso, sta nel fatto che è proprio la magistratura di sorveglianza ad essere chiamata a gestire permessi e misure alternative, attuando così una collaborazione inedita con l’amministrazione.

Dott.ssa Concas Alessandra

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