La crisi dell’Impresa

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Il fenomeno della crisi dell’impresa sorge insieme alla nascita della stessa, essendone una fase fisiologica del ciclo di vita.

A partire dagli anni ’70 diventa una caratteristica permanente del sistema industriale.

Del termine “crisi” si è cercato spesso di dare una definizione univoca.

In senso strettamente finanziario, esso è considerato sinonimo di insolvenza, considerando in crisi, l’impresa che “non sia in grado di fare fronte alle proprie obbligazioni, o meglio, quando vengano meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie per adempiere regolarmente e con mezzi normali, alle obbligazioni contratte”.

Secondo un’altra opinione, “la crisi si sostanzia nell’instabilità della redditività che porta a rovinose perdite economiche e di valore del capitale, con conseguenti dissesti nei flussi finanziari, perdita della capacità di ottenere finanziamenti creditizi per un crollo di fiducia da parte della comunità finanziaria, ma anche da parte dei clienti e fornitori.

La crisi d’impresa è causa di “allarme sociale”.

Gli interessi che ruotano intorno a un’impresa sono numerosi sono e vengono ad essere minacciati dalla

crisi della stessa, che spesso è il risultato di un particolare intreccio di condizioni esterne e di fattori interni.

In primo luogo, i creditori dell’imprenditore, i quali individuano nella crisi, l’impossibilità di ottenere quello che è loro dovuto.

In secondo luogo, la crisi pregiudica anche e inevitabilmente i lavoratori della stessa.

Più aumentano le dimensioni dell’impresa e le sue relazioni, più la questione può diventare di carattere sociale, andando a travolgere spesso altre imprese.

In questo modo, a risentirne, è l’intero sistema economico di un determinato ambito di riferimento, perché la crisi di un’impresa può dare luogo a crisi aziendali a catena che pregiudicano la stabilità dell’intero ambito economico.

Nell’ambito delle crisi di un’impresa, è possibile distinguere principalmente tra Crisi da rigidità e Crisi da inefficienza..

 

La prima, si verifica quando il sistema aziendale incontra notevoli difficoltà con l’ambiente esterno e manifesta l’incapacità dell’impresa di reagire alle mutate condizioni, perché i costi non si adattano in tempi brevi alle diminuzioni della domanda.

Le crisi da rigidità sono connesse a cause esterne all’impresa, e dipendono da fattori assolutamente estranei alla stessa e per questo si definiscono cause congiunturali, che risentono dell’ambiente esterno nel quale si trovano a interagire (materie prime, energia, instabilità dei cambi monetari e dei tassi

finanziari).

 

La crisi da inefficienza riguarda l’ambito interno di un’azienda, e si manifesta quando una o più aree della gestione svolgono la propria attività con rendimenti che non sono in linea con le loro specifiche potenzialità.

Si tratta di una crisi connessa a cause interne che dipendono dal patrimonio, dalla struttura e dalla gestione, cioè da quegli elementi che caratterizzano le modalità di conduzione dell’impresa.

Sono cause strutturali di tipo finanziario quantitativo l’eccessivo ricorso al capitale di

credito, di tipo finanziario qualitativo, il ricorso a forme di finanziamento molto onerose e di carattere organizzativo e strutturale.

Una società, nel corso della sua vita, può attraversare momenti di crisi o momenti di insolvenza.

La situazione di crisi è quella fase della vita dell’impresa che pone a rischio la prospettiva

della continuazione dell’attività.

Il risanamento queste ipotesi, è ancora possibile.

Lo stato di insolvenza è, invece, la situazione nella si trova l’impresa che non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, perché il mercato le ha revocato la fiducia e non le concede più credito.

Con il termine “insolvenza”, una parte della dottrina ritiene si debba intendere una delle forme

nelle qualisi si può manifestare la crisi dell’impresa.

 

Con il termine “crisi”, invece, uno status comprensivo diverse situazioni, che possono andare dall’insolvenza irreversibile ad una situazione di squilibrio economico e finanziario.

 

Una volta stabilita la situazione di difficoltà, la questione principale riguarda la scelta della soluzione da attuare come rimedio, a quella che può essere definita una “situazione di squilibrio che compromette l’intero assetto economico, finanziario e patrimoniale dell’impresa”.

 

La legge fallimentare del 1942 ha disciplinato, immutata, la materia delle procedure concorsuali per più di sessanta anni.

Quel Regio Decreto considerava la liquidazione del patrimonio e la conseguente dissoluzione dell’azienda, come strumento ultimo di regolamentazione del fenomeno dell’insolvenza.

L’impronta del Legislatore rispondeva ai principi economici e giuridici propri di quel tempo, fondati su una visione patrimonialista di favor creditoris.

A ciò si aggiungeva l’intento afflittivo con il quale il Legislatore del ’42 considerava l’imprenditore insolvente, punito per la sua condotta giudicata riprovevole con l’istituto del fallimento che lo spossessava del suo patrimonio e gli imponeva limitazioni anche di tipo personale.

 

Con la prima Riforma introdotta dal D.L. n°35/2005, il Legislatore ha offerto alle imprese in crisi, tre strumenti di riorganizzazione tra loro alternativi.

Il concordato preventivo ex art. 160 L.F.,il piano attestato di risanamento ex art. 67 co. 3° lettera d) L.F., l’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis L.F. .

 

Il “ridisegnato” Concordato preventivo del quale all’art. 160 L.F., contempla e presuppone un accordo rivolto alla ristrutturazione dei debiti ed al collegato soddisfacimento dei crediti, con la possibilità per il proponente di compiere una suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi omogenei, con trattamenti differenziati tra coloro che appartengono alle stesse, e si perfeziona con la sua definitiva omologazione, la quale lo rende efficace anche nei confronti di eventuali creditori dissenzienti.

Il concordato preventivo si sostanzia in un procedimento giudiziale che ha bisogno di un accordo tra l’imprenditore e i suoi creditori, in forza del quale il primo, in stato di difficoltà economico-finanziaria, si obbliga a pagare i propri debiti, proponendo un piano che preveda il soddisfacimento dei crediti.

L’imprenditore, chiede ai propri creditori di accettare una soddisfazione parziale dei crediti da questi

vantati, al fine di scongiurare il fallimento e proseguire l’esercizio dell’impresa.

La società in stato di crisi che voglia evitare la dichiarazione di fallimento può prevenire l’istanza fallimentare dei creditori, proponendo loro un progetto di concordato preventivo che contenga una proposta di risanamento dell’impresa in crisi.

Trattandosi di un procedimento giudiziale, la proposta di concordato deve essere sottoposta alla procedura di ammissione da parte del Tribunale del luogo nel quale si trova la sede principale dell’impresa.

Il Tribunale, esaminata la domanda di ammissione proposta nella forma del ricorso e valutata la relativa ammissibilità, con decreto dichiara aperta la procedura.

La domanda di concordato ammessa dal tribunale deve essere approvata dai creditori della società (artt. 171-179 L.F.).

Approvato il concordato, si procede alla sua successiva omologazione con decreto motivato entro 6 mesi dalla presentazione della proposta, e avvenuta l’omologazione, si apre la fase esecutiva del

concordato, che segue le modalità indicate nel decreto di omologazione.

La novità più rilevante della Riforma della disciplina fallimentare, consiste nell’introduzione all’interno del nostro ordinamento degli Accordi stragiudiziali (c.d. Workouts).

 

Il Piano attestato di risanamento (ex art. 67 L.F.), si configura come il primo passo verso una gestione e soluzione della crisi societaria rimessa all’autonomia dell’imprenditore.

L’art. 67 co. 3 lett. d) L.F., lo definisce come un “piano che appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la quale ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501-bis co. 4 c.c.”.

Il piano di risanamento è un fatto interno all’impresa, un atto dell’imprenditore a contenuto negoziale, basato sul raggiungimento dell’intesa tra debitore e creditori, e approvazione da parte di costoro con le maggioranze prescritte dalla legge.

 

La società in crisi può proporre ai creditori un piano di risanamento che consenta di uscire dalla situazione di crisi e ai creditori di recuperare in tutto o in parte il loro credito.

I creditori sono liberi di aderirvi o meno. Il piano è inoltre svincolato da precisi obblighi pubblicitari.

Il piano deve essere oggetto di una attestazione esterna.

Un professionista deve attestare la ragionevolezza e l’idoneità dello stesso medesimo a superare la

situazione di crisi.

Il professionista deve essere iscritto nel registro dei revisori contabili e deve essere

scelto, con competenza esclusiva, dalla società stessa.

Non essendoci la presenza del tribunale, il Piano produce i suoi effetti senza nessuna autorizzazione da parte della suddetta Autorità.

 

Un notevole vantaggioderiva inoltre dal fatto che il Legislatore ha stabilito che gli atti e i pagamenti posti in essere in esecuzione del Piano, siano esenti da revocatoria fallimentare, in caso di successivo

fallimento della società, la legge esonera espressamente da revocatoria a qualsiasi atto, pagamento o garanzia concessa sui beni del debitore posti in essere in esecuzione del piano attestato.

 

Il secondo tipo di accordo stragiudiziale introdotto dalla Riforma è l’Accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis L.F.

Si tratta, in realtà, di un accordo caratterizzato da due fasi.

Una stragiudiziale, nella quale l’imprenditore in crisi rinegozia con i propri creditori la situazione debitoria, e una giudiziale, nella quale il Legislatore, fa derivare l’effettiva produzione degli effetti legali dell’accordo, al Tribunale,e per questo motivo possiamo parlare di workout “ibrido”.

L’imprenditore in stato di crisi può chiedere, depositando la documentazione di

cui all’art. 161 L.F., l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il 60 % dei crediti, unitamente a una relazione redatta da un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, co. 3°lett. d) sull’attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità che assicuri il regolare pagamento dei creditori estranei.

L’accordo è pubblicato nel registro delle imprese e acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione.

Dalla data di pubblicazione e per 60 giorni, i creditori per titolo e causa anteriori a questa data, non possono iniziare o proseguire azioni cautelari sul patrimonio del debitore.

Entro 30 giorni dalla pubblicazione, i creditori possono proporre opposizione.

Il Tribunale, decise le opposizioni, procede all’omologazione in camera di consiglio e con decreto motivato.

Anche in questo caso, nell’ipotesi di successivo fallimento, per effetto dell’art. 67 comma 3, L.F., sono esenti da revocatoria fallimentare gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo, purché lo stesso sia omologato.

È controverso in dottrina, se il giudizio di omologazione debba riguardare anche la valutazione dell’idoneità del piano ad assicurare l’integrale e tempestivo pagamento dei creditori estranei, o se tale giudizio debba limitarsi ad un controllo che riguardi l’assoluto rispetto dei criteri di legge posti a fondamento dell’accordo e della sua non contrarietà a norme imperative.

Nel silenzio della legge, deve ritenersi che, ove l’impresa non adempia agli obblighi assunti con l’accordo di ristrutturazione, i creditori aderenti possano domandare la risoluzione dello stesso secondo la disciplina generale prevista in materia contrattuale.

I creditori estranei all’accordo non hanno invece interesse ad agire, perché non possono essere lesi dall’accordo.

Dott.ssa Concas Alessandra

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