La condizione unilaterale, definizione e caratteri

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Secondo il principio di autonomia contrattuale, la stipulazione di una clausola rivolta all’attribuzione a uno dei contraenti del potere di determinare gli effetti che un determinato evento deve produrre in relazione alla sorte del contratto, sia, in via di principio, perfettamente valida.

In forza di una clausola di questo genere inserita in un contratto condizionale, il contraente titolare della facoltà in questione può liberamente decidere se mantenere un negozio altrimenti diventato o diretto a restare inefficace a seguito dell’avveramento di una condizione risolutiva o del definitivo mancato avveramento di una condizione sospensiva.

La clausola potrà attribuire al contratto, secondo l’intenzione delle parti, natura di contratto normalmente condizionato al quale è affiancato un patto di opzione, oppure di contratto aleatorio, o potrà semplicemente, in un normale contratto di compravendita, assegnare a uno dei contraenti il diritto potestativo in questione come corrispettivo di una contropartita, ad esempio un prezzo più elevato del normale.

In questi ultimi anni la giurisprudenza ha riconosciuto con sempre maggiore frequenza, nei contratti di compravendita immobiliare, un meccanismo analogo.
I giudici, compiono a volte una distinzione tra condizione bilaterale e condizione unilaterale ed attribuiscono a quest’ultima un particolare modo operativo.

Il suo tratto particolare, che consiste nell’essere apposta al negozio a tutela di una delle parti contraenti, nella ricostruzione giurisprudenziale, lascerebbe al soggetto portatore dell’interesse in questione la facoltà e non l’obbligo di avvalersi della condizione stessa.

Il fenomeno non avrebbe niente di strano se la giurisprudenza si limitasse a dare atto della presenza di un’altra esigenza socio-economica che richiede un regolamento contrattuale ed un assetto degli interessi coinvolti differenti da quelli considerati dal legislatore.

Se, cioè, i giudici si riservassero esclusivamente il compito di interpretare, attraverso i canoni ermeneutici la reale intenzione dei contraenti come espressione di autonomia contrattuale e, di fronte alla pattuizione di una condizione nell’interesse esclusivo di una delle parti procedessero alla verifica della volontà di attribuire al soggetto titolare di tale interesse il potere de quo optando, in caso di dubbio, a norma dell’articolo 1369 del codice civile, per la soluzione che la riconduce allo schema legale o, come si osserva in dottrina, per quel meccanismo che più favorisce la certezza dei diritti soggettivi.

I nostri giudici non si sono mai trovati di fronte a un caso nel quale risultasse in modo inequivoco la volontà delle parti di attribuire a una di esse un potere in ordine all’efficacia del contratto nonostante la deficienza della condizione sospensiva o l’avveramento di quella risolutiva, ma neppure, dalle loro decisioni, emerge un’indagine volta a stabilire se la comune intenzione delle parti, pur non dichiarata, fosse rivolta a tale scopo.

Non si tratta di una questione di fatto, rivolta a stabilire se i privati abbiano voluto una condizione secondo lo schema legale oppure una condizione se invocata dalla parte favorita, ma di una questione di diritto.

Affermare,  che la condizione posta nell’interesse di uno dei contraenti non coincide perfettamente con la fattispecie prevista dall’articolo 1353 del codice civile consente di affermare che anche gli effetti possano non coincidere e che il meccanismo, proprio dello strumento condizionale, che fa sì che il verificarsi o il venir meno di un determinato evento produca in modo automatico i propri effetti sul contratto possa, nel caso della condizione unilaterale.

Dal lato formale non c’è tra gli studiosi del diritto chi non veda come l’indagine circa la correttezza dell’interpretazione giurisprudenziale dovrebbe proporsi, in primo luogo, di risolvere il quesito se la titolarità dell’interesse tutelato sia criterio sufficiente a fondare, nell’ambito del genus condizione, due fattispecie distinte e come tali produttive di effetti propri.

Il meccanismo condizionale previsto dal nostro codice civile, infatti, com’é stato fatto notare in dottrina, è introdotto nel regolamento contrattuale su richiesta di una sola delle parti contraenti, mentre l’altra vi si adatta perché, diversamente, la prima non contratterebbe.

Sotto questo lato, il rinvio al principio di autonomia contrattuale, contenuto nelle massime di numerose sentenze, appare privo di significato.
I giudici, infatti, invocano tale principio per fondare la legittimità della stipulazione di una clausola condizionale nell’interesse di una sola delle parti contraenti quando questa é già garantita dalle norme in tema di condizione.

Il lato focale della questione, pertanto, sia nel caso nel quale le parti abbiano voluto una condizione nell’interesse di una sola tra esse, sia nel caso nel quale, di fronte ad una semplice pattuizione condizionale, la giurisprudenza abbia ritenuto possibile individuare con precisione i caratteri di specialità che distinguono la condizione unilaterale rispetto a quella bilaterale, è quello di dimostrare la legittimità del ragionamento che le ricollega gli effetti suesposti.

Ammesso che non c’è nessuna norma, in tema di condizione, che possa far desumere l’esistenza di un potere di questo tipo in capo alla parte “favorita”, per riconoscerlo bisognerebbe ammettere l’operatività, nel nostro ordinamento, di una regola di portata generale che, subordinando un effetto giuridico ad un fatto nell’interesse di una parte, attribuisca a quest’ultima la facoltà di invocare o non invocare l’evento.

Al contrario, in dottrina si riporta, a titolo di esempio, la norma che subordina la donazione alla forma.

Nonostante essa non sia posta nell’interesse del donante, il difetto di forma può essere fatto valere da chiunque.

Se davvero si trattasse di un principio generale, non si vedrebbe la ragione per cui il legislatore abbia, nelle ipotesi di risoluzione di diritto, ritenuto necessario specificarlo e contenerlo entro un limite di tempo molto ristretto.

I fedeli al proprio compito di giuristi territoriali di dimostrare che in un determinato ordinamento, in un determinato momento, esiste una verità giuridica, la quale ha la sua fonte esclusiva nella legge, mentre dottrina e giurisprudenza si incaricano soltanto, rispettivamente, di ricostruirla ed applicarla, gli interpreti, disorientati dall’inesistenza di una norma volta a giustificare il potere del soggetto nel quale interesse la condizione è stata posta di indicare quali effetti l’evento dedotto in condizione debba produrre in ordine all’operatività del contratto, consentendogli di mantenere un contratto divenuto o diretto a restare inefficace, non avevano altra alternativa se non negare la correttezza formale del principio enunciato dalla giurisprudenza o ricorrere all’art.1322 del codice civile.

La scelta uniforme della dottrina è stata quella di invocare il principio di autonomia contrattuale. Una volta presupposta la comune intenzione delle parti, essi hanno quindi proceduto ad un tentativo di inquadrare l’istituto in parola in uno schema giuridico noto al fine di individuarne la disciplina.
Il risultato sono state pertanto teorie più o meno convincenti ma mai completamente aderenti al modello di elaborazione giurisprudenziale. E non si vede d’altronde come lo avrebbero potuto essere, visto che sono diversi gli stessi presupposti di operatività della condizione unilaterale, ammesso che il potere di indicare quali effetti l’evento dedotto in condizione debba produrre in relazione all’efficacia del contratto viene fatto derivare, nelle prime, dalla volontà delle parti e nel secondo dall’unilateralità dell’interesse tutelato. 

Dott.ssa Concas Alessandra

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