La condizione giuridica delle donne in Italia nel passato e nel presente

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Il termine cittadinanza è relativo a una organizzazione politica e sociale nella quale la sfera pubblica, con le sue istituzioni politiche, militari, giurisdizionali, è nettamente separata dalla sfera privata incentrata sulla famiglia.

La famiglia era l’istituzione sociale nella quale tradizionalmente si circoscriveva e risolveva la vita delle donne.

Con il termine cittadinanza si intende l’elemento centrale di una organizzazione politica e sociale che trova la sua origine nella città-stato.

Essere cittadini, civis, significava fare parte della città e avere parte nel governo della repubblica, ma anche essere parte della comunità, cioè vedersi riconoscere diritti e attribuire doveri negati a coloro che non erano riconosciuti come cives.

Le donne erano ritenute parte della comunità perché mogli o figlie dei cives, a loro erano riconosciute protezione e alcuni diritti ma non quelli relativi al governo della cosa pubblica che si esercitavano direttamente attraverso la partecipazione attiva alle sue istituzioni o indirettamente attraverso la rappresentanza.

Le rivoluzioni non cambiarono la condizione delle donne che anzi, vennero relegate nelle funzioni familiari non più centrali della organizzazione sociale e politica e non si videro riconosciuti i diritti della cittadinanza e si videro negare la rappresentanza attiva e passiva.

Nell’Italia che aveva raggiunto l’unificazione si provvide subito alla elaborazione di un codice civile che fu promulgato nel 1865.

In relazione alla condizione femminile il codice, soprattutto attraverso il diritto di famiglia, provvide a formulare uno stato di minorile subalternità della moglie alla quale, senza l’autorizzazione del marito, non era consentita l’autonoma indipendente amministrazione del suo patrimonio.

Ne risultava uno stato di dipendenza familiare e di mancanza di autonomia nella società civile che si rifletteva nella comunità politica.

Le donne che si videro rifiutare il diritto al suffragio non si rassegnarono senza reagire.

Le teorie positivistiche si rifacevano alle differenze naturali tra i generi e alle conseguenti differenze“naturali” sociali e politiche, che erano presenti in gran parte nel giusnaturalismo, in base alle quali si sconsigliava l’ammissione al voto per le donne.

La subordinazione delle donne e la loro esclusione dalla vita pubblica erano giustificate dalla loro naturale condizione di inferiorità per spiegare la quale si evocavano gli argomenti di filosofi, giuristi e moralisti espressi con straordinaria precisione da Jean-Jacques Rousseau nell’Emile e nella Nouvelle Héloise.

La questione del voto alle donne si ripresentò nel 1913 quando il Parlamento affrontò la proposta Giolitti di estendere il diritto agli analfabeti.

Il Presidente del Consiglio rifiutò di estendere il diritto alle donne perché sarebbe stato “un salto nel buio”.

Il suffragio femminile non rientrava nel quadro della visione democratica del ministro liberale.

La proposta del voto alle donne fu ripresentata e accolta nel 1919.

Era tardi, le vicende belliche e l’avvento del fascismo, che abolì il diritto per chiunque, resero la norma inapplicabile.

Mentre la guerra era ancora in corso e il paese impegnato nell’ultimo scontro a Roma le donne organizzate premevano per il voto sul governo che si era nel frattempo formato.

La questione fu portata al governo Bonomi dall’on. Alcide De Gasperi e approvata, senza nessuna opposizione, per “decenza democratica”.

Con decreto luogotenenziale “il suffragio universale fu esteso alle donne”.

All’Assemblea Costituente che doveva preparare la Costituzione Repubblicana parteciparono 21 donne su 556 membri, e i principi di uguaglianza tra i sessi furono sanciti con solennità.

Per portare avanti il processo verso una vera uguaglianza furono necessarie alcune sentenze della Corte Costituzionale, mentre di grande rilevanza si sono mostrate le spinte che vengono dalle organizzazioni comunitarie e dalle convenzioni delle Nazioni Unite.

L’elaborazione di un altro diritto di famiglia ha posto i coniugi su un piano di parità eliminando le forme di discriminazione che subordinavano la moglie al marito.

La legge sul divorzio e quella successiva sul diritto di aborto sono state fortemente volute dalle donne italiane che per la loro approvazione hanno speso molte energie.

In relazione all’educazione primaria e secondaria, non ci sono differenze anche se si deve sottolineare una marcata preferenza delle ragazze per gli studi di tipo sociale e umanistico, che consentono impieghi più facilmente conciliabili con gli obblighi familiari, che per gli studi di tipo tecnico-scientifico.

La partecipazione delle donne alle assemblee legislative è ancora molto bassa.

Nella Camera dei deputati le elette sono 60, pari al 9,5 %, al Senato sono 26, lí 8 %.

Il tentativo di imporre per legge una quota del 30 % nelle liste elettorali è stato ritenuto incostituzionale dalla Consulta che ha respinto la legge.

Se sul piano legislativo non mancano iniziative rivolte a promuovere una maggiore parità, a ogni livello, i freni vengono dall’organizzazione sociale basata su una struttura della società ancora fortemente punitiva nei confronti delle donne alle quali non è possibile porre riparo esclusivamente attraverso il ricorso allo strumento legislativi la quale applicazione risulta spesso difficile, farraginosa e incerta e a volte controproducente, come dimostra la protettiva legislazione sul lavoro delle donne che ha avuto l’effetto indesiderato di limitare il lavoro femminile e di comprimere fortemente le aspirazioni alle carriere più remunerate e prestigiose.

Con l’istituzione di una Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna e una Commissione per le azioni positive si tenta di superare ostacoli che a volte sono dovuti più al persistere di una mentalità e di una organizzazione familiare ancora fortemente patriarcale.

Le donne italiane, come le altre, hanno sempre lavorato ma adesso il lavoro non è più una dura necessità ma anche una manifestazione di indipendenza e uno strumento di libertà.

Questo non vale per le donne nel loro complesso, come non vale per gli uomini.

Le donne impiegate in lavori non domestici sono circa il 50% rispetto agli uomini, con marcate differenze tra il Nord e il Sud d’Italia.

La disoccupazione incide di più su di esse e il livello di povertà è superiore a quello maschile.

L’impiego del lavoro a tempo limitato è superiore per le donne che per gli uomini, e anche nel lavoro così detto sommerso, difficile da misurare, sono impiegate di preferenza donne anche se bisogna sottolineare che negli ultimi tempi la immigrazione clandestina ha fornito altre fonti di manodopera a basso costo. Popolazione attiva in Italia in percentuale

L’Italia ha approvato una legge molto avanzata per le lavoratrici madri, forse la più avanzata e generosa in Europa, ma questo ha avuto l’effetto di contrarre l’occupazione femminili nel settore privato.

Con questa legge si caricava, ancora una volta, sulle spalle delle donne il peso della riproduzione e gestione della famiglia.

Le lavoratrici italiane soffrono da un lato della scarsa collaborazione familiare degli uomini, una delle più basse in Europa, e da un altro di forme di assistenza per le madri e per la prima infanzia che è inadeguate.

Un altro effetto di questa condizioni è stato un accentuato dalla diminuzione della natalità.

Le donne italiane incontrano molte difficoltà a conciliare famiglia e lavoro e sembra difficile che in futuro lo stato sociale possa incrementare in modo soddisfacente da adeguarsi ai paesi del nord Europa, la scarsa assistenza e le forme di sostegno delle quali le madri e le madri lavoratrici in particolare hanno necessità.

Le difficoltà economiche e di bilancio, non esclusivamente italiane, impongono una restrizione, anziché un allargamento dello stato sociale.

Una realtà della quale si deve prendere atto, e ci si deve sforzare di pensare e proporre altre forme di sostegno e di aiuto.  

Dott.ssa Concas Alessandra

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