La Clausola risolutiva espressa

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La clausola risolutiva espressa è la pattuizione delle parti di un contratto che assumono un determinato adempimento venendo meno il quale c’è condizione risolutiva del contratto stesso.

 

Nell’ordinamento italiano è disciplinata dall’articolo 1456 del codice civile.

I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva.

 

La clausola risolutiva si concretizza nella comunicazione della parte non inadempiente alla parte inadempiente di voler risolvere il contratto.

Si deve però trattare di un inadempimento determinato.

Le parti non possono prevedere la risoluzione come conseguenza di un generico inadempimento, questo deve essere un’obbligazione determinata.

 

La dichiarazione di avvalersi della clausola risolutiva è configurabile come un negozio unilaterale recettizio, non formale (potendo risultare anche da fatti concludenti), la parte legittimata può rinunciare, sia espressamente sia tacitamente, a invocare la clausola risolutiva.

La risoluzione di diritto per agire di clausola risolutiva espressa si può invocare anche dopo avere proposto domanda di risoluzione giudiziale secondo l’articolo 1453 del codice civile (per inadempimento).

 

Risulta diversa dalla condizione risolutiva perché la clausola risolutiva espressa agisce in seguito alla dichiarazione della parte legittimata e con effetti retroattivi  esclusivamente tra le parti, mentre l’effetto risolutivo della prima opera automaticamente e con retroattività reale.

La dichiarazione della parte legittimata a valersi della clausola risolutiva espressa non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione (ex art. 1458 comma 2 c.c.).

 

La risoluzione giudiziale è un metodo di risoluzione delle controversie disciplinato nell’ordinamento giuridico dall’articolo 1453 comma 1 del codice civile.

 

Se una delle parti di un contratto a prestazioni corrispettive non adempie la propria obbligazione, l’altra parte ha facoltà:

 

di agire in giudizio per la coazione all’adempimento, chiedendo al giudice di condannare l’inadempiente ad eseguire la prestazione mancata (ed offrendosi di eseguire la propria, se questa ancora in sospeso)

 

di agire per la risoluzione, chiedendo al giudice di sciogliere il contratto.

Otterrà, in questo secondo caso, di essere esonerato dall’eseguire la propria prestazione (risolto il contratto, viene meno la fonte della sua obbligazione) o, se l’aveva eseguita, chiederà al giudice di pronunciare, oltre alla risoluzione del contratto, anche la condanna dell’altra parte alla restituzione della prestazione ricevuta.

 

Se la controparte fa richiesta di adempimento potrà sempre domandare la risoluzione del contratto fino a quando la controprestazione dovuta non sarà stata ottenuta (in modo spontaneo o coattivo), ma se opta per la risoluzione non può chiedere l’adempimento (ex art. 1543 comma 2), né la controparte può, dalla data della domanda di risoluzione, adempiere la propria obbligazione (ex art. 1453 comma 3).

Ci si è chiesti in dottrina che tipo di natura avesse la risoluzione giudiziale.

In particolare se la pronuncia del giudice fosse semplicemente dichiarativa derivata dalla consapevolezza tacita dei contraenti (volontà tacita o condizione risolutiva tacita) o dal venire meno della causa contrattuale derivata dall’inadempimento, oppure se fosse una sentenza anche a carattere sanzionatorio.

 

Le prime due soluzioni hanno dato luogo a varie critiche: la prima non spiega come può un elemento volontario far accedere al risarcimento, mentre la seconda è puramente teorica e non tiene conto del fatto che la causa è relazionata alla nascita dell’obbligazione e non al suo eventuale futuro adempimento.

La terza viene preferita, soprattutto in determinati casi dalla giurisprudenza.

 

Altro lato di discussione è il rapporto tra risoluzione giudiziale e risoluzione volontaria affidata alle parti in termini di autotutela.

Alcuni ipotizzano che questa debba essere assimilata alle seconde, altri viceversa. Sembra opinabile tuttavia la prima ipotesi che si appoggia sull’ampio cambiamento tra codice del 1865 e del 1942.

Il potere del giudice viene molto ridimensionato, ma non completamente ribaltato.

La seconda impostazione è più realistica, rendendo comunque centrale la risoluzione giudiale, dato che le forme volontarie dovranno comunque rifarsi ad un inadempimento imputabile.

Saranno controllati in seconda battuta dal giudice che avrà meno possibilità di controllo stesso.

 

la diffida di adempiere, un atto unilaterale e recettizio di autonomia privata, con il quale il contraente, adempiente o in procinto di adempiere, di un contratto, intima all’altra parte di adempiere entro un dato termine.

 

Con quest’atto una parte manifesta all’altro contraente una duplice volontà, quella conservativa del contratto in caso d’adempimento nel termine assegnato o, in mancanza di questo adempimento nel termine, quella risolutiva del contratto stesso che, in questo modo, si risolve automaticamente e stragiudizialmente in virtù della diffida inviata.

 

L’intimazione di adempiere è il sollecito che il creditore rivolge al debitore perché costui adempia la propria prestazione.

 

La disciplina è prevista all’articolo 1219 del codice civile ed è inquadrata nella sezione relativa all’inadempimento delle obbligazioni.

Nei casi nei quali la costituzione in mora non è automatica (ipotesi previste all’art. 1219 nn 1, 2, 3 c.c.) la legge richiede che la parte che ha diritto a ricevere la prestazione confermi la sua volontà di conseguirla, al fine di far decorrere gli effetti della mora del debitore.

 

L’adempimento, nell’ordinamento italiano, è l’esatta esecuzione della prestazione dovuta dedotta in obbligazione nonché principale, sebbene non unico, modo di estinzione delle obbligazioni.

Indipendentemente dalle ipotesi nelle quali l’inadempimento è connotato da elementi di frode da parte del debitore, come ad esempio nel caso di pagamento effettuato a mezzo di assegni a vuoto, in dottrina e in giurisprudenza si discute sulla nozione di «esatto adempimento», mancando una norma definitoria.

 

Per mora, in diritto, si intende il ritardo ingiustificato e imputabile, da una parte all’altra, nell’adempimento dell’obbligazione, qualora essa possa essere eseguita anche dopo la scadenza.

La mora può essere a carico del creditore o del debitore.

 

Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa

Se se ne vuole esigere l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni.

 

In mancanza, il contratto s’intende risoluto di diritto (Art. 1457 c.c.)

 

Per termine essenziale, ai sensi dell’articolo 1457 del Codice civile italiano si intende quel termine superato il quale la prestazione sarebbe inutile per il creditore. La mancata esecuzione della prestazione comporta automaticamente la risoluzione del contratto.

La legge tiene conto del fatto che il creditore anche se la prestazione è tardiva la possa esigere lo stesso.

 

Dott.ssa Concas Alessandra

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