La buona fede nell’esecuzione del contratto

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La buona fede (dal latino bona fides) comporta la convinzione genuina del soggetto di agire in maniera corretta: cioè senza malizia e nel sostanziale rispetto delle regole (anche non scritte) e degli altri soggetti. La buona fede implica quindi l’assenza della consapevolezza del danno che eventualmente si sta procurando ad altri o del fatto che si sta contravvenendo a delle regole o che le si sta nei fatti aggirandole.

Il principio di buona fede è ricorrente nella tradizione giuridica occidentale, i rapporti Tra soggetti giuridici non devono essere fondati esclusivamente sul timore della sanzione, ma anche sulla correttezza.

La buona fede corrisponde all’agire di un soggetto che non intende ledere nessuno, né ha un minimo sospetto che il suo comportamento possa essere lesivo.

È possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto.

La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave. La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto.

La dottrina pone la distinzione tra due categorie autonome di buona fede:

La buona fede soggettiva, ignoranza di ledere una situazione giuridica altrui.

La buona fede oggettiva (o correttezza), è il generale dovere di correttezza e di reciproca lealtà di condotta nei rapporti tra i soggetti.

Consiste nello sforzo che ogni contraente deve compiere, senza che questo non comporti un apprezzabile sacrificio, in modo che l’altro contraente possa adempiere correttamente.

Si sostanzia nell’obbligo per i contraenti di mantenere un comportamento, oggettivamente ispirato a lealtà e correttezza, nei momenti fisiologici dell’atto negoziale:

Nella fase delle trattative (ex art. 1337 c.c.).

Esempio di mancanza di buona fede nelle trattative è l’improvvisa e immotivata rottura delle stesse quando la controparte aveva motivo di credere che queste sarebbero arrivate al termine.

La violazione del dovere di buona fede comporta di regola l’obbligazione di risarcire il danno causato alla controparte.

Nella fase di esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.)

Nella fase eventuale dell’interpretazione del contratto (art.1366).

Ai sensi dell’articolo 1324 queste disposizioni si applicano ai negozi a contenuto patrimoniale tra vivi; è discussa in dottrina se la buona fede operi solamente laddove espressamente richiamata dal Codice civile, oppure si possa rintracciare un obbligo per i consociati di comportarsi correttamente, la quale violazione rilevi come responsabilità contrattuale.

Intesa come clausola di buona fede, che intercorre con la disciplina codicistica, esplica in materia contrattuale il principio di solidarietà enucleato dall’articolo 2 della Costituzione.

Ai sensi dell’articolo 1175 del codice civile , disposizione che si riferisce al rapporto obbligatorio, debitore e creditore si devono comportare secondo le regole della correttezza.

L’articolo 1375 codice civile, norma più specificamente dettata in tema di contratto, prescrive che questo deve essere eseguito secondo buona fede.

Secondo un’opinione, queste norme svolgerebbero la funzione di norme “quadro”, la quale specificazione sarebbe affidata con altre regole.

La esclusiva violazione di queste, consistenti in precetti specifici, configurerebbe un illecito mentre la contrarietà della condotta di un soggetto al generico dovere di comportarsi secondo le regole di correttezza non sarebbe direttamente ed autonomamente sanzionata dall’ordinamento.

Se si dovesse accogliere questa tesi, dovremmo riferire dell’esistenza di una zona “grigia” tra condotta lecita e illecita, che potrebbe costituire il terreno per la costruzione di una teorica dell’abuso del diritto che sfugga alla stringente obiezione in base alla quale una condotta o risulta conforme al diritto oppure è contraria ad esso, configurando conseguentemente un illecito.

Secondo un altro parere sarebbe direttamente ricostruibile, sulla scorta dei precetti dei quali agli articoli 1175 e 1375  del codice civile, una serie di obblighi immediatamente vincolanti per le parti, la quale violazione non andrebbe esente da sanzione.

Questa è la teoria dei cosiddetti obblighi di protezione, di cooperazione, di informazione, che è stata accolta anche dalla giurisprudenza, la quale ne ha fatto rilevante applicazione.

In particolare, negli obblighi di informazione sarebbe compreso anche quello di specificare con esattezza le qualità del prodotto che, pur potendo essere qualificato come cosa appartenente ad un genere, potrebbe in concreto essere sprovvisto delle specifiche caratteristiche funzionali all’utilizzo da parte dell’acquirente.

Una meditata opinione è stata  di recente prospettata, in forza della quale i precetti generici in questione dovrebbero essere riferiti unicamente ai rapporti precontrattuali, all’interpretazione e all’esecuzione del contratto, con l’esclusione di quello che è strettamente in relazione al contenuto negoziale.

Si pensi ad esempio ai particolari doveri (previsti espressamente dal codice civile ex art. 1746 c.c.) di informazione che gravano sul commissionario o sull’agente di commercio.

In questi casi la violazione di questi doveri generici viene a integrare una parallela violazione di norme più specifiche, deducendo l’inettitudine di essi a fondare regole integrative del contenuto degli obblighi negoziali.

Non mancano in giurisprudenza pronunce relative a casi di specie, fondate sulla singolare interpretazione delle regole di correttezza e buona fede, da conferire rilevanza alla tematica dell’ abusività della condotta del creditore quando la condotta di costui sia ispirata a recare un danno al debitore senza che al creditore stesso derivi un qualche vantaggio apprezzabile.

Addirittura ha sancito che l’ingiustificato rifiuto da parte del creditore di accettare quale strumento di pagamento anche un mero assegno bancario, può integrare condotta contraria ai doveri in parola.

Ancora non è stato deciso nel senso della contrarietà alle regole di correttezza e buona fede della condotta di una delle parti che abbia esercitato il diritto di recesso (pure spettantegli)  in relazione  a uno tra i contratti dedotti nell’ambito di una serie di pattuizioni collegate in quanto finalizzate a perseguire lo stesso scopo.

L’argomento è soprattutto delicato quando il recesso convenzionalmente stabilito sia praticabile ad nutum da parte di un contraente che, per la propria posizione, possa essere qualificato come dominante.

Il giudizio in relazione alle modalità di esercizio di un diritto, anche se riconosciuto contrattualmente a una delle parti di un contratto infatti non può non implicare da parte del giudice l’apprezzamento delle motivazioni soggettive, da collocarsi secondo lo schema della meritevolezza di tutela.

Altre volte il riferimento alla condotta del creditore come “abusiva” sembra di specie, potendo le conseguenze che si pretenderebbe di ricavarne derivare in modo molto più evidente da altre regole più nitide.

In questo contesto è stata ritenuta “abusiva” (e non conforme alla regola della correttezza a buona fede) la condotta della parte di un contratto che, facendo leva sull’inadempimento dell’obbligazione pecuniaria relativa alla corresponsione di un canone, abbia trasferito la risoluzione della locazione, essendo nel frattempo da considerarsi a propria volta debitrice del conduttore in relazione a un credito vantato da questo ma diventato sicuro (perché contestato antecedentemente) esclusivamente nel corso del giudizio.

Non è stata, al contrario, reputata abusiva la condotta del promissario acquirente che si sia rifiutato di addivenire all’atto traslativo della proprietà in difetto del preventivo (o contestuale) rilascio dell’assenso alla cancellazione dell’ipoteca gravante sull’immobile, al quale si era impegnato il promittente alienante.

Al contrario, è stata reputata contrastante con il principio in parola la condotta inerte dell’istituto bancario che ritardi il frazionamento del mutuo ipotecario nonostante i plurimi solleciti della società costruttrice, alla quale vanno pertanto risarciti i danni relativi.

Dott.ssa Concas Alessandra

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