La buona fede contrattuale, definizione e caratteri

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La buona fede (dal latino bona fides) comporta la convinzione genuina del soggetto di agire in modo corretto, cioè senza malizia e nel sostanziale rispetto delle regole (anche non scritte) e degli altri soggetti.

La buona fede implica l’assenza della consapevolezza del danno che eventualmente si sta procurando agli altri o del fatto che si sta contravvenendo a delle regole o che le si sta nei fatti aggirandole.

È possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto.

La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave.

La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto.

(ex art. 1147 c.c.)

La dottrina pone la distinzione tra due categorie autonome di buona fede:

buona fede soggettiva

Ignoranza di ledere una situazione giuridica altrui (ex art. 1147 c.c. Possesso di buona fede)

buona fede oggettiva (o correttezza)

E’ il dovere di correttezza e di reciproca lealtà di condotta nei rapporti tra i soggetti.

Consiste nello sforzo che ogni contraente deve compiere, senza che questo non comporti un apprezzabile sacrificio, in modo che l’altro contraente possa adempiere correttamente.

Si sostanzia nell’obbligo per i contraenti di mantenere un comportamento, oggettivamente ispirato a lealtà e correttezza, in tutti i momenti fisiologici dell’atto negoziale:

Nella fase delle trattative (art. 1337).

Esempio di mancanza di buona fede nelle trattative è l’improvvisa e immotivata rottura delle stesse quando la controparte aveva ormai motivo di credere che queste sarebbero giunte al termine. La violazione del dovere di buona fede comporta di regola l’obbligazione di risarcire il danno causato alla controparte.

Nella fase di esecuzione del contratto (ex art. 1375 c.c.)

Nella fase eventuale dell’interpretazione del contratto (ex art.1366 c.c.)

Ai sensi dell’articolo 1324 del codice civile, queste disposizioni si applicano ai negozi a contenuto patrimoniale tra vivi, è discussa in dottrina se la buona fede agisca esclusivamente dove sia espressamente richiamata dal Codice civile, oppure si possa rintracciare un obbligo per i consociati di comportarsi correttamente, la violazione del quale rilevi come responsabilità contrattuale.

Intesa come clausola di buona fede, che intercorre nell’intera disciplina codicistica, esplica in materia contrattuale il principio di solidarietà enucleato dall’articolo 2 della Costituzione.

Il principio di buona fede è ricorrente nella tradizione giuridica occidentale, secondo la quale i rapporti tra soggetti giuridici non devono essere fondati esclusivamente sulla paura della sanzione, ma anche sulla correttezza.

La buona fede corrisponde all’agire di un soggetto che non vuole ledere nessuno, né ha un minimo sospetto che il suo comportamento possa essere lesivo.

Il contrario di buona fede è malafede.

Nella disciplina del contratto la buona fede, intesa come reciproca lealtà di condotta e fondamentale canone di correttezza, viene più volte richiamata.

Alla luce di una serie di norme contenute nel Codice Civile, sembra evidente come le parti contraenti debbano comportarsi secondo buona fede in ogni fase del rapporto contrattuale:

Durante le trattative (ex art.1337 c.c.)

In pendenza di condizione sospensiva o risolutiva (ex art. 1358 c.c.)

Nell’esercizio dell’eccezione di inadempimento (ex art. 1360 c.c.)

Nell’esecuzione del contratto (ex art. 1375 c.c.)

La buona fede, secondo il dettato dell’articolo 1366 del codice civile svolge una funzione di interpretazione del contratto stesso.

Questo dovere di buona fede, inteso in senso oggettivo, si differenzia dalla buona fede soggettiva (che consiste nell’ignoranza non colposa della lesione dell’altrui diritto) e si pone come regola di comportamento relativo al principio di solidarietà sociale.

Essa costituisce un precetto rivolto ai singoli in qualità di regola di comportamento e al giudice in quanto modello di decisione, finalizzato a garantire il giusto equilibrio tra interessi opposti.

La buona fede è uno strumento che integra, limita e corregge il contenuto normativo dell’obbligazione.

Sembra evidente come l’indeterminatezza che ne caratterizza il contenuto faccia della buona fede una clausola del nostro ordinamento, con la funzione di tracciare delle direttive in grado di regolare un’ampia casistica, lasciando al giudice un notevole margine decisionale.

Il dovere generale di buona fede contrattuale ha l’importante funzione di colmare le inevitabili lacune legislative, esso stabilisce i metodi necessari per sopperire alle mancanze del sistema legislativo dovute alla molteplicità e alla varietà delle situazioni della vita sociale ed economica.

La buona fede contrattuale, in sostanza, viene oggi intesa come limite all’autonomia dei privati, come fonte di integrazione del contratto e come strumento di controllo del suo contenuto.

Secondo una sentenza della Suprema Corte di Cassazione, sezione civile, del 21/10/2013 n. 23873,

l’articolo 1337 del codice civile ha valore di clausola generale ed impone alle parti il dovere di trattare con lealtà astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e mettendo in condizioni da controparte di conoscere ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipula del contratto.

La violazione di questo obbligo di correttezza e buona fede durante le trattative e nella formazione del contratto assume rilevanza non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative ma anche se il contratto concluso pur risultando valido risulti pregiudizievole a chi è stato vittima del comportamento di malafede.

Secondo un’altra Sentenza della Corte di Cassazione, sezione civile, del 26/04/2012 n. 6526,

l’obbligo di lealtà reciproca imposto dall’articolo 1337 del codice civile comporta un dovere di completezza informativa sulla reale intenzione di concludere un contratto.

Un mutamento delle circostanze non può legittimare la reticenza  o la maliziosa omissione di informazioni rilevanti.

Sempre secondo la Corte di Cassazione, sezione civile, sentenza del 20/12/2011 n. 27648,

nelle ipotesi di responsabilità precontrattuale a norma dell’ articolo 1337 del codice civile, si può applicare l’articolo 1223 del codice civile, con la conseguenza che il risarcimento del danno dovrà comprendere sia la perdita subita che il mancato guadagno a patto che vi sia una relazione immediata e diretta con la lesione dell’affidamento e non del contratto.

Sotto questo profilo si ha diritto al risarcimento del danno emergente (come le spese sostenute) e del lucro cessante (come le occasioni di lavoro mancate).

Si deve  escludere la possibilità di ottenere il ristoro di quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso.

Dott.ssa Concas Alessandra

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