Il sistema carcerario italiano e argomenti relativi, intervista all’avvocato Marco Perra del Foro di Cagliari

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Avvocato Perra, quali sono le caratteristiche del sistema carcerario italiano?

 

Noi dobbiamo tenere ben presente che il sistema delle pene è stato improntato dal codice Rocco, un sistema che nasce durante l’epoca del regime fascista, improntato sulla pena detentiva, la pena detentiva alla detenzione, la pena detentiva dell’arresto, affiancato da pene pecuniarie.

La privazione della libertà personale veniva vista come la sanzione più grave da infliggere a una persona che violava le norme del codice, anche se poi dobbiamo fare i conti con la nostra Costituzione.

Dopo il codice Rocco nel 1948 è entrata in vigore la Costituzione dellaRepubblica Italiana, che ha introdotto una summa del nostro sistema, che è proprio il fine rieducativo della pena, e di conseguenza anche la pena detentiva deve avere un fine rieducativo.

A questo proposito, ricordo la prima volta che ho messo piede in carcere.

All’ingresso del carcere di Buon Cammino a Cagliari possiamo notare una targa che richiama l’articolo 27 della nostra Costituzione nel quale è stabilito questo sacro principio del fine rieducativo della pena, e dobbiamo sempre tenere presente che la pena deve essere un percorso per il condannato che lo riporti non a riparare il danno, deve essere un percorso finalizzato a rieducarlo.

Ultimamente ho notato che si tende a ritenere che le sanzioni pecuniarie siano più incisive sul condannato, forse nasce l’esigenza di fare cassa, un cambiamento di esigenza.

Prima l’esigenza era quella di punire, quella di rieducare, ultimamente l’esigenza è anche quella di guadagnare, e spesso assistiamo a depenalizzazioni, dove i reati venivano puniti con pene detentive, pene pecuniarie congiunte, si è passati a scegliere esclusivamente la pena pecuniaria, dimenticando quello che è il fine rieducativo della pena, anche perché non sempre pagare di tasca propria ritengo sia un percorso migliore per poter rieducare il condannato.

 

Quale è il percorso carcerario, delle misure cautelari sino al giudizio, che succede in Italia?

 

Nel rispondere a questa domanda, ricorderei il discorso del primo presidente della Corte Costituzionale durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, che ha parlato dell’abuso della custodia cautelare.

In Italia, anche se di recente sono stati fatti grossi passi in avanti, c’è di sicuro un massiccio utilizzo della misura cautelare più estrema, nonostante varie volte la giurisprudenza si è espressa nel senso che la misura cautelare deve essere una extrema ratio, l’unica misura che possa paralizzare gli effetti immediati di un reato, pericoli di fuga, pericoli di reiterazione.

Una grossa fetta di detenuti si ritrova ristretta in carcere in attesa di un giudizio.

Può essere un primo giudizio oppure un giudizio di secondo o di terzo grado.

In riferimento ai tempi della nostra giustizia, l’attesa per un detenutopuò essere lunga, anche se sono stati fatti dei passi avanti da questo punto di vista, perché sono stati posti diversi limiti all’utilizzo della custodia cautelare in carcere.

Il nostro codice prevede un’altra serie di misure cautelari che possono sostituire bene l’extrema ratio della custodia cautelare in carcere.

Ci sono gli arresti domiciliari, c’è l’obbligo del divieto di dimora, c’è l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, che a seconda del personaggio, del reo che ci troviamo davanti, e secondo il reato commesso, sono misure molto più efficaci per poter iniziare il percorso di rieducazione, intraprendere questo lungo percorso che potrebbe sfociare in un’esecuzione definitiva della pena.

Accanto a questa serie di persone, imputati o indagati, abbiamo i condannati, che sono coloro che si trovano a dovere scontare una sentenza definitiva, un titolo definitivo, hanno percorso i gradi del giudizio e si trovano davanti a una pena detentiva.

Si deve intraprendere questo percorso per cercare di trovare una via di fuga da quella che sarebbe la pena detentiva che è la regola, perché spesso, forse un po’ influenzati dai telefilm americani, da quello che si vede in televisione, si pensa che finire in carcere sia un’eccezione.

La realtà è che bisogna regionare nel senso che la pena detentiva spesso è la regola, e abbiamo una serie di possibilità per potere intraprendere un diverso percorso rieducativo.

Il nostro codice, anche con le ultime riforme che hanno sancito grossi passi avanti, ci consente di ottenere una sospensione di questi titoli.

La procura che cura l’esecuzione di queste pene notifica un avviso all’imputato dicendo:

“Se entro trenta giorni ci fai un’istanza che possa evitare la restrizione in carcere, dobbiamo mettere in esecuzione, continuare il nostro percorso, e il rischio è quello di una detenzione carceraria”.

A questo punto noi avvocati dobbiamo compiere una serie di corse, colloqui con i nostri assistiti, vediamo il loro panico, siamo costretti in trenta giorni a preparare queste istanze che consentono un’esecuzione alternativa, sono istanze che possono essere di affidamento cosiddetto lavorativo, opportunità lavorative presso determinati enti che consente al condannato di scontare la pena svolgendo determinate attività lavorative, o possiamo optare per una detenzione domiciliare, per i tossicodipendenti o alcol dipendenti ultimamente anche chi dipende dal gioco, per delle istanze ex articolo 94 del d.p.r. 309 del 90 sulle tossicodipendenze, abbiamo un affidamento in prova dal servizio dipendenze, e il condannato sarà seguito per questa sua patologia di dipendenza dal Serd.

Il periodo che avrebbe dovuto scontare in detenzione carceraria lo sconterà affidandosi al Serd.

Un percorso in comunità per un soggetto del genere, è molto più rieducativo.

Su queste misure alternative si è fatto un grosso passo avanti nell’ultimo periodo.

In precedenza, per esempio, chi era recidivo, chi aveva commesso più reati nel corso della propria carriera, aveva le strade sbarrate, perché non aveva diritto alla sospensione per le ragioni che dicevo prima.

Questo sbarramento è stato abolito, e il sistema approntato sull’esempio anglosassone, iniziato in Italia negli anni 70, ci consente di far sì che il condannato si possa rieducare e possa finalmente essere reintrodotto nell’ambiente esterno per potere magari trovare un’opportunità lavorativa.

Spesso capita che i servizi sociali riescano a capire la situazione della persona, riescano a capire le capacità, le esigenze, e spesso si possono trovare opportunità lavorative durante l’esecuzione della pena, sono opportunità lavorative che si allungano nel tempo, negli anni si può recuperare una situazione economico sociale che prima era disastrata.

 

In questo periodo si sta parlando molto di misure alternative, abbassamento delle pene, che ci può dire in riferimento a questi temi attuali?

 

Mentre prima c’erano grossi sbarramenti sui limiti di pena che dovevano essere scontati, che potevano essere scontati misura alternativa, sono stati aumentati i limiti di pena che erano concessi dal codice.

Sono state aumentate le possibilità, perché prima oltre che la questione della recidiva, c’era anche la questione del limite di volte alle quali una persona poteva accedere alle misure alternative.

Ultimamente è stato abrogato questo limite, si può accedere alla misura alternativa anche se si è beneficiato in passato.

Non sono regole oggettive valide sempre, c’è un giudice di sorveglianza che valuta la persona che ha davanti, il suo passato.

Come divevo prima, la pena detentiva è la regola, questi sono benefici ai quali una persona accede. C’è un vaglio del tribunale di sorveglianza, la possibilità di accedervi subito o in via provvisoria, la cosiddetta legge Simeone, che adesso è stata ampliata, e le possibilità per potervi accedere.

Un detenuto può accedere immediatamente sulla base di un filtro compiuto dal magistrato di sorveglianza, si è fatto un grosso passo in avanti, dovuto più a esigenze politiche, nel senso che l’Unione Europea ci tira le orecchie molte volte perché le nostre carceri sono stracolme, le condizioni sono quelle che sono.

Non escluderei che se non si dovesse far fronte a queste esigenze, con queste ulteriori aperture alle misure alternative, la soluzione finale potrebbe essere quella di amnistia o di indulto, questo ampliamento non è frutto della nostra cultura, ma è frutto di un adeguamento a quelle che sono le esigenze che vengono dall’alto.

 

Si parla spesso della situazione delle detenute madri, di recente anche in Sardegna sono sorti Istituti specifici, da un addetto ai lavori vorremmo sapere di che si tratta nello specifico.

 

Questa è una questione molto delicata e da me molto sentita.

Oltre alla situazione delle detenute madri, aggiungerei quella dei detenuti padri, perché anche il diritto alla paternità deve essere sempre riconosciuto.

Si è posta la questione di come potere inserire in un percorso rieducativo di una madre detenuta il rapporto con il proprio figlio minorenne, con il figlio piccolo, e sempre in relazione alla situazione delle nostre carceri, è nata ll’idea di sperimentare delle apposite strutture, le cosiddette ICAM, che potessero soddisfare le esigenze delle madri detenute, facendo trascorrere alla madre e al bambino delle giornate che li mettessero a contatto senza privare della genitorialità la madre, del rapporto con la madre e il bambino.

Sono stati sperimentati questi istituti ICAM nella Penisola, e di recente ne è stato aperto uno anche in Sardegna, a Senorbì, finalizzato a potere accogliere le mamme con i propri bambini.

A questo proposito, vorrei raccontare un aneddoto che mi ha colpito molto, anche per fare capire l’importanza di avere questo tipo di strutture.

Si riferisce a una madre che mi raccontava una volta cessata la propria esperienza carceraria, che il proprio bambino non si addormentava prima di avere sentito i click delle chiavi del blindo della cella.

Mi ha colpito molto questa riflessione.

Se si pensa ai bambini che per dormire hanno bisogno dell’affetto materno, di qualche giochino, questo bambino aveva bisogno di ricordare questo click del blindo che gli potesse addirittura conciliare il sonno, perché non possano più succedere questo tipo di situazioni, ritengo che questo sia un grosso passo avanti del nostro Paese.

 

Ci può parlare del rapporto tra il legale e il detenuto?

 

Per l’assistito in detenzione l’attenzione è di sicuro particolare.

Lui vive una situazione di privazione di libertà personale, la soffre e la soffrono i parenti.

Noi stiamo in mezzo a questo rapporto che si deve gestire con il detenuto e i suoi parenti.

Spesso, soprattutto per chi ha il divieto di colloquio, ci troviamo a essere l’unica persona che possa rispondere alle loro domande, è un rapporto di sicuro particolare, e non nascondo che in alcuni casi ci si può anche affezionare, anche se spesso è bene restare un pochino distaccati.

Ci sono quelle situazioni nelle quali non puoi fare a meno di dare una parola in più di conforto.

Il rapporto con i detenuti a volte può essere un rapporto o abbastanza difficile, perché con i tempi della giustizia i nostri assistiti non si capacitano, non si rendono conto del motivo per il quale sono privati della libertà personale, e ancora non hanno un provvedimento che possa accogliere l’istanza sulla revoca di una misura cautelare.

Noi spesso dobbiamo fare pazientare il detenuto, deve capire che lo attende un percorso importante, un percorso decisivo che lo deve portare a uscire dal carcere, non nascondo che spesso siamo le uniche persone che i detenuti vedono, perché sono persone che non hanno nessuno, persone che hanno parenti lontani, vedere l’avvocato che va a trovarli in carcere, è un’occasione di sfogo, si confortano.

Alla fine del colloquio quando il detenuto dice “grazie avvocato di essere venuto”, “quando ritorna a trovarmi?”

Qui si va al di là della stretta professione, ci si sente oltre che avvocati persone di fiducia, non dal punto di vista lavorativo ma anche da un punto di vista personale.

Sono quelle situazioni estreme che ci portano a dovere staccarci da quella che è la nostra rigida professionalità.

 

Se ne parla molto, è un argomento molto attuale e importante, il principio della presunzione d’innocenza sancito anche dalla nostra Costituzione, che però forse a volte viene un po’ disatteso e trascurato, ce ne può parlare?

 

Questa è una domanda molto bella.

La presunzione d’innocenza, la summa del nostro sistema, una conquista italiana della quale siamo orgogliosi.

Un principio straordinario della presunzione d’innocenza che purtroppo però mi si consenta, oggi è diventata una presunzione di colpevolezza, è stato un principio conquistato da noi italiani che stiamo ribaltando.

Come al solito da autolesionisti, le cose buone che facciamo le disfiamo nell’istante successivo.

Purtroppo mi accorgo che spesso durante il processo, durante l’udienza, che siamo noi a dovere

dimostrare, a dovere provare l’estraneità ai fatti, dove dovrebbe essere la pubblica accusa a dovere provare la colpevolezza dell’imputato, del nostro assistito.

A volte capita che i ruoli si possano invertire, con poteri che la difesa non ha nei confronti di un’accusa che ha a disposizione una serie di apparati che spossono aiutare o agevolare nel dimostrare la colpevolezza di una persona.

Mi auguro che ci sia sempre una particolare attenzione a doversi trovare davanti a una persona che si deve considerare imputato, un presunto innocente.

Possiamo arrivare a una condanna, però prima abbiamo di fronte una persona libera come noi, una persona che si trova davanti a quello che è e il supplizio peggiore, privarsi della libertà personale nell’attesa di un giudizio, giudichiamolo bene, nelle forme che il nostro sistema prevede, non con la nostra coscienza di cittadini, giudichiamolo con la nostra coscienza garantista, per questo lotterò sempre, combatterò sempre per il principio sulla presunzione d’innocenza che è un argomento sacro che il nostro ordinamento deve mantenere.

 

Quali sono le prospettive, le speranze diciamo così tra virgolette, del sistema carcerario italiano?

 

A mio avviso le speranze di potere riuscire a rivedere il sistema carcerario devono essere dettate dalla nostra identità e dalla nostra coscienza garantista, dai nostri principi democratici, senza che nessuno in Europa ce lo imponga.

Siamo un Paese che è stato sempre all’avanguardia per i diritti degli imputati e per i diritti dei detenuti, non ci dobbiamo rovinare, e questo significa dovere rafforzare il sistema di misure alternative, prevedere un percorso più soggettivo per i condannati, un percorso dove il condannato venga seguito di più da quelle persone che orbitano intorno ai sistemi di misura alternativa.

Rafforziamo queste misure alternative alla detenzione, rafforziamo l’assistenza alle famiglie, perché spesso finisce in carcere la persona disagiata socialmente, la persona che non trova lavoro, la persona che si trova costretta a dovere commettere reati contro il patrimonio, puniti abbastanza duramente, anche questo retaggio del nostro regime che vedeva peggio quello che era l’aggressione al patrimonio che non l’aggressione alla libertà fisica individuale.

Noi dobbiamo assolutamente cercare di seguire queste persone dall’inizio alla fine del percorso detentivo, ma anche successivamente, non abbandoniamo queste persone perché sono persone che rischiano immediatamente dopo di ricadere nell’errore, cerchiamo di fornire il maggiore supporto da parte delle istituzioni, che creino opportunità da quando la persona è in misura alternativa, cerchiamo di offrirgli uno sbocco che sia utile anche dopo cessato il periodo di detenzione, di seguire quelle persone che purtroppo cadono nel male della tossicodipendenza, non diamo il contentino, è finito la detenzione a posto arrivederci e grazie, no, dobbiamo continuare a cercare a stare attenti, a prestare particolare attenzione a queste persone cerchiamo anche di guardarci oltre, di aumentare la possibilità di altre attività che possono portare ad evitare la detenzione.

Mi viene in mente l’istituto della messa alla prova, un’ottima conquista.

Mi chiedo perché sia stato sperimentato positivamente per il processo per i minorenni, quando potrebbe essere uno strumento utile anche per i cosiddetti maggiorenni, perché questa distinzione? Perché ce l’ha detto l’Europa.

Noi dobbiamo davvero pensare al detenuto, dobbiamo pensare alla sua detenzione.

Si deve evitare che si possa cadere nel baratro e commettere l’errore di andare a violare il codice esclusivamente perché non si hanno opportunità lavorative e non si sa come portare avanti la famiglia, questo non deve più succedere, diamo strumenti per potere davvero dare una realità al principio del grado di rieducazione della pena.

Dott.ssa Concas Alessandra

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