Il regime di sorveglianza particolare

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In Italia, l’ordinamento penitenziario è regolato dalla legge 26 luglio 1975 n. 354, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” e successive modifiche.

Gli articoli 14 bis, ter e quater della legge 354/75 disciplinano il regime speciale della sorveglianza particolare.

Il regime di sorveglianza particolare prevede restrizioni al trattamento e ai diritti dei detenuti ritenuti pericolosi per la sicurezza penitenziaria.
In base all’articolo 14 bis possono essere sottoposti a regime di sorveglianza particolare per un periodo non superiore a sei mesi, che può essere prorogato più volte, ma ogni volta in misura non superiore a tre mesi, i detenuti che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza negli istituti penitenziari, quelli che con la violenza o le intimidazioni impediscono le attività degli altri detenuti, quelli che nella vita penitenziaria mettono in stato di soggezione altri detenuti.

Si può essere sottoposti a regime di sorveglianza particolare, sino dal momento dell’ingresso in istituto, sulla base di precedenti comportamenti tenuti in istituti penitenziari o di comportamenti tenuti in stato di libertà.

L’autorità giudiziaria fa una segnalazione all’amministrazione penitenziaria che decide in relazione all’adozione di provvedimenti, e in caso di necessità e urgenza  può disporre in via provvisoria la sorveglianza particolare prima dei pareri prescritti, che devono essere acquisiti entro dieci giorni dal provvedimento. Scaduto questo termine l’amministrazione, acquisiti i pareri prescritti, decide entro dieci giorni in via definitiva, se questi trascorrono senza che vi sia una decisione c’è il decadimento del provvedimento provvisorio.

In base all’articolo 14 ter può essere presentato da colui che è sottoposto a regime di sorveglianza particolare un reclamo al tribunale di sorveglianza entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento definitivo.

Il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento, il tribunale di sorveglianza provvede a una decisione entro dieci giorni dalla ricezione dello stesso.

In base all’articolo14 quater il regime di sorveglianza particolare comporta restrizioni, necessarie per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, all’esercizio dei diritti dei detenuti e alle regole di trattamento previste dall’ordinamento penitenziario.

Le restrizioni non possono essere relative all’igiene e le esigenze della salute, il vitto, il vestiario e il corredo, il possesso, l’acquisto e la ricezione di generi e oggetti permessi dal regolamento della struttura, nei limiti nei quali non comporti pericolo per la sicurezza, la lettura di libri e periodici, le pratiche di culto, l’utilizzo di apparecchi radio del tipo consentito, la permanenza all’aperto per almeno due ore al giorno, salve le disposizioni dell’articolo 10, i colloqui con i difensori, quelli con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli.

Se il regime di sorveglianza particolare non si può attuare nell’istituto dove si trova il detenuto, l’amministrazione penitenziaria può disporre, con un provvedimento motivato, il trasferimento in un altro istituto idoneo dandone immediato avviso al magistrato di sorveglianza.

La legge 10 ottobre 1986 n. 663, la legge Gozzini, colloca la disciplina della sorveglianza particolare nel capo III dell’Ordinamento Penitenziario, dedicato alle “modalità di trattamento”. Questo per evidenziare che quello che si introduce con gli articoli 14 bis, ter, quater è una forma di individualizzazione del trattamento basata sulla personalità del soggetto e sulla sua pericolosità. Con questa collocazione si è voluto sottolineare il suo carattere non punitivo, ma preventivo e cautelare, diretto a salvaguardare l’ordine e la sicurezza in carcere.

I presupposti del regime penitenziario della sorveglianza particolare vengono definiti dall’articolo 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario, che al comma 1 stabilisce che possono essere sottoposti a regime di sorveglianza per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche più volte in misura non superiore a tre mesi, i condannati e gli internati e gli imputati:che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l’ordine negli istituti che con la violenza impediscono le attività degli altri detenuti o internatiche nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti.

Si può evidenziare che tra le modifiche introdotte dalla novella del 1986, c’è il tentativo di fissare legislativamente i presupposti oggettivi del regime penitenziario di sorveglianza particolare, ma l’elencazione dei comportamenti dei soggetti che giustificano la sottoposizione a questo regime presenta, a seconda dei lati di elencazione, un diverso grado di precisione.

Questo aspetto è particolarmente importante se si considera che, da un lato, competente a emanare il provvedimento è l’amministrazione penitenziaria, dall’altro, è previsto un controllo giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento, che troverà nei presupposti applicativi un primo parametro di riferimento. 

In relazione ai presupposti applicativi del regime di sorveglianza particolare si possono individuare due ipotesi:

Quella ordinaria, prevista al comma 1 dell’articolo 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario, è relativa alle ipotesi nelle quali il soggetto passi dal regime penitenziario ordinario a quello speciale permanendo nello stesso istituto.

Quella speciale, prevista al comma 5 dell’articolo 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario., relativa alle ipotesi nelle quali il soggetto provenga da un istituto diverso o dalla libertà.

I comportamenti del soggetto per giustificare il regime di sorveglianza speciale, devono presentare una determinata reiterazione in modo da escludere l’occasionalità e l’episodicità delle condotte turbative dell’ordine e della sicurezza.

Lo stesso legislatore nell’utilizzo del plurale, per indicare i presupposti di questo regime penitenziario, evidenzia la volontà di punire non singoli episodi della condotta del soggetto, ma la loro reiterazione.

I comportamenti punibili secondo l’articolo, sono quelli capaci di incidere con una certa estensione sulla regolarità della vita del carcere, perché impediscono il rispetto delle regole da parte degli altri detenuti, cioè si concretizzano in episodi di istigazione o sobillazione a violare le regole penitenziarie, oppure perché rilevano una incapacità del soggetto di adeguarsi alla vita del carcere.

Questa interpretazione è conforme anche alla ratio della norma, cioè disporre un regime più gravoso di detenzione per quei soggetti davvero pericolosi, non un regime punitivo per singoli episodi di turbativa, questi potevano essere contenuti con il regime disciplinare previsto dall’ordinamento penitenziario.

Alla lettera a) del comma 1 la fattispecie è formulata senza la descrizione dei comportamenti punibili, attraverso la descrizione dei risultati offensivi, si parla “di comportamenti che compromettono la sicurezza, ovvero turbano l’ordine degli istituti”.

Con la parola “ordine” si intende lo svolgimento della normale vita quotidiana dell’istituto di pena, nei suoi aspetti, in conformità non esclusivamente con il regolamento penitenziario e con il regolamento di esecuzione, ma anche con il regolamento del carcere e con le direttive e gli ordini dell’autorità penitenziaria.

La parola “sicurezza” è relativa sia all’incolumità dei soggetti che vivono o lavorano in carcere, sia all’integrità degli oggetti materiali di loro pertinenza, sia all’interesse dell’esecuzione della sanzione detentiva, pregiudicato dagli episodi di evasione, ma anche da quello che possa sopprimere il carattere “segregante” del carcere.

La condotta descritta alla lettera a), come sottolineato, non descrive precisi comportamenti, ma è relativa alle conseguenze di determinate condotte.

Secondo alcuni autori si può definire “relativamente indeterminata”, cioè suscettibile di larga applicazione, ma si riconosce a questa disposizione anche “una funzione sussidiaria” rispetto agli altri comportamenti descritti dal comma 1 dell’articolo 14 bis.

L’indeterminatezza di questa disposizione comporta il rischio che la sorveglianza particolare venga utilizzata in aggiunta al regime disciplinare, e alcune condotte integranti una infrazione disciplinare si possono facilmente ricondurre anche ai comportamenti indicati dalla lettera a) dell’articolo 14 bis. Questa ipotesi contrasta con la ratio della legge 663/86, perché il regime della sorveglianza particolare dovrebbe essere utilizzato come ipotesi eccezionale, quando il regime disciplinare risulti inefficace, avendo come conseguenza, un annullamento del regime disciplinare e un eccessivo ricorso a un regime particolare di detenzione anche esclusivamente per contenere i rischi di gestione degli istituti.

I comportamenti descritti alla lettera b) dell’articolo 14 bis, sono molto più determinati.

Si fa riferimento all’utilizzo della violenza per impedire le attività degli altri detenuti o internati.

La previsione ha una portata delimitata ed è relativa al profilo della sicurezza del carcere.

Anche per questa previsione, come per la precedente, quello che rileva non è la singola condotta, ma la sua reiterazione, in modo da mettere in evidenza una incompatibilità del soggetto sia con l’ambiente di reclusione sia con le regole in esso vigenti.

L’ipotesi delineata alla lettera c), è relativa ai comportamenti di quei soggetti che “nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti”, si tratta di un profilo psicologico di difficile accertamento, questo inciso mira a colpire degli atteggiamenti molto diffusi nell’ambiente del carcere.

Lo stato di soggezione difficilmente può essere oggetto di una manifestazione diretta, si può ricavare dai comportamenti degli altri detenuti che subiscono queste condotte.

Secondo l’interpretazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione, per questa condizione di soggezione “il legislatore richiede la sussistenza di questa situazione, e non sono sufficienti generiche affermazioni di pericolosità fondate sui reati dei quali il detenuto è stato riconosciuto colpevole o per i quali si procede nei suoi confronti, che sono relativi a una più completa comprensione della pericolosità, e non possono assumere rilevanza decisiva ai fini dell’adozione del regime di sorveglianza particolare”.

A questa interpretazione si contrappongono altre decisioni giurisprudenziali della stessa Corte, condivise anche da una parte della dottrina che, al contrario, introducono il concetto di “pericolosità penitenziaria”.

La “pericolosità penitenziaria” è un’espressione utilizzata dalla Corte di Cassazione per definire la condotta del soggetto legato a una valutazione di fatto dei suoi comportamenti che possono pregiudicare l’ordine e la sicurezza del carcere, ma che sono relativi anche al percorso criminale del detenuto, tenendo in considerazione i reati commessi o episodi che gli siano stati imputati in precedenti carcerazioni.

Secondo la giurisprudenza della Cassazione la “pericolosità penitenziaria” deve avere in ogni caso il carattere dell’attualità, esclusivamente una capacità di turbativa e una pericolosità presente possono compromettere e turbare la sicurezza e l’ordine negli istituti, cioè impedire le ordinate attività e fare avvalere lo stato di soggezione di altri detenuti.

La pericolosità presente e attuale va distinta dalla sua esteriorizzazione, quello che rileva ai fini del provvedimento del quale all’articolo 14 bis è una complessità di giudizio della personalità del detenuto che può fare riferimento a fatti anteriori e pregressi, dovendosi valutare una certa capacità e possibilità di comportamento del soggetto.

Altre ipotesi che legittimano l’adozione del provvedimento del regime di sorveglianza particolare, sono quelle descritte al comma 5 dell’articolo 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario.

Questa disposizione risulta molto indeterminata perché non prevede comportamenti relativi allo stato di detenzione, ma a condotte che possono essere relative a precedenti carcerazioni o tenute nello stato di libertà, indipendentemente dall’imputazione, e consente l’applicazione del particolare regime detentivo dall’ingresso nell’istituto penitenziario.

Il successivo inciso, del comma 5, mira a colpire con la sorveglianza particolare i comportamenti tenuti dal soggetto quando si trova nello stato di libertà, “indipendentemente dalla natura dell’imputazione”, anche quelle condotte, che nonostante non costituiscano reato, sono ritenute particolarmente significative ai fini dell’ordine e della sicurezza penitenziaria.

L’ amministrazione penitenziaria gode di un ambito discrezionale molto ampio nel decidere quali siano i comportamenti, tenuti in libertà, che possono influire sulla decisione di sottoporre il soggetto al particolare regime detentivo.

Non fare dipendere questa valutazione dalla natura del reato, di sicuro serve a non creare nessun collegamento tra il regime di detenzione e l’imputazione, ma l’indeterminatezza della disposizione rischia di colpire condotte o rapporti personali che solo presumibilmente costituiscono un pericolo per l’ordine e la sicurezza penitenziaria.

La previsione del comma 5 dell’articolo  14 bis ha comportato diversi inconvenienti, soprattutto nei confronti di quei detenuti sottoposti a un particolare regime detentivo a noma dell’articolo 90 dell’Ordinamento Penitenziario.

Si era diffusa una prassi amministrativa secondo la quale questi detenuti, ritenuti presuntivamente pericolosi, venivano sottoposti al regime di sorveglianza particolare, basandosi proprio sul loro trascorso penitenziario o su alcune condotte tenute durate lo stato di libertà.

Un chiarimento su queste situazioni è stato dato dalla giurisprudenza dei Tribunali di Sorveglianza, che ha sottolineato l’esigenza che i comportamenti sanzionati con il particolare regime detentivo, debbano essere concretamente lesivi dell’ordine e della sicurezza.

L’amministrazione penitenziaria deve sempre valutare l’evoluzione della personalità del soggetto, non potendo basare la sua decisione esclusivamente su comportamenti passati del detenuto stesso.

Dott.ssa Concas Alessandra

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