Il reato di violenza domestica, Intervista con Angelica Piras, autrice del libro “Regina delle ombre, in asulu bisendi”

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La violenza domestica è il comportamento di abuso di uno o entrambi i compagni in una relazione intima di coppia, come il matrimonio e la coabitazione.

Si estrinseca in molte forme, come abusi sessuali, aggressione fisica, pericoli di aggressione, intimidazione, controllo, stalking, violenza psicologica, trascuratezza, deprivazione economica.

Questi comportamenti possono costituire reato a seconda della locale legislazione e della loro gravità.

Negli anni settanta il movimento femminista richiamò l’attenzione sul fenomeno delle donne picchiate dai loro partner.

La visione si è estesa a includere tra le vittime di violenza domestica le donne non sposate ma coabitanti e gli uomini vittima di violenze da parte delle loro mogli o compagne.

Come qualsiasi aggregato umano, anche la famiglia può diventare un teatro dove determinate tensioni, delle quali ogni singolo individuo è portatore, possono trovare sfogo, dando luogo a volte a degli atti di natura delittuosa.

In questi casi la violenza in famiglia si può trasformare da un fenomeno puramente sociologico, inteso come risvolto della normale conflittualità di coppia, in un fenomeno penalmente rilevante.

Le fattispecie penali che possono essere integrate dalla condotta violenta di uno dei membri della famiglia sono molte, i reati contro l’onore (ingiuria e diffamazione), contro la libertà morale (violenza privata e pericolo), contro la libertà fisica (sequestro di persona), contro la vita e l’incolumità (omicidio doloso, preterintenzionale e colposo, percosse e lesioni personali), contro la libertà sessuale (violenza sessuale), contro la famiglia (maltrattamenti, abuso di mezzi di correzione, violazione degli obblighi di assistenza familiare), contro la morale familiare (incesto), e i reati di omissione (abbandono di minori o di incapaci).

Esistono fattispecie di reato che possono essere integrate in qualunque tessuto sociale, familiare oppure no, e altre che si possono realizzare esclusivamente in quello familiare, cioè esclusivamente tra soggetti che abbiano tra di loro una relazione di parentela, di coniugio o di convivenza.

A questo fine può essere utile chiarire la nozione di famiglia espressa nel codice penale, rispetto a quella che emerge dal codice civile.

Il codice penale, elaborato degli anni ’30, non si poteva che riferire alla famiglia formale fondata sul matrimonio.

Gli articoli del codice penale, riferendosi alla “famiglia”, al “minore”, al “genitore” e al “tutore”, fanno senz’altro proprie le nozioni del codice civile.

I richiami fatti nel codice penale sono di tipo formale, come si può dedurre anche dalla modifica dell’istituto della patria potestà, avvenuta con la riforma del diritto di famiglia, introdotta nel codice civile con legge del maggio 1975.

La patria potestà, mutata nella potestà genitoriale, era immediatamente applicabile anche per la normativa penalistica, anche se questa la recepì concretamente con legge del novembre 1981.

Lo stesso avvenne a proposito della modifica della minore età dai ventuno anni ai diciotto, introdotta nel codice civile con legge nel marzo 1975.

I soggetti coinvolti nei reati perpetrati nell’ambito familiare, sono i coniugi, i conviventi e i minori.

Nessun dubbio si solleva in merito al fatto che il codice penale preveda reati specifici commessi dai coniugi e riconosca una particolare tutela al coniuge che ne sia vittima.

I coniugi possono sempre essere soggetti attivi e passivi di reati propri (come, ad esempio, la bigamia ex art. 556 c.p.), o di reati comuni (come, ad esempio, l’omicidio, le lesioni o le percosse). È anche prevista l’applicazione di pene accessorie o di aggravanti, legate alla specifica posizione di coniuge.

Il concetto base di famiglia per il codice penale è quello che scaturisce dal matrimonio avente effetti civili.

Una posizione giuridica soggettiva particolare è quella dei coniugi e dei genitori.

Ad esempio, nel reato di sottrazione consensuale di minorenne ex articolo 573 del codice penale, o di sottrazione di minore o incapace ex articolo 574 del codice penale, possono essere soggetti passivi esclusivamente i genitori.

I conviventi possono essere soggetti attivi di molti reati previsti nel codice penale, salvo quelli per i quali è richiesta la particolare qualifica di coniuge.

Le norme penali disposte per i componenti della famiglia legittima non si possono applicare alla convivenza, nei casi nei quali le stesse abbiano direttamente in oggetto il rapporto di coniugio, perché è proprio questo elemento giuridico a mancare.

Ad esempio, non si potrà applicare ai conviventi il reato di bigamia ex articolo 556 del codice penale, che si applica a colui il quale, essendo legato da un matrimonio avente effetti civili, ne contragga un altro avente effetti civili.

Al contrario, le norme penali si possono applicare quando la relazione familiare diventa il semplice presupposto di situazioni giuridicamente rilevanti che si fondano su un rapporto intimo, ancorché non formalizzato, nella quale si  può consumare un’offesa alla persona.

I conviventi possono essere soggetti passivi del reato.

La possibile estensione della tutela penale, prevista nella stessa misura per i coniugi, alla famiglia di fatto, e ai conviventi, deve essere però valutata per ciascun reato.

Di recente, in alcuni casi, ci si è allontanati dalla impostazione restrittiva originaria, allargando anche alla famiglia di fatto le fattispecie un tempo applicabili esclusivamente alla famiglia fondata sul matrimonio.

Agli inizi, buona parte della dottrina rifiutava di riconoscere spazio applicativo alla convivenza more uxorio in materia penale, sulla base dell’assunto secondo il quale il nostro ordinamento penale ha inteso tutelare alcuni valori che non consentono un’equiparazione fra convivenza di fatto e famiglia fondata sul matrimonio.

Negli ultimi anni, si è preferito dare un’interpretazione allargata del concetto di famiglia, partendo dall’assunto dell’eterogenea costruzione sistematica del Titolo XI del codice penale, che non consente di arrivare a una soluzione univoca per qualunque fattispecie.

Secondo questa interpretazione, la nozione di famiglia assume, nelle norme penalistiche, varie sfaccettature, a seconda degli interessi che ciascuna norma intende tutelare.

La famiglia non è tutelata in modo diretto, ma esclusivamente in modo mediato, perché non rappresenta mai l’oggetto giuridico tutelato direttamente dalla norma.

Nonostante il codice penale dia larga considerazione alla parentela naturale, equiparandola per alcuni effetti (ex art. 540 c.p.) a quella legittima, in questo modo precorrendo l’articolo 30 comma 3 della Costituzione, la convivenza more uxorio non trova esplicito riconoscimento nello stesso codice, né in relazione alla persona convivente, né come nucleo autonomo.

Il primo formale riconoscimento di questa figura parafamiliare nel sistema penale si rinviene nel codice di procedura penale, che all’articolo 199 comma 1 lett. a) equipara il convivente di fatto (attuale o passato) ai prossimi congiunti nella facoltà di astenersi dal testimoniare.

Si riconosce l’esistenza di una sfera di interessi umani che possono non dipendere da un rapporto formale con l’imputato.

Nello stesso senso si era mosso l’articolo 35 del regolamento penitenziario, introdotto con D.P.R. del 29 aprile 1974, n. 431, che concede un trattamento paritario tra congiunti e persone conviventi in materia di colloqui dei condannati.

Si ritiene che nell’aggravante dell’articolo 61, n. 11 del  codice penale, che consiste nell’avere commesso il reato con abuso delle relazioni domestiche, si possano comprendersi anche i rapporti di convivenza more uxorio.

Nella stessa direzione sembra si muova la legge n. 66 del 1996 sulla violenza sessuale, che attribuisce rilevanza alle relazioni di convivenza, sia al fine di qualificare presunta la violenza compiuta ai danni di un minore (ex art. 609 quater c.p. “… altra persona che … abbia … una relazione di convivenza …”), sia ai fini della procedibilità d’ufficio (ex art. 609 septies c.p. “… se il fatto è commesso da genitore anche adottivo o dal di lui convivente …”).

Un altro passo in avanti si è avuto con la legge del 5 aprile 2001 n. 154, che ha introdotto l’articolo 282 bis del codice di procedura penale, il quale stabilisce che la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare può essere imposta, oltre che ai membri della famiglia, anche ai prossimi congiunti e ai membri conviventi.

La frammentarietà di questi esempi non consente di postulare una sostanziale equiparazione dei due modelli familiari a livello penalistico. L’equiparazione porterebbe anche a conseguenze in malam partem.

Ad esempio, nel caso dell’articolo 570 del codice penale, si penalizzerebbe la situazione di allontanamento volontario ingiustificato di un convivente more uxorio, laddove proprio nel rifiuto del “contratto” matrimoniale le parti esprimono la volontà di non sottostare a determinati vincoli tipici della famiglia formale.

Più volte la Corte costituzionale ha ribadito l’impossibilità di invocare l’articolo 29 della Costituzione per tutelare le unioni di fatto, nonostante il riconoscimento della comunanza dei legami di solidarietà per entrambi i tipi di famiglia.

Sembra che le azioni sporadiche e frammentarie del legislatore, attraverso l’introduzione di altri articoli, o l’interpretazione estensiva della giurisprudenza, si fondino nel fatto che anche a colui che rifiuta di volere assumere lo status di coniuge debba essere assicurata un’adeguata tutela dei valori della persona, che si esprimono allo stesso modo nella convivenza di fatto.

Anche i minori possono essere soggetti attivi o passivi di reati perpetrati nell’ambito familiare.

Il sistema penale italiano dedica un’attenzione particolare al minore, anche se con una terminologia non sempre univoca.

A volte ci si riferisce al minore di quattordici, di sedici o di diciotto anni, altre all’incapace, e altre volte ancora a persona che non ha compiuto gli anni dieci, quattordici o sedici anni.

Nell’eventualità che il minore sia soggetto attivo, si devono esaminare gli articoli 97 e 98 del codice penale, al fine di valutare l’imputabilità a seconda dell’età.

Secondo l’articolo 97 del codice penale, “minore di anni quattordici”, non c’è imputabilità se il soggetto, quando commette il crimine, è minore di quattordici anni.

Secondo l’articolo 98 del codice penale, “minore di anni diciotto”, il soggetto compreso tra i quattordici e i diciotto anni è imputabile se, quando commette il fatto, ha la capacità di intendere e di volere.

Nell’ipotesi nella quale il soggetto considerato sia la vittima del reato, si dovrà guardare all’età di volta in volta indicata nelle singole fattispecie incriminatici e verificare se questa è rilevante.

A tutela del minore sono applicabili le norme poste a tutela della person, e sono previste nel codice penale anche disposizioni specifiche in tema di minori.

A questo proposito, si rilevano, tra gli altri, i seguenti articoli nel Libro II nel Titolo XI “Dei delitti contro la famiglia”:

Articolo 564 del codice penale “incesto”, articolo 566 del codice penale “supposizione o soppressione di stato”, articolo 567 del codice penale “alterazione di stato”, articolo 568 del codice penale “occultamento di stato di fanciullo legittimo o naturale riconosciuto”, articolo 570 del codice penale “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, articolo 571 del codice penale “abuso di mezzi di correzione o di disciplina”, articolo 572 del codice penale “maltrattamenti in famiglia”, articolo 573 del codice penale “sottrazione consensuale di minorenni”, articolo 574 del codice penale “sottrazione di incapaci”, e nel titolo IX “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” che regolava i delitti contro la libertà sessuale, oggi previsti negli articoli 609 bis e seguenti del codice penale.

Se il minore è soggetto passivo del reato ex articolo 579 del codice penale (“omicidio del consenziente”) e del reato ex articolo 580 del codice penale (“istigazione o aiuto al suicidio”), il soggetto attivo risponde di omicidio.

Anche nel Libro III del codice penale, dedicato alle contravvenzioni, rilevano alcuni particolari reati previsti per la tutela dei minori.

L’articolo 671 del codice penale “impiego di minori all’accattonaggio”, l’articolo 689 del codice penale “somministrazione di bevande alcoliche a minori o a infermi di mente”, l’articolo 730 del codice penale “somministrazione a minori di sostanze velenose o nocive”, l’articolo 731 del codice penale “inosservanza dell’obbligo dell’istruzione elementare dei minori” e l’articolo 732 del codice penale “omesso avviamento dei minori al lavoro”.

Appare evidente che nell’ordinamento penale italiano manca un settore specificatamente rivolto alla protezione della minore età, in quanto il codice se ne occupa in modo frammentario ed esclusivamente occasionalmente.

Molti hanno lamentato l’impropria collocazione di alcuni reati commessi a danno dei minori nel titolo “Dei delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume” (come gli abrogati artt. 519-521 c.p. in tema di violenza carnale e 531-536 c.p. in tema di prostituzione), oppure”contro la famiglia” (come l’incesto), anziché nel titolo “Dei reati contro la persona”, come sarebbe stato più corretto.

Questo perché si tratta di reati nei quali è la persona del minore ad essere direttamente colpita e non un’astrazione come la famiglia, o la moralità pubblica, o il buon costume.

Altri non hanno condiviso la mancanza di una norma che aggravi i reati commessi in danno dei minori, così come l’inesistenza di una norma che dichiari sempre perseguibile di ufficio ogni reato avente come vittima un minore.

Ma soprattutto non si è condiviso, da parte di una determinata dottrina, la mancanza di una norma che, sull’esempio dei modelli anglosassoni, in caso di reati commessi dai genitori contro i figli minori, regoli i rapporti tra processo penale e servizi socio-riabilitativi, prevedendo la sospensione del processo, in modo da consentire che la famiglia possa essere aiutata a riorganizzare in modo sano quelle distorsioni dei rapporti intrafamiliari evidenziate dall’abuso.

Abbiamo parlato dell’argomento della violenza domestica con Angelica Piras, una scrittrice sarda autrice del libro “Regina delle ombre, in asulu bisendi” di recente pubblicazione, un libro autobiografico incentrato sulla violenza domestica.

Angelica, perché questo titolo “Regina delle ombre, in asulu bisendi”?

“Regina delle ombre” perché regina lo sono diventata  quando ho iniziato e ho combattuto quelle ombre, e l’ho dovuto fare per salvarmi.

“In asulu bisendi”, perché sono due parole chiave del libro, l’azzurro e i sogni che mi hanno salvata, scritti in sardo, perché nel libro ci sono anche sei poesie in sardo campidanese.

Quale è l’argomento preso in considerazione nel libro?

Il libro tratta l’argomento della violenza domestica, è autobiografico, scritto in prosa e poesia. Cerco di descrivere il vissuto di quella bambina che si rifugiava nei sogni per andare via da quell’orrore che era costretta a vivere.

Spesso nei casi di violenza domestica si tende a perdonare la persona che si comporta da “bestia”, è successo anche nel suo caso?

Assolutamente si.

Nel mio caso la bestia è mio padre, che io oggi seguo come se fosse un bambino e lo amo.

Non so dare una risposta razionale quando mi viene chiesto “come fai a volere bene a quell’uomo che ti ha rovinato la vita”?

Perché dietro quella bestia c’è sempre un uomo, e sono riuscita a trovare in lui quei frammenti d’amore che mi hanno salvato, il perdono mi ha salvato.

Non volevo vivere indurita da questo vissuto, volevo regalare amore a mio padre ma anche alla vita,

che ho odiato e che adesso amo incondizionatamente.

Questa la testimonianza di Angelica Piras che attraverso il suo libro ha voluto mettere in risalto un argomento come la violenza domestica, del quale spesso non si parla raccontando le proprie esperienze, e a volte per paura non si denunciano i carnefici.

Dott.ssa Concas Alessandra

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