Il mandato di arresto europeo: intervista al Dott. Andrea Chelo, dottore di ricerca, assegnista in diritto processuale penale presso la facoltà di giurisprudenza dell’università degli studi di cagliari e avvocato

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In che consiste il mandato di arresto europeo?

Il mandato di arresto europeo è frutto di una decisione quadro e nasce a livello europeo nel 2002, con la decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002; è stato recepito nell’ordinamento italiano nel 2005 con la legge 22 aprile 2005 n. 69.

Per rendere il concetto di mandato di arresto europeo si può pensare ad una estradizione avanzata tra Stati dell’Unione europea. Il mandato è, infatti, lo strumento di cooperazione giudiziaria che sostituisce la richiesta di estradizione nell’ambito dell’Unione ed ha la finalità di agevolare la consegna di persone ricercate perché sottoposte a procedimento penale in uno degli Stati dell’Unione, oppure già condannate con sentenza esecutiva (nella nostra legge, in realtà, si parla di sentenza irrevocabile).

Secondo quanto risulta dall’atto normativo di matrice sovranazionale, cioè dalla decisione quadro, e soprattutto sulla base di una ricostruzione storica dell’istituto, l’euromandato nasce soprattutto con la finalità di arginare i fenomeni di crimine transnazionale, da tempo sorti nel territorio dell’Unione e divenuti un vero problema, agevolati in parte dalle politiche economiche adottate in ambito europeo. Io faccio sempre questo esempio: la libera circolazione delle merci e delle persone – politiche sulle quali l’Unione ha sempre puntato molto – avevano inevitabilmente acuito il rischio che i criminali potessero sfruttare le nuove possibilità di movimento di beni e individui per sottrarsi alla giustizia o per commettere reati con maggiori possibilità di restare impuniti. Una situazione, questa, capace di compromettere inevitabilmente la sicurezza collettiva nei nuovi confini unitari, che necessitava di un intervento teso a coordinare le attività investigative poste in essere nei singoli Paesi e, contemporaneamente, a consentire finalmente il reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie per ottenere una cooperazione giudiziaria davvero efficace. Per dirla figurativamente, si avvertì il bisogno di far cadere le barriere esistenti per le Amministrazioni della giustizia così come già erano cadute le barriere per i cittadini. È proprio per questo motivo che si è passati da uno strumento come l’estradizione, che ha alla sua base una fortissima componente politica (nel senso che l’ultima parola, la decisione finale, è presa dal Ministro della giustizia sulla base di una valutazione, in buona sostanza, politica), ad una procedura altamente giurisdizionale, come il mandato di arresto europeo, che giunge ad una decisione sulla consegna di una persona ricercata solo ed esclusivamente in seguito ad un procedimento di matrice giudiziaria; perché è l’autorità giudiziaria che decide se dare luogo o meno alla consegna del soggetto.

Bisogna considerare che i rapporti tra i Paesi dell’Unione si sono fatti, nel tempo, sempre più stretti e basati su un alto livello di fiducia; e anche questo fatto ha imposto che la consegna delle persone ricercate a fini estradizionali si evolvesse. D’altronde, per molti anni, la consegna dei ricercati era stata regolata dalla Convenzione europea di estradizione del 1957 che, se anche ispirata a consentire una più stretta unione tra i Paesi membri del Consiglio d’Europa, si era dimostrata oramai anacronistica, incapace di dare soddisfazione alle esigenze che maturavano nell’Europa priva di frontiere interne.

 

Con il mandato di arresto europeo è cambiato il ruolo del Ministro della giustizia?

Certamente. Il ruolo del Ministro della giustizia è completamente cambiato, dato che il Ministro, che prima aveva un fortissimo potere decisorio, nel mandato ha un ruolo quasi di “passa carte”, nel senso che la sua, in quanto autorità centrale, è una funzione di intermediario.

C’è da precisare che la previsione di un ruolo per il Ministro della giustizia, come autorità centrale, non era neppure obbligatoria. Noi abbiamo recepito nella nostra normativa la decisione quadro istituendo l’autorità centrale, ma non tutti gli Stati hanno fatto altrettanto; alcuni hanno ritenuto opportuno farne a meno. Noi, invece, considerato che già avevamo un Ministro della giustizia che ricopriva un ruolo in seno alla estradizione, abbiamo preferito mantenere in capo a quest’autorità le funzioni di organo di raccordo e di supporto: ed ecco che il Ministro, oggi, esercita funzioni che io definisco di “passa carte”, perché riceve i mandati, li fa tradurre o, se del caso, fa tradurre gli allegati, li trasmette alle autorità giudiziarie di esecuzione italiane o straniere. Tutto qui.

Questo è il ruolo del Ministro. Un ruolo di natura amministrativa privo tendenzialmente di poteri decisionali. L’unico potere decisorio che il Ministro ha è rinvenibile in materia di transito ma è molto limitato.

La scelta di affidare la decisione all’autorità giudiziaria non è solo legata alla volontà di superare una valutazione squisitamente politica o discrezionale; non c’è solo questa volontà aprioristica. In realtà, la funzione esclusiva dell’autorità giudiziaria deve essere letta in seno al nuovo tessuto nel quale si viene ad inserire il mandato d’arresto europeo, ovvero nell’ambito dell’Unione. Nell’ambito, cioè, di un organismo ad elevato livello di fiducia tra Stati in seno al quale era necessario sviluppare quei principi che sono posti alla base della reciproca fiducia: uno tra tutti, il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie.

Il principio del reciproco riconoscimento, d’altronde, è incompatibile con la possibilità che venga lasciata al Ministro una valutazione discrezionale sulla consegna; il ruolo decisorio esclusivo dell’autorità giudiziaria va letto, dunque, in stretto raccordo con i principi che animano i rapporti giurisdizionali tra le autorità dei Paesi membri e, prima ancora, che animano i rapporti tra i Paesi membri. Così, ad esempio, se il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie impone che sia riconosciuta nel nostro territorio la sentenza emessa dal giudice francese, il primo passo per riconoscere tale validità è dar luogo alla consegna del soggetto sulla base di quella sentenza. Se una tale decisione, anziché affidata al giudice sulla base di parametri prefissati, fosse affidata alla valutazione politica del Ministro, il principio non spiegherebbe i suoi effetti.

 

Il mandato di arresto europeo è frutto di una decisione quadro del 2002 ma non è stato recepito nello stesso momento in tutti Paesi dell’Unione europea; in Italia è stato recepito solo nel 2005: perché?

Sì, è vero, la decisione quadro è stata recepita in tempi diversi dai vari Paesi e molto in ritardo dall’Italia; nel nostro Paese rimaniamo abbastanza inerti di fronte al proliferare degli atti normativi sovranazionali. Basti pensare che la decisione quadro del 2002 dava un termine preciso per il recepimento della stessa – il 31 dicembre 2003 – e noi lo abbiamo considerevolmente superato, perché la nostra legge di recepimento è dell’aprile 2005 ed è entrata in vigore nel maggio dello stesso anno, quindi con un considerevole ritardo. Questo fatto ha comportato, tra l’altro, periodi di incertezza nei rapporti tra Stati, perché altri Paesi avevano già recepito la decisione quadro ed emettevano mandati d’arresto, non più domande estradizionali.

Il primo dato che può essere messo in evidenza è, dunque, il ritardo con il quale l’Italia ha recepito il nuovo istituto: un ritardo legato, per la verità, alle enormi difficoltà incontrate a livello parlamentare nell’individuare un testo che potesse mettere d’accordo tutte le forze politiche.

Un ritardo che, secondo me, è possibile si ripeta un’altra volta con riferimento alle modifiche recentemente introdotte alla decisione quadro 2002/584/GAI. La decisione quadro è stata, infatti, modificata con un’altra decisione quadro del 2009, la decisione 2009/299/GAI, che ha posto un termine per il recepimento con una possibilità di proroga dello stesso; noi, già in prima battuta, abbiamo optato per il termine prorogato, che andrà a scadere nel 2014, ma c’è da temere che anche questo termine non venga rispettato e quindi che anche il recepimento di quella decisione quadro scivoli un po’ oltre. Si tratta, infatti, di un provvedimento che impone alcune importanti modifiche in materia di processo contumaciale: dunque su un tema sensibile, di quelli più spinosi da affrontare.

Il ritardo è, però, uno solo dei problemi del recepimento della decisione quadro.

Il problema più significativo, infatti, è rappresentato dalle modalità di recepimento, nel senso che lo Stato italiano e, così, anche altri Paesi dell’Unione, hanno recepito la decisione quadro in maniera difforme rispetto a quelle che erano le indicazioni fornite dalla stessa. Come è ovvio, di fronte al recepimento di una decisione quadro in termini nettamente diversi rispetto alla volontà sovranazionale, si viene a creare il caos: la decisione quadro, infatti, dovrebbe essere recepita nello stesso modo in tutti gli Stati al fine di ottenere, nella relativa materia, un avvicinamento dei vari ordinamenti.

Si pensi solo ad un fatto: annesso alla decisione quadro è presente un allegato, che altro non è se non un formulario che deve essere compilato per l’emissione di un mandato. È un formulario che tutti i Paesi hanno adottato proprio perché serviva per uniformare le richieste di consegna; le autorità emittenti di ogni Paese non possono redigere il mandato in modo diverso: quello è lo schema di mandato di arresto europeo e l’autorità si deve limitare a compilarlo, perché i dati essenziali e necessari per un mandato di arresto valido sono quelli che vengono inseriti quando ogni campo è completato.

Ora, l’Italia ha recepito la decisione quadro in un modo in cui il mandato che deve essere ricevuto per procedere alla decisione sulla consegna non è rappresentato solo dall’allegato compilato: in ambito di procedura passiva, se si sta dando esecuzione ad un mandato, noi richiediamo che quel mandato abbia degli allegati. Allegati dei quali non vi è traccia nella decisione quadro; vi è traccia solo nella legge italiana. Tutto ciò fa sì che l’autorità di un altro Paese dell’Unione che emette il mandato non pensi, ragionevolmente, ad allegare al formulario compilato quegli allegati che solo l’Italia richiede: il che determina dei disallineamenti tra richieste di consegna di uno Stato e il modus operandi interno di un altro Stato. Il risultato? Che i tempi di consegna si allungano o che, addirittura, alla consegna non ci si arriva. Ingiustamente. Noi, infatti, riteniamo quel mandato incompleto, anche se, sulla base della decisione quadro, il mandato dovrebbe essere ritenuto completo, dotato di tutti gli elementi necessari per potere giungere ad una decisione.

Questo è uno dei problemi più rilevanti, ma se ne possono elencare tanti altri.

In realtà, sul punto, è davvero importante l’attività di ricognizione e di critica che viene fatta a livello europeo e che è sintetizzata nelle relazioni che la Commissione europea presenta al Parlamento europeo e al Consiglio. Le relazioni periodiche sono relative allo stato di recepimento della disciplina sul mandato nei vari Stati dell’Unione e fanno osservare come e in cosa i vari Stati abbiano deviato rispetto al paradigma indicato nella decisione quadro.

 

Da questo si deduce che ogni Paese ha adattato la decisione quadro alle proprie esigenze?

Sì, ognuno l’ha adattata a quelle che erano le sue tradizioni culturali o alle esigenze legate al particolare ordinamento nazionale; ciò che ha determinato problemi anche di natura operativa.

Una delle questioni più problematiche è, ad esempio, la riscontrata assenza di proporzionalità nel ricorso allo strumento di cooperazione giudiziaria. Anche se il mandato può essere utilizzato solo ed esclusivamente per dare esecuzione ad una misura cautelare privativa della libertà personale (per intenderci, la custodia cautelare in carcere, dato che sussistono dubbi con riferimento agli arresti domiciliari), oppure per dare esecuzione ad una sentenza che ha condannato ad una pena privativa della libertà personale, ci sono dei limiti per attivare questo procedimento abbastanza complesso sotto il profilo burocratico ed organizzativo. In linea generale, nonostante i limiti di pena normativamente previsti, si è sempre suggerito il ricorso all’istituto in casi di una certa importanza: nella nostra tradizione, in casi di condanne a pene superiori a quelle per le quali è possibile venga concessa una misura alternativa alla detenzione. Non ha senso chiedere e ottenere la consegna di un soggetto quando questi, arrivato nello Stato di esecuzione, non sconterà la pena in carcere e sarà ammesso, ad esempio, all’affidamento in prova ai servizi sociali.

Naturalmente, non tutti gli Stati si attengono a queste regole, che non sono codificate; noi già lo facevamo in materia estradizionale, grazie a circolari ministeriali, perché inutile è formulare delle richieste di estradizione per pene che magari non dovranno essere eseguite.

In questi casi, così come nell’ipotesi di pene non elevate, la Commissione sprona affinché le autorità che emettono i mandati ci vadano un pochino più con i piedi di piombo, affinché valutino più attentamente, cioè, l’opportunità di emettere o meno il mandato. Il rischio peggiore che si vuole evitare è quello che siano le autorità di esecuzione a verificare se sia opportuno o meno dare esecuzione al mandato, con una valutazione effettuata caso per caso che porterebbe ad una situazione di caos completo, genererebbe discriminazioni e porrebbe nel nulla il principio del reciproco riconoscimento.

Sarebbe da preferire, infatti, che in questi casi il mandato non venga emesso a priori perché la pena concretamente inflitta o da infliggersi non è tale da giustificare l’attivazione di un procedimento di consegna internazionale, piuttosto che avanzare una richiesta e poi magari vederla respinta da parte dell’autorità giudiziaria di esecuzione che abbia ritenuto non proporzionato il ricorso allo strumento di cooperazione.

 

Dal 2005, quando la decisione quadro è stata recepita in Italia, ad oggi c’è stato qualche cambiamento, c’è stata una evoluzione?

Con l’utilizzo più frequente dello strumento di cooperazione i tempi di consegna si sono ridotti un po’. Ad esempio, nel periodo per il quale abbiamo dati statistici, cioè per gli anni dal 2005 al 2009, circa la metà dei ricercati hanno acconsentito alla loro consegna, con procedimenti che, in questo caso, si sono definiti nel tempo medio da 14 a 17 giorni. Per i soggetti che, invece, non hanno prestato il consenso, la consegna è intervenuta in un tempo medio di 48 giorni. L’estradizione, invece, aveva tempi di definizione molto più lunghi.

 

Quindi ci sono vantaggi?

I vantaggi ci sono indubbiamente, come ci sono anche gli svantaggi; il mandato d’arresto, come una medaglia, ha due facce. E chiunque si avvicina allo studio di una materia che non vive solo nell’ordinamento nazionale ma che opera ad un livello superiore, ad un livello sovranazionale, nell’attività di interpretazione vivrà inevitabilmente dei contrasti interiori. Un italiano è portato a studiare, ad osservare una normativa attraverso la lente del giurista italiano: perché quella è la lente che tradizionalmente ha utilizzato. Nell’ambito dell’Unione europea e a causa dell’Unione, però, le cose nel corso degli anni sono cambiate; e tante stanno ancora cambiando per istanze che provengono da Paesi diversi. Di conseguenza, le normative che nascono in seno all’Unione europea non possono più essere lette e studiate solo ed esclusivamente con la lente del giurista italiano o, comunque, del giurista del singolo Stato, ma devono essere lette con la lente del giurista europeo. Qui il difficile.

Da un lato, è allora innegabile che il mandato di arresto europeo abbia portato dei benefici in termini di maggiore celerità della procedura o di maggiore efficacia della stessa; però è altrettanto vero che sono considerevoli anche i rischi che con il nuovo strumento si corrono, perché in ambito dell’Unione non abbiamo solo ed esclusivamente Paesi con un livello di evoluzione giuridica pari al nostro, ma abbiamo anche Paesi che hanno un processo penale o delle regole vigenti in ambito dell’ordinamento penale nei quali noi assolutamente non ci riconosciamo e non possiamo riconoscerci. Far vigere il principio del reciproco riconoscimento nei confronti delle decisioni di questi Paesi è cosa molto più difficile che far vigere lo stesso principio, ad esempio, nei confronti della Francia o della Germania o della Spagna, del Regno Unito, di Paesi, cioè, che hanno un sistema di garanzie diverso dal nostro ma complessivamente molto vicino al nostro e in certi casi anche superiore.

Questa, dunque, è la vera questione che rimane sullo sfondo. Se poi quello che interessa è osservare se il mandato è uno strumento che funziona, in realtà, stando ai dati, il mandato è uno strumento che funziona molto di più dell’estradizione.

 

Naturalmente il mandato di arresto europeo viene utilizzato nell’ambito dell’Unione europea; in riferimento ai Paesi extracomunitari continua a vigere l’estradizione?

Sì, le richieste di consegne da e verso Paesi non appartenenti all’Unione continuano ad essere regolate dall’estradizione; così come continuano ad essere stipulate convenzioni estradizionali con Stati esteri. Per quanto riguarda, però, la consegna di soggetti ricercati all’interno dell’Unione da un Paese dell’Unione, vige il mandato. Anzi, precisiamo meglio: nella legge di recepimento italiana vi è una disposizione, l’art. 40, che introduce alcune regole di diritto intertemporale che prevedono l’ultrattività dell’estradizione, in alcune ipotesi particolari, anche tra Paesi dell’Unione. In buona sostanza, in relazione ai casi indicati nell’art. 40 della legge n. 69 del 2005, le eventuali richieste di consegna devono essere trattate come domande estradizionali.

 

Lei ha scritto un libro sul mandato di arresto europeo: come è nata quest’idea?

Ho scritto una monografia sul mandato durante gli studi che ho portato avanti, in questi anni, a Roma e a Cagliari: ho approfondito il tema, inizialmente, nell’ambito del corso di dottorato che ho conseguito all’Università la Sapienza di Roma ed ho portato avanti il lavoro in seno ad una ricerca che ancora conduco presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari, grazie ad un assegno di ricerca finanziato dalla Fondazione del Banco di Sardegna.

L’idea di studiare proprio il mandato d’arresto è nata dal mio Maestro, il professor Leonardo Filippi, che con il professor Giorgio Spangher, che ha diretto il corso di dottorato, mi aveva sin da subito indicato questo argomento come un tema di grande interesse ed attualità: ed infatti, in questi anni, si è sentito molto parlare di mandato d’arresto europeo. D’altronde, si tratta di un istituto che ha interessato tantissimo non solo la dottrina ma anche la giurisprudenza, proprio perché introdotto da una normativa nuova, tutta ancora da interpretare. Tantissime le pronunce sul tema della Corte di cassazione; ma sono state chiamate a pronunciarsi sul mandato d’arresto europeo anche la Corte costituzionale e la Corte di giustizia dell’Unione; senza considerare, poi, le pronunce di merito, alcune molto interessanti, perché tendenti ad individuare per la prima volta le modalità di applicazione dell’istituto.

Avvicinarsi allo studio di un nuovo strumento di cooperazione giudiziaria è stato, così, molto interessante, soprattutto perché il mandato ha un antecedente storico nell’estradizione ma dall’estradizione si differenzia; la ricerca si è sviluppata proprio su questo percorso: cercare di capire che cosa in concreto cambiava, che cosa si voleva che cambiasse, e cosa, invece, non si voleva cambiare rispetto al vecchio sistema di consegna.

Dott.ssa Concas Alessandra

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