Il lavoro penitenziario e la sua natura giuridica

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Una parte della dottrina, sino a recenti sentenze della Corte Costituzionale, avallata anche dalla giurisprudenza di legittimità, ha sostenuto che il lavoro penitenziario essendo adempimento di un obbligo legalmente imposto, non si può configurare come rapporto di lavoro subordinato, di diritto privato, ma si deve qualificare come prestazione di diritto pubblico.

La principale conseguenza di questa soluzione interpretativa è l’esclusione dell’applicazione o estensione automatica della disciplina e della legislazione protettiva in materia di lavoro subordinato al lavoro penitenziario, giustificando una differenziazione tra lavoratori “liberi” e lavoratori “detenuti” in relazione a tutele di retribuzione, ed essendo sottoposti a un obbligo, la mercede da questi percepita non può assumere la configurazione di retribuzione, ma è considerata una forma di corrispettivo sui generis.

Un’altra parte della dottrina ha sostenuto che sia necessario distinguere tra il lavoro svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e il lavoro alle dipendenze di terzi sia dentro sia fuori dell’istituto.

Non sembra ragionevole considerare il rapporto di lavoro alle dipendenze di un’impresa privata, svolto ad esempio in regime di semilibertà, come prestazione di diritto pubblico, introducendo la possibilità di un’ingiusta differenziazione in relazione alle tutele tra i dipendenti della stessa impresa, esclusivamente sul presupposto che gli uni sono in esecuzione pena e gli altri sono “onesti cittadini”.

Una simile impostazione avrebbe il rischio di favorire in modo distorto l’assunzione di detenuti e internati perché sarebbero meno rigorosi nei loro confronti i doveri e gli oneri del datore di lavoro, a discapito della finalità rieducativa della pena, che è raggiungibile se il lavoro si configura come attività rispettosa della dignità della persona umana e che non dia al detenuto la sensazione di essere sfruttato.

Se si tratti di attività lavorativa svolta alle dipendenze di terzi, sia in carcere sia fuori, si tratta di un comune rapporto di lavoro subordinato ai sensi dell’articolo 2094 del codice civile, cioè di diritto privato, al quale si applica integralmente la disciplina protettiva del lavoro, con l’unica differenza ammissibile di ritenere giustificati quei limiti ai diritti dei lavoratori che siano inevitabilmente conseguenti allo stato detentivo.

Una volta escluso che il lavoro penitenziario svolto alle dipendenze di terzi si possa differenziare dal comune rapporto di lavoro, resta da risolvere la questione relativa alla configurazione giuridica del rapporto di lavoro che intercorre tra il detenuto e l’amministrazione penitenziaria.

In relazione a questo si deve fare cenno alla previsione della carta costituzionale secondo la quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (ex art. 35 C.), che di per sé comporterebbe un’estensione della disciplina protettiva del lavoro anche a quello svolto in esecuzione pena, a meno di non volere ritenere che non si tratti di attività lavorativa vera e propria, conclusione che sarebbe a sua volta incostituzionale violando sia il divieto di “trattamenti contrari al senso di umanità”, divenendo l’attività svolta in sostanza una forma di lavoro forzato, sia la previsione per la quale “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” (ex art. 27 C.), non essendo il lavoro così configurato, come si è avuto più volte occasione di sottolineare, minimante rieducativo.

Al di là dell’appiglio alla carta costituzionale, le argomentazioni principali a sostegno della natura privatistica del lavoro penitenziario, sostenute dalla dottrina in esame sono state essenzialmente di due tipi, da una parte si è affermato che l’obbligo legale all’origine dello svolgimento dell’attività lavorativa non esclude che si tratti di comune rapporto di lavoro subordinato, sussistendo altre ipotesi nel nostro ordinamento giuridico in cui il rapporto di lavoro si instaura non a seguito di contratto, ma deriva direttamente dalla legge, e non si dubita che si tratti di un comune rapporto di lavoro subordinato al quale si applica la disciplina protettiva del lavoro.

Un’altra argomentazione sostenuta di frequente è che la sussistenza di un obbligo legale all’origine del rapporto di lavoro non esclude di per sé l’espressione di volontà a contrarre da parte del detenuto.

Il presupposto logico di questa conclusione è che nonostante le sanzioni disciplinari, se il detenuto non volesse adempiere l’obbligo, non vi sarebbe alcun strumento in grado di rendere la prestazione coercibile.

L’adempimento dell’obbligo di svolgere un’attività lavorativa dovrebbe essere considerato come espressione tacita della volontà di instaurare un rapporto di lavoro, cioè di concludere un contratto di lavoro subordinato.

A favore della tesi sostenitrice della genesi contrattuale del rapporto di lavoro subordinato si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, sostenendo che “al fine della qualificazione di un rapporto di lavoro si deve avere attenzione anche al momento negoziale costitutivo”, dando rilevanza alla volontà delle parti, la quale si può esprimere in un “contratto di lavoro che si differenzi da quello tipico disciplinato dagli articoli 2094 e seguenti del codice civile.

A sostegno di questa tesi, è stato evidenziato come lo stesso legislatore preveda la possibilità per gli imputati di chiedere di essere ammessi al lavoro, in quesro caso nessuno dubiterebbe che si tratta di normale rapporto di lavoro subordinato, non sussistendo in capo a tali soggetti alcun obbligo.

Non si spiegherebbe la distinzione tra il lavoro degli imputati qualificato pacificamente come prestazione di diritto privato, e il lavoro dei condannati e degli internati, qualificabile come prestazione di diritto pubblico, in niente differenziandosi queste due categorie di “ristretti” se non nel sopraggiungere della condanna definitiva, che non dovrebbe modificare però in nulla il rapporto di lavoro in senso stretto.

Entrambe le argomentazioni a sostegno della natura privatistica del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sembrano plausibili, però, o si diopende dalla necessità del contratto per l’instaurazione del rapporto di lavoro, oppure si amplia la nozione di volontà di concludere un contratto ricomprendendovi tutte le possibili forme di espressione del consenso.

Se si divesse partire dal presupposto che la dottrina maggioritaria sembra sostenere che il lavoro penitenziario configuri un’ipotesi di rapporto di lavoro subordinato ai sensi dell’articolo 2094 del codoce civile,  si deve stabilire quale sia tra le due prospettate, l’argomentazione più conforme alla norma in questione.

L’articolo 2094 del codoce civile, nel prevedere le caratteristiche salienti del rapporto di lavoro subordinato, è relativo al “prestatore di lavoro” il quale si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”, senza fare minimante cenno al contratto di lavoro.

Un’altra disposizione risolutiva è l’aricolo 2126 del codoce civile, il quale prevede che “la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione.

Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”.

La disposizione sancisce l’irrilevanza del contratto rispetto al rapporto in ipotesi in cui se si dovesse dare preminenza al contratto sarebbe pregiudicato il prestatore di lavoro, in relazione alle tutele e soprattutto di diritto alla retribuzione.

Si è stato sostenuto che “questa norma riconosce nell’esecuzione del rapporto la fonte effettiva, e vera, dei diritti del lavoratore, in particolare dei diritti retributivi”.

Si deve rilevare come il contratto di lavoro, nella Relazione al progetto preliminare del libro delle obbligazioni “considera la fonte contrattuale una delle fonti del rapporto e non la sola fonte. L’attuazione di fatto del rapporto stesso può quindi condurre il datore di lavoro agli stessi obblighi che egli avrebbe di fronte ad una prestazione che fosse adempimento di un contratto”.

Nonostante il rapporto tragga origine da un obbligo legale e non da un contratto, vista la disciplina civilistica e vista la finalità di assimilare quanto più possibile il lavoro penitenziario al lavoro “libero”, si può sostenere che il lavoro penitenziario è una delle tante forme nelle quali si può esplicare il lavoro subordinato (ex art. 35 C.), costituendo uno dei cosiddetti “rapporti speciali” di lavoro che si caratterizzano per la loro collocazione in ordinamenti dotati di propria autonomia e per l’inserimento di elementi pubblicistici nella loro disciplina, rapporti di lavoro ai quali si applica la disciplina protettiva prevista, fatte salve le deroghe introdotte dallo stesso legislatore penitenziario per le particolari finalità e il singolare contesto che caratterizzano tali attività lavorative.

Alla stessa conclusione è pervenuta la giurisprudenza più recente sostenendo che “l’attività di lavoro svolta dal condannato in una struttura carceraria, allo stesso modo delle altre che il detenuto svolge alle dipendenze di terzi o in regime di semilibertà, si deve qualificare come relativa a un rapporto di lavoro subordinato”.

Dott.ssa Concas Alessandra

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