Il Lavoro penitenziario, disciplina giuridica e caratteri

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Il lavoro penitenziario aveva suscitato nei primi anni Settanta l’interesse di alcuni giuslavoristi, che ravvisarono nella disciplina, vigente in quel periodo, i segni persistenti di rapporti giuridici desueti e di modelli che facevano parte di un’epoca remota.

Il materiale normativo con il quale gli autori si dovevano confrontare era ancora costituito dal R.D. 18 giugno 1931 n. 787, che considerava il condannato come privo di qualsiasi capacità di agire, attribuendo allo Stato una funzione superiore  di educazione e di tutela, con la conseguenza che il lavoro veniva concepito come parte integrante della pena e come strumento di ordine e disciplina.

Sottratto, in ogni suo aspetto, alla disponibilità del detenuto, il lavoro era un obbligo, ma, almeno nell’opinione prevalente, non un diritto, non faceva sorgere interessi tutelabili giuridicamente, mancando ogni rapporto di corrispettività tra lavoro prestato e mercede ricevuta. Per ogni aspetto, il rapporto di lavoro del detenuto si rifaceva alla prevalente funzione punitiva assegnata all’istituzione carceraria.

La dottrina e la giurisprudenza, non avevano sottoposto a nessuna valutazione il lavoro carcerario, anche se  in presenza dei principi costituzionali, cardine del diritto del lavoro, ricostruendolo, in termini teorici, come una prestazione di diritto pubblico, non riconducibile allo schema del rapporto di lavoro subordinato, perché nasceva da un obbligo legale.

La grande modifica portata dalla Legge 26 luglio 1975 n. 354, è costituita proprio dal fatto che,  anche se ribadita l’obbligatorietà del lavoro dei detenuti, il lavoro stesso tende a perdere il carattere afflittivo, per diventare un elemento cardine del trattamento penitenziario, diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella collettività, attraverso l’adozione di comportamenti conformi ai parametri correnti di normalità sociale.

Si viene a modificare la posizione del detenuto nei suoi rapporti con l’Amministrazione penitenziaria, nel senso che l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera (ex art. 20 L. n. 354/1975) e la determinazione delle remunerazioni dovute, a seconda della quantità e qualità del lavoro prestato, viene agganciata agli indici di adeguatezza fissati dalla contrattazione collettiva (ex art. 22 O.P.).

Questo non significa che sia accolto, in ambito di lavoro carcerario, il principio di corrispettività tra lavoro e retribuzione, in conformità ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, dei quali all’articolo 36 comma 1 della Costiruzione, visto che si parla di mercede, e non di retribuzione, e viene mantenuta lo stesso la trattenuta dei tre decimi finalizzata all’assistenza alle vittime del delitto.

Una valutazione complessiva della riforma non può nascondere il fatto che alcune affermazioni, come quella relativa alla necessità di fare acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative, per agevolarne il reinserimento sociale, sono di carattere  programmatico e resteranno disattese in sede di regolamento di attuazione.

La modificazione tipologica del lavoro carcerario viene ridimensionata dallo stesso legislatore, perché la realizzazione delle finalità del trattamento viene condizionata al mantenimento della disciplina in carcere.

La legge di modifica dell’ordinamento penitenziario 10 ottobre 1986 n. 663, cosiddetta Legge Gozzini, prosegue sulla stessa linea di tendenza, rimuovendo alcune limitazioni, poste in precedenza, all’ammissione al lavoro all’esterno, introducendo una fase di controllo giurisdizionale nel procedimento che ne regola l’ammissione del detenuto e, soprattutto, abolendo la trattenuta dei tre decimi sulle mercedi. In quegli stessi anni, altre norme vengono a incidere sul tema del lavoro carcerario.

Si tratta a di disposizioni sparse in vari strumenti legislativi, quali la Legge 28 febbraio 1987 n. 56 e il D.P.R. 18 maggio 1989 n. 248, che aumentano la sensazione dell’interprete di trovarsi di fronte a un complesso normativo scoordinato e lacunoso, nel quale risulta difficile orientarsi per la frammentarietà e l’imprecisione dei testi normativi.

L’articolo 19 della Legge 56/1987 attiva altre competenze degli organi pubblici di collocamento in relazione alla domanda di lavoro extramurario, ma non raggiunge grandi risultati per una serie di difficoltà.

Quello che emerge è l’eccessiva prudenza del legislatore, auto limitatosi a modificare le  procedure, senza dare spazio a sistemi di incentivazione alle aziende ed a miglioramenti sul piano della formazione professionale della popolazione detenuta.

Le più recenti modificazioni legislative appartengono alla fase cosiddetta emergenziale.

La Legge 12 agosto 1993 n. 296 ha modificato gli articoli 20 e 21 e ha introdotto l’articolo 20 bis della Legge 354/1975.

Sotto un primo profilo, il legislatore ha posto, almeno programmaticamente, sullo stesso piano la destinazione dei condannati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale, consentendo, da un lato, l’organizzazione di lavorazioni gestite direttamente da imprese pubbliche o private, con modalità specificatamente previste, e, dall’altro, l’istituzione di corsi di formazione professionale svolti da aziende pubbliche o private convenzionate.

Sotto un secondo profilo, è stato introdotto un meccanismo di assegnazione del lavoro intramurario, cioè un vero e proprio collocamento in carcere, che agisce attraverso la formazione di graduatorie dei detenuti e di tabelle dei posti, mentre per il lavoro all’esterno vengono richiamate le norme sul collocamento ordinario e l’art. 19 L. n. 56/1987.

Questo quadro legislativo configura un’altra fase del lavoro carcerario.

Una volta preso atto che, nella fase precedente, l’aumento delle misure alternative alla detenzione, realizzato dalla legge Gozzini, non aveva prodotto l’effetto sperato di ampliare le occasioni di lavoro extramurario per i detenuti e che l’opzione legislativa si è orientata verso un restringimento della possibilità di accesso ai benefici, necessariamente, il lavoro penitenziario deve modificarsi, nel senso di un allargamento delle ipotesi di lavoro intramurario in relazione alle ridotte possibilità di svolgimento di attività lavorative all’esterno, sia per le note limitazioni introdotte con l’art. 4 bis L. 354/75, sia per la nuova situazione del mercato del lavoro delineatasi sin dalla prima metà degli anni novanta.

La realtà attuale del lavoro nel mondo carcerario è molto lontana dall’offrire una possibilità di occupazione intramuraria ai detenuti, riesce a lavorare in carcere una esigua minoranza e la gran parte di loro, secondo le statistiche fornite dal Ministero della Giustizia, è impegnata nei lavori cosiddetti domestici, mentre coloro che svolgono lavorazioni per la committenza pubblica e privata sono un numero quasi insignificante su base nazionale, anche se molto interessante sotto il profilo qualitativo di alcune esperienze.

A distanza di anni dalle ultime modifiche alla Legge 354, nel 2000 sono stati adottati due importanti strumenti legislativi.

Il primo è costituito dal D.P.R. 230/2000, “Regolamento che reca norme sull’Ordinamento Penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, approvato, dopo un lungo e faticoso iter, dal Consiglio dei Ministri nello stesso anno.

Si tratta di una completa revisione delle norme di esecuzione della Legge 26 luglio 1975 n. 354, resa necessaria dall’evoluzione delle strutture e delle disponibilità dell’amministrazione e dalle mutate esigenze trattamentali, nell’ambito di un diverso quadro legislativo di riferimento.

In materia di organizzazione del lavoro, il regolamento recepisce l’impostazione contenuta nella novella del 1993, specificando le regole per l’organizzazione di lavorazioni penitenziarie, sia dentro sia fuori dell’istituto, gestite direttamente anche da imprenditori, pubblici o privati, o da cooperative sociali.

Il secondo è costituito dalla Legge 193/2000, cosiddetta Legge Smuraglia.

Recependo le indicazioni di larghi settori del privato sociale, il legislatore ha modificato la definizione di persone svantaggiate contenuta nella disciplina sulle cooperative sociali, con l’aggiunta, alle categorie già contemplate dall’articolo 4 della Legge 381, delle “persone detenute o internate negli istituti penitenziari”.

Ha, poi, esteso il sistema di sgravi contributivi e fiscali, previsto in precedenza a favore delle cooperative sociali, alle aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di servizi negli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate, facendo, per la prima volta, un apprezzabile sforzo per rendere appetibile alle imprese esterne l’utilizzo della manodopera detenuta.

In relazione al lavoro a domicilio, si tratta di una tipologia introdotta con la Legge 56/1987.

All’articolo 19 commi 6 e 7 della Legge 56 il legislatore non ha fornito nessuna definizione di tipo di lavoro inframurario, limitandosi a richiamare l’applicabilità delle norme sull’ordinamento penitenziario, in materia di lavoro artigianale, intellettuale e artistico, e preoccupandosi di ribadire, all’articolo 52  del Regolamento, le stesse modalità e condizioni di svolgimento.

In relaziona al lavoro autonomo, non collegato allo svolgimento di attività artigianali, intellettuali o artistiche, in precedenza, si era arrivati, in via interpretativa, all’ammissione della possibilità di svolgimento di un’attività di lavoro autonomo all’esterno, in assenza di preclusioni legislative espresse in proposito.

La Legge 354/1975 sostiene che il detenuto debba evidenziare di possedere le attitudini necessarie e si possa dedicare a questa attività con impegno professionale e continuativo.

Dott.ssa Concas Alessandra

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