Il carcere in Italia, struttura, regole e norme relative

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Un carcere, (formalmente casa circondariale, casa di reclusione o istituto di pena) in Italia, è definito come il complesso degli istituti di pena previsti dall’ordinamento penitenziario italiano.

Possono essere condannati alla detenzione in carcere sia soggetti definitivamente condannati come anche soggetti in attesa di giudizio in relazione a reati di una particolare gravità, oltre che a reati di particolare allarme sociale o pericolo, in questo caso si parla di carcerazione preventiva o custodia cautelare.

Come nel resto dell’Europa, dalla fine del secolo XVIII la prigione (o carcere) divenne un luogo di pena, l’unica pena insieme alla multa e alla pena di morte (che divenne di applicazione più rara dopo gli eccessi visti durante la Rivoluzione francese del 1789), abbandonandosi definitivamente le punizioni corporali come forma di pena e la pena di morte come supplizio (che durava parecchie ore durante le quali il condannato subiva sulla pubblica piazza orribili torture sino a che sopraggiungeva, il più lentamente possibile, la morte).

Le pene corporali sopravvissero per molto tempo come mezzo per mantenere la disciplina nel segreto delle prigioni (in Italia le pene corporali per i detenuti sono state abolite meno di cinquant’anni fa), nonostante fossero meno cruente di quelle dei vecchi regimi assolutistici, dove avevano lo scopo primario di terrorizzare in pubblico le folle per dissuaderle dal compiere violazioni delle leggi e ribellioni verso l’autorità costituita.

La pena di morte fu abolita in Italia dopo la liberazione dal nazi-fascismo (25 aprile 1945), anche se formalmente con l’entrata in vigore dell’articolo 27 della Costituzione repubblicana.

La costituzione ha superato, anche non negandola, la pregressa concezione punitiva della pena (quella che i giuristi definiscono la “funzione retributiva della pena”, cioè il pagamento del debito creato verso la società con la violazione della legge), mutuando dalle teorie positivistiche che, poiché il reato viene commesso anche per difficoltà sociali o devianze o limiti antropologici od educativi del colpevole e quindi una parte di colpa è da ascrivere all’ambiente sociale del reo, la pena deve avere innanzitutto una funzione rieducativa e di riadattamento sociale e non può quindi essere crudele, pur dovendo mantenere anche una funzione di deterrente sociale e di corrispettivo verso la società.

L’articolo 27 della Costituzione recita anche:

…Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato…

Poco dopo l’Italia sottoscrisse la Convenzione per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, formata dal Consiglio d’Europa sotto l’egida delle Nazioni Unite, che vieta espressamente (tra l’altro) ogni tipo di tortura (ex art. 3) e la punizione senza equo processo (ex art. 6) in base a legge già in vigore al momento del reato (ex art. 7), anche se la relativa ratifica, cioè l’entrata in vigore in Italia di tale convenzione, divenne effettiva solo dal 10 ottobre 1955 e la legge penitenziaria del 1931 (di tutt’altra ispirazione) restò in vigore sino al 25 agosto 1975.

Ai sensi dell’articolo 59 della legge 26 luglio 1975 n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”) gli istituti penitenziari per adulti si dividono in quattro categorie:

Istituti di custodia cautelare

Istituti per l’esecuzione delle pene

Istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza

Centri di osservazione (nessun istituto).

Istituti di custodia cautelare

 

Sono diretti  ai reclusi in attesa di giudizio.

L’articolo 60 dell’ordinamento penitenziario li distingue in case circondariali e mandamentali.

Le prime sarebbero per la reclusione degli imputati a disposizione di qualunque autorità giudiziaria, le seconde per quelli a disposizione del pretore, ma con la soppressione della figura del pretore per la normativa che ha istituito il giudice unico (decreto legislativo 19 febbraio 1998 n.51) e con lo svuotamento del concetto di “mandamento” è venuta meno la distinzione funzionale tra i due tipi di casa, entrambi sono diretti alla custodia degli imputati a disposizione dell’autorità giudiziaria e dei fermati o arrestati e dei detenuti in transito, ma anche per i detenuti con pene definitive brevi (fino a tre anni).

Le vecchie case mandamentali non esistono più, essendosi ritenuti poco efficienti le carceri troppo piccole.

Istituti per l’esecuzione delle pene

Sono previsti dall’articolo 61 dell’ordinamento penitenziario sono le case di arresto per l’espiazione della pena dell’arresto (mai istituite) e le case di reclusione per l’espiazione della pena della reclusione.

Istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza

Individuati dall’articolo 62 dell’ordinamento penitenziario, sono:

le colonie agricole, le case di lavoro, le case di cura e custodia, gli ospedali psichiatrici giudiziari,

formalmente aboliti nel 2012, ma ancora provvisoriamente in funzione (con reclusi in diminuzione).

Centri di osservazione

Creati come istituti autonomi o sezioni di altri istituti nel 1961 con circolare ministeriale che per l’avvio di una sperimentazione relativa all’osservazione scientifica della personalità dei detenuti; questa sperimentazione fu avviata solo nell’istituto di Rebibbia, a Roma, e successivamente abbandonata.

Spesso nello stesso Istituto penitenziario convivono sezioni che funzionano come case circondariali con altre sezioni dirette all’esecuzione delle pene.

La legge del 1975, modificata molte volte, soprattutto in merito alle pene alternative alla detenzione, stabilisce i principi generali cui deve attenersi la permanenza in carcere.

L’articolo 1 recita:

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato all’assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”.

Sino a oggi, l’attuazione della legge in relazione al “trattamento rieducativo” e “reinserimento sociale” è, stando alle cronache e alle testimonianze, molto carente.

In particolare, il lavoro carcerario è regolamentato da norme obsolete, che lo rendono una concessione rara, e spesso arbitraria , anziché l’esercizio di un diritto e di una possibilità di effettivo reinserimento.

Per mantenere effettivi i diritti dei detenuti, così come garantiti dall’ordinamento penitenziario, che per legge dovrebbero essere garantiti dall’amministrazione penitenziaria e con la ulteriore vigilanza dei magistrati di sorveglianza, diverse regioni o comuni hanno istituito un garante dei diritti dei detenuti con funzione di sollecitazione verso l’amministrazione penitenziaria, garanti che poi hanno trovato riconoscimento legislativo dall’autorizzazione loro concessa di visitare le carceri e incontrare i detenuti.

Il decreto-legge 23 dicembre 2013 n. 146 ha istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, organismo dotato di effettivi poteri di controllo dello stato di detenzione, anche su indicazione dei garanti locali, nel mentre viene pure istituito un effettivo procedimento giudiziario avanti il magistrato di sorveglianza competente per l’accertamento ed il rimedio ad eventuali abusi.

I termini legati al carcere sono:

Il secondino che nel parlare comune è la guardia carceraria

Il superiore è definito nel gergo dei detenuti la guardia carceraria

Il lavorante è definito dall’amministrazione chi svolge un lavoro (retribuito simbolicamente) in favore dell’amministrazione stessa, che può essere di pulizia uffici, cucina dei pasti per i detenuti, distribuzione dei pasti ai detenuti, manutenzione degli edifici dell’amministrazione, spesino

Il casanza è definito nel gergo dei detenuti il vitto fornito dall’amministrazione

Il peculio è giuridicamente definita la somma nella disponibilità del detenuto (in quanto nelle proprie tasche al momento dell’arresto o derivante da lavoro retribuito svolto all’interno del carcere o versata da terzi dall’esterno), depositata in apposito fondo (peculium era nel diritto romano il denaro od altri beni di proprietà di uno schiavo, in quanto derivante da assegnazioni del padrone o premi o mance, anche di terzi), utilizzabile solo per il sopravvitto, il pagamento delle spese di mantenimento sostenute dall’amministrazione, il sostegno economico alla propria famiglia od il pagamento di spese legali e non pignorabile per altri debiti del detenuto.

Il sopravvitto sono giuridicamente definiti i beni che un detenuto ha facoltà di acquistare all’interno del carcere con le somme disponibili come peculio

Lo spesino è definito nel gergo dei detenuti il detenuto addetto, su controllo e designazione dell’amministrazione penitenziaria, a raccogliere le richieste dei detenuti per i generi da ottenere come sopravvitto e a consegnarli, dopo averli ottenuti dal magazzino dell’amministrazione.

Dott.ssa Concas Alessandra

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