I principi della Legge di Riforma dell’Ordinamento Penitenziario in relazione al sovraffollamento carcerario

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La questione del sovraffollamento carcerario in Italia è in questo periodo di stretta attualità, e viene esposta quasi in modo derammatico dai vari media.

Ricordando l’importanza della prospettiva storica, sembra opportuno ripercorrere le tappe evolutive che hanno portato alla riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975, al fine di comprenderne i principi, che sono alla base anche delle successive leggi in questo ambito, e di stimolare la riflessione sull’angosciante  questione del sovraffollamento dei detenuti nelle carceri, il quale non può non interpellare la coscienza dell’operatore giuridico e giudiziario ancora prima di quella del politico e del comune cittadino.

In questo settore lo spartiacque tra il precedente e l’attuale, è rappresentato dalla  Riforma Penitenziaria del 1975, la quale sostituisce definitivamente il regolamento carcerario di epoca fascista, varato nel 1931, la quale sottostante ideologia della pena, era ancorata ad una concezione risalente nel tempo, e attingeva ancora ad un sistema di valori imperniato a privazioni e sofferenze fisiche come strumenti privilegiati per favorire il pentimento e la rieducazione del reo.

In quella visone, la collocazione del carcere nel contesto della società era dettata da esigenze di isolamento, privilegiando una disciplina che rendeve molto limitati i rapporti con l’esterno, confinati a colloqui, corrispondenza e visite dei prossimi congiunti, che risultava modellata sulla leva delle ricompense e delle punizioni.

L’impermeabilità con la società esterna era rafforzata anche dalla inaccessibilità agli istituti penitenziari da parte di persone estranee all’amministrazione carceraria, tassativamente consentita esclusivamente ad un esiguo elenco di personalità.

Questo isolamento si rispecchiava anche nell’architettura carceraria, ispirata al modello del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, che nel 1791 aveva pubblicato un progetto di carcere battezzato con il nome di Panopticon.

Una simile struttura era congegnata per isolare i detenuti anche all’interno, al fine di controllarli meglio senza essere visti.

Costruita come un edificio semi-circolare, al centro del quale era collocata la sede dei sorveglianti, le celle si trovavano lungo la circonferenza ed erano interamente esposte allo sguardo delle guardie, dei muri isolavano i prigionieri l’uno dall’altro, in modo da rendere loro impossibile vedersi e comunicare reciprocamente.

La torre di sorveglianza, con un sistema di imposte, permetteva di vedere senza essere visti, e ognoi prigioniero, non potendo mai avere la sicurezza di non essere sorvegliato, si sarebbe sempre comportato con disciplina.

A livello organizzativo interno, la struttura penitenziaria si caratterizzava per un’impronta gerarchica, centralizzata e verticistica, con la figura del direttore che costituiva il punto di intersezione tra l’amministrazione centrale, dalla quale chiedeva e riceveva le autorizzazioni, e l’Istituto penitenziario, il quale personale di custodia gli era completamente subordinato.

La dimensione organizzativa dell’amministrazione penitenziaria, con le esigenze di disciplina ad essa connesse, risultava essere in cima alle preoccupazioni di chi deteneva il potere.

Il sistema penitenziario condensato nel regolamento del 1931, poggiando su assetti e strumenti indirizzati a conseguire un’adesione coatta alle regole, attraverso punizioni, privilegi e senza disdegnare pratiche di violenza, non poteva più essere tollerato con l’avvento dei principi democratici della Carta Costituzionale della Repubblica, informata ai valori della dignità della persona umana e della sua inviolabilità, dell’uguaglianza formale e sostanziale, della tutela dell’integrità psicofisica di ogni uomo, e più specificamente orientata al ripudio dei “trattamenti contrari al senso di umanità” nonché alla instaurazione di misure prioritariamente rivolte alla “rieducazione del condannato” (ex art. 27).

Con il succedersi di numerose iniziative ministeriali e parlamentari ed anche grazie alle rivolte dei detenuti del 1969, il clima politico-istituzionale riguardo alla detenzione carceraria cambiò in modo radicale.

Punto di approdo della sensibilità fu la legge 26 luglio 1975, n. 354 recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della libertà”, che recepisce, dopo molti anni, il dettato costituzionale di un altro sistema penale, fondato sulla rieducazione e finalizzato al reinserimento sociale del detenuto.

Nella legge del ’75 la centralità della figura del detenuto declina una serie di conseguenze intese alla sua promozione e al suo riscatto sociale, assicurando in primis allo stesso il lavoro, sia all’interno sia all’esterno del carcere.

I principi costituzionali di inviolabilità, integrità e dignità della persona umana nonché di effettiva uguaglianza trovano espressione nell’impianto dell’ordinamento penitenziari con l’affermazione dell’assoluta imparzialità nei riguardi dei detenuti, “senza discriminazioni in ordine di nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose” (ex art. 1 comma, 2 ord. penit.).

Parità di condizioni di vita negli istituti penitenziari devono essere garantire a ciascuno dei detenuti (ex art. 3, ord. penit.), nessuno tra essi “può avere, nei servizi dell’istituto, mansioni che comportino un potere disciplinare o consentano una posizione di preminenza sugli altri” (ex art. 32 comma 3 ord. penit.), il carcerato non è più un numero di matricola, perché “i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome” (ex art. 1 comma 4 ord. penit.).

L’ordinamento penitenziario vigente risulta rimodellato dal legislatore non esclusivamente in ragione del semplice riconoscimento dell’elementare diritto ad un trattamento conforme alla sua qualità di persona umana, ma in ossequio all’articolo 27 della Costituzione, in funzione del recupero sociale del condannato.

Questo principio ispiratore ha un preciso riscontro anche nelle norme regolamentari (D.P.R. 431/76), nel quale è disposto che “la sicurezza, l’ordine e la disciplina degli istituti penitenziari costituiscono la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento”.

Con il superamento definitivo della finalità semplicemente custodialistica insita nel regolamento del 1931, si lavora verso la riforma ordinamentale, focalizzando la privazione della libertà, aspetto afflittivo della pena, come mezzo di trattamento individualizzato rivolto al recupero sociale del condannato, e non come scopo ultimo fine a se stesso.   

Al pari di ogni grande riforma capace di incidere in modo profondo e sostanziale sull’assetto dei rapporti umani e valoriali, l’attuazione della legge 354/’75 non è stata immediata in ogni suo aspetto, sono passati molti anni prima di dare l’avvio ad una reale, anche se lenta, riforma dei vari apparati delle istituzioni carcerarie, a partire dagli edifici, alcuni dei quali addirittura risalenti al 500 -600, sino alla qualificazione del personale e allo stesso trattamento delle pene e dei detenuti.

Il concetto di umanizzazione della pena è evidente sin dall’art. 1 comma 1, della legge di riforma, con la quale è stabilito che “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.”.

L’ultimo comma dello stesso articolo centra l’obiettivo del recupero e dell’individualizzazione della pena:

 “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi.

Il trattamento é attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

Questo criterio applicativo della pena costituisce un elemento innovativo, che si traduce in concreto nell’osservazione scientifica della personalità di ciascun detenuto, così da costituire un programma individuale, utile per assegnare al detenuto il tipo di istituto e la sezione più adatti in cui scontare la pena.

L’intero art. 13 stabilisce minuziosamente la funzione dell’osservazione metodica della persona del carcerato, a partire dai suoi bisogni, e il relativo dinamismo dell’azione trattamentale della pena, volto a ridurre gradualmente lo iato tra il programma e l’effetto prodotto, in ragione della modifica comportamentale indotta e del risultato concretamente rilevato e misurato in vista dell’effettivo recupero:

“Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto.

Nei confronti dei condannati e degli internati é predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L’osservazione é compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa. Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed é compilato il relativo programma, che é integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione. Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite, unitamente ai dati giudiziari, biografici e sanitari, nella cartella personale, nella quale sono successivamente annotati gli sviluppi del trattamento pratico e i suoi risultati. Deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento”.

 L’art. 4 dell’ordinamento segna un’altra fondamentale discontinuità rispetto al regolamento del 1931, perché riconosce al detenuto una propria soggettività giuridica in grado di identificarlo e definirlo come portatore di aspettative e soprattutto titolare di quel complesso di diritti che accomunano l’essere umano, attinti ai valori tutelati dalla Costituzione, come quelli relativi all’integrità fisica, ai rapporti familiari e sociali, all’integrità morale e culturale; sostanziandosi altresì in alcuni diritti specifici che appartengono alla condizione di detenuto e che in tale veste lo legittimano ad agire.

La riforma  prende in considerazione ogni aspetto della condizione carceraria, modificando anche il regime delle spese per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza detentive, gli edifici penitenziari, l’igiene personale, il servizio sanitario, nonché le attrezzature per le attività di lavoro, di istruzione e di ricreazione.

Nel merito del trattamento, la riforma contempla una serie di attività che convergono con l’obiettivo del recupero psicofisico e della promozione della personalità, assegnandone lo sviluppo, come evocato all’art. 3 della Costituzione per ogni cittadino, alla valorizzazione delle risorse, degli strumenti e dei fattori da attivare in ogni percorso di crescita umana, e quindi validi anche nel carcere, quali l’istruzione, il lavoro, le espressioni culturali, ricreative e sportive, nonché gli opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia.

Il principio della discontinuità della pena, declinata in duplice modalità, una realizzata con la flessibilità dei permessi (che permette ai detenuti di riallacciare periodicamente i rapporti umani, a partire da quelli familiari) e l’altra con la liberazione anticipata, sottintende ancora una volta il superamento di una visione vendicativa della pena, radicando la concezione rieducativa della stessa. Il magistrato di sorveglianza presiede al monitoraggio del comportamento del detenuto, osservandone il divenire della personalità ed accertandone l’eventuale partecipazione al processo riabilitativo per concederne una riduzione della pena.

La riforma del ’75, come sopra evidenziato, tende a realizzare il recupero e il reinserimento sociale del detenuto avvalendosi di “spazi” e “attività” tipicamente rivolte alla promozione e sviluppo della persona umana, attraverso l’istruzione, il lavoro, la religione, le attività ricreative, culturali e sportive, nonché favorendo opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Questi sono gli elementi del trattamento che mirano a superare la chiusura e l’isolamento del mondo carcerario.

Un altro importante principio, è quello che prevede l’apertura ai mondi vitali della società libera, e il coinvolgimento della comunità esterna, profilando l’abitudine a uno scambio tra popolazione detenuta e popolazione libera, finalizzato alla rieducazione e al reinserimento dei detenuti nella società.

A scolpire questa prassi di rapporti con l’esterno ci pensa l’articolo 17 dell’Ordinamento Penotenziario, il quale apre definitivamente le porte del carcere al mondo esterno, stabilendo che la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita sollecitando la partecipazione di privati e di istituzioni pubbliche o private all’azione rieducativa.

Ogni soggetto interessato al fine della risocializzazione dei detenuti è abilitato a frequentare gli istituti penitenziari con il permesso del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, contribuendo, in questo modo, a promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera.

Una commissione composta dal direttore dell’istituto, dagli educatori e dagli assistenti sociali, dai rappresentanti dei detenuti e degli internati, è deputata a gestire tali attività e a tenere i contatti con il mondo esterno utili al reinserimento sociale.

L’art. 19, dell’Ordinamento Penitenziario, disciplina la formazione professionale, concepita come attività istruttiva parascolastica rivolta a favorire il processo di reinserimento sociale del detenuto con l’apprendimento delle tecniche riferite ad una attività produttiva, senza ricorrere allo strumento dell’imposizione, e prevedendo una serie di incentivi (economici, concessione di alcuni benefici) indirizzati a sollecitare il detenuto nel compimento di una scelta, tendenzialmente libera e responsabile, in ordine alla frequenza dei corsi.

L’amministrazione penitenziaria, da parte sua, è chiamata a stimolare gli interessi umani, culturali e professionali dei detenuti, che non si esauriscono con l’interesse verso la esclusiva formazione scolastica e professionale, e per questo si imoegna a promuovere l’accrescimento del bagaglio culturale del recluso.

Si evidenzia così lo spazio nelle maglie normative ai riferimenti espliciti alla possibilità di accesso alle pubblicazioni contenute nella biblioteca, che deve essere istituita presso ciascun istituto, preoccupandosi anche di scegliere testi e riviste che garantiscano una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale esistente nella società (ex art. 21 comma 2 reg. esec.).

L’ Ordinamento Penitenziario è attento a segnare una linea di demarcazione tra il momento dell’istruzione dalle attività culturali in genere, le quali sono raccolte nell’art. 27 dell’Ordinamento Penitenziario, nel quale è prevista l’ apertura verso le attività che contribuiscono all’affermazione della personalità dei detenuti.

Accanto ai benefici che possono essere concessi per la partecipazione a queste attività, è posta particolare attenzione al pluralismo culturale e alla valorizzazione di ogni dimensione artistico-culturale-sportiva (teatro, sport, redazione di giornali interni, musica, pittura) specialmente quando favoriscono la partecipazione dei condannati, tanto da prevedere – ai sensi dell’art. 59 reg. esec. – che i programmi delle attività culturali, ricreative e sportive devono essere articolati in modo da privilegiare possibilità di espressioni differenziate.

Vi è poi il capitolo delle misure alternative alla detenzione, che costituiscono il profilo più innovativo della riforma del ’75.

Queste misure possono consistere nell’affidamento in prova al servizio sociale, nella semilibertà o nella detenzione domiciliare dopo aver scontato metà di determinate pene.

 Prima il soggetto veniva condannato dal giudice della cognizione ad una pena che doveva essere scontata necessariamente per intero.

Il giudice per emettere la condanna prendeva in esame esclusivamente il fatto nella sua “oggettività storica”, mentre il soggetto, la sua pericolosità e la reiterazione del reato rientravano esclusivamente come situazione aggravante o scriminante del reato.

Nel ’75 le cose cambiano e finalmente comincia ad essere attuato un articolo importante del dettato costituzionale, l’articolo 27, in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non a caso la Costituzione utilizza il verbo “tendere”, perché non ci può essere la sicurezza della rieducazione attraverso la pena, e all’interno degli istituti penitenziari viene fatto un tentativo di rieducazione, estremamente  utile ed importante, perché una pena che è soltanto affittiva non comporta alcuna situazione di vantaggio.

Questo tentativo dovrebbe fare in modo che la permanenza in istituto rappresenti per i detenuti un momento di riflessione, di revisione critica del proprio vissuto e del proprio reato commesso, per un ritorno all’esterno in condizioni migliori.

Il soggetto è aiutato in questo da una serie di operatori del trattamento rieducativo (assistenti sociali, psicologi, educatori, criminologi) previsti per la prima volta dall’ordinamento penitenziario del ’75, nonché dagli operatori della polizia penitenziaria (che sono proprio quelli più vicini ai detenuti), che prima di questa legge avevano esclusivamente una funzione di controllo, cioè avevano il compito di garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari.

Questi operatori attuano il trattamento di rieducazione avvalendosi di strumenti detti elementi del trattamento, che in parte rappresentano anche i diritti fondamentali dei detenuti.

Dal ’75 in poi, la condanna non è fissa e immutabile, stabilita dal giudice della cognizione, ma  può essere rimodulata in relazione a quelli che sono i progressi che il soggetto ha compiuto all’interno dell’istituto sul piano della rieducazione, colti dall’amministrazione e valutati dal magistrato di sorveglianza.

Questo perché si era compreso che una volta ottenuta la rieducazione del soggetto una sua ulteriore permanenza all’interno dell’istituto risulterebbe inutile e anzi dannosa, non esclusivamente per il soggetto stesso, per il quale la pena diventerebbe solo afflittiva, ma anche per la stessa collettività, la quale sarebbe chiamata a sostenere dei costi superflui.

La magistratura di sorveglianza è deputata a gestire l’attivazione di questo insieme di misure attuando una collaborazione inedita tra organo giudiziario ed amministrazione penitenziaria.

Dott.ssa Concas Alessandra

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