Codice civile della paternità

Scarica PDF Stampa

Nell’antica Roma la figura del “pater familias” era così definita e dominante (aveva anche il cosiddetto “ius vitae ac necis” o “vitae necisque potestas” sugli altri membri della famiglia) tanto che era diffuso il parricidio (come risulta dagli studi della giurista e storica Eva Cantarella)[1]. Oggi, invece, si rischia (o è già in corso) una sorta di “parricidio diffuso”, in quanto la figura del padre non è delineata né riconosciuta adeguatamente nelle scienze umane, in primis il diritto, e nella quotidianità (dall’essere padre latitante al fare il “mammo”).

Fino al decreto legislativo 154/2013, l’ultimo riferimento relativo al padre nel codice civile compariva nell’art. 316 coma 3, in cui si leggeva: “Se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili”. Disposizione – per quanto anacronistica e opinabile, perché retaggio della famiglia patriarcale cui era improntata la disciplina codicistica prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 – dava al padre un ruolo ed una differenziazione di ruolo, come può essere quello dello Stato, del paese d’origine, di un presidio. La protezione è insita nella figura del padre perché tale è il significato etimologico, “colui che protegge, sostiene, mantiene la famiglia”. Da “padre” è stata ricavata la parola “paternità” al femminile come “maternità”, perché l’una si realizza con l’altra nella genitorialità. La paternità è una relazione non scontata o connaturale, come può sembrare la maternità. “Non riesco a considerare nessuna necessità nell’infanzia tanto forte come la necessità di protezione del padre” (citazione attribuita a Sigmund Freud che dava molta importanza al ruolo del padre).

In seguito ai continui rimaneggiamenti legislativi sono stati eliminati tutti i riferimenti normativi alla figura paterna nel codice civile ed è rimasta solo la locuzione “diligenza del buon padre di famiglia” nell’art. 1176 cod. civ. relativo all’adempimento delle obbligazioni, rubricato “Diligenza nell’adempimento”, al cui primo comma si legge: “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”. Corresponsabilmente padri e madri abbiano la medesima diligenza affinché la figura paterna non sia ulteriormente esautorata o derubricata a livello familiare e sociale. Alla paternità non solo si addice l’art. 1176, ma anche l’art. 1177, “Obbligazione di custodire”: “L’obbligazione di consegnare una cosa determinata include quella di custodirla fino alla consegna”. Custodia (etimologicamente “coprire, difendere”) richiesta al padre in qualsiasi momento, ma ancor di più nei casi di separazione/divorzio. Applicabile pure l’art. 1178, “Obbligazione generica”: “Quando l’obbligazione ha per oggetto la prestazione di cose determinate soltanto nel genere, il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media”. Disposizione che vale soprattutto nei casi in cui si pretende troppo dai padri per l’assegno di mantenimento.

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, afferma: “Sono convinta dell’importanza della figura materna a tutti i livelli d’età, ma qui si esagera. Che fine ha fatto il padre? Colui che per la psicologia dovrebbe traghettare il figlio verso il mondo esterno ed essere il depositario dei valori morali e sociali? Perché ha perso quell’autorevolezza che per secoli ha contraddistinto il suo rapporto con la prole? Non ho una spiegazione convincente al riguardo. Non posso fare altro che invitare i padri, soprattutto quelli con figli ancora bambini, a riflettere sull’importanza del loro ruolo, a non abdicarvi. Perché privarsi della gioia di percorrere un pezzo di strada insieme al proprio figlio?”. Essere padre non deve significare solo avere un organo genitale capace di produrre liquido seminale atto al concepimento della vita (secondo i latinisti “sperma” ha la stessa radice etimologica di “speranza”), ma soprattutto avere un cuore atto al concetto di vita e all’adempimento della paternità che è un’obbligazione che lega per tutta la vita e che richiede diligenza (etimologicamente “capacità di scegliere, separare”), ovvero che si operi con amore, con cura sollecita e assidua. “Tenerezza” (da “malleabile, che si lascia stendere”) è propria della madre il cui grembo si stende per accogliere il nuovo essere. “Autorità” (da “autore”, “colui che spinge, promotore”) è propria del padre il cui spermatozoo si spinge in avanti per fecondare una nuova vita. I ruoli sono designati già dalla natura (etimologicamente “ruolo” era il “rotolo di carta” su cui si scriveva). In realtà “tenerezza”, facendo un’indagine latinistica dell’etimo, indica le qualità “consustanziali” (distinte, ma identiche nella sostanza affettiva e relazionale) dell’agire materno e paterno nei riguardi del lattante: il contenere e l’abbracciare della madre (verbo “tĕnĕo”, “tenere, tenere in sé”) e il custodire fermo del padre (aggettivo “tĕnax”, “che tiene saldamente”). A dimostrazione dell’unitarietà e univocità della genitorialità nell’incontro tra maternità e paternità.

“Mio padre ha poggiato i suoi sogni sulle mie spalle facendomi studiare fotografia” (così Vittorio Storaro, direttore della fotografia). I genitori, ed in particolare i padri, non devono caricare di aspettative i figli né programmare la loro vita, ma trasmettere, alimentare, valorizzare sogni.

Illuminante un dialogo tra un padre ed una figlia: “Qualcosa di strano o bellissimo? – No, papà! Perché me lo chiedi sempre? – Boh, forse perché desidero che ti accada qualcosa di strano o bellissimo!” (da un film)[2]. I figli non devono essere oggetti di desideri, ma soggetti dei desideri dei genitori. In particolare il padre, “colui che protegge, che sostiene, che nutre”, dovrebbe nutrire, sostenere lo spirito, i sogni, la serenità dei figli ed in special modo delle figlie. “Egli [il bambino] ha diritto alla spensieratezza, alla risata, al gioco, ed anche ad un avvenire professionale” (dalla Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, Parigi, giugno 2007). In questo ha un ruolo fondamentale il padre, pilastro della famiglia, di cui la base è la madre ed insieme fanno “casa” (dall’origine osca di “famiglia”).

“Papà? Papà, mi senti? Lo so, non vuoi che io alzi la voce. Non vuoi nemmeno sentirla, la mia voce. Una volta, ricordi, me lo dicesti perfino, che il mio tono ti infastidiva, che ti distraeva dai tuoi pensieri. Me la ricordo fin da quando ero piccola, questa sensazione. Le volte che eri a casa, e io dovevo smettere di giocare, di guardare la televisione, di ascoltare musica. Ricordo gli occhi della mamma, spalancati di terrore, una muta richiesta di comprensione, forse di aiuto. Stai zitta, mi supplicava. Zitta. E io tacevo, per lei e per me, per non sentire sulla pelle il bruciante dolore della tua cinghia, per non dover sperimentare la terribile combinazione della tua faccia priva di espressione, del tuo sguardo vuoto e della sofferenza delle ferite sulla schiena. Mi ascolti, papà? Mi senti?” (lo scrittore Maurizio De Giovanni)[3]. La violenza paterna è una delle peggiori, se non la peggiore, perché perpetrata da una delle persone più importanti della e nella vita di ognuno. Violenza in ogni forma: percosse, faccia priva di espressione, sguardo vuoto, mancato ascolto, mancate risposte anche ad un semplice buongiorno, mancanze e assenze. E risulta ancor più deleteria per le figlie, perché incide sulla formazione dell’identità sessuale e sulla futura relazione con l’altro sesso, soprattutto quando le figlie non possono nemmeno confrontarsi ed identificarsi con una figura materna positiva.

“Papà, mi senti? Lo so che non mi risponderai. Non mi hai mai risposto. Non che ti abbia mai chiesto niente, d’altronde. E che avrei dovuto chiederti? Quali argomenti avevamo in comune? La casa, la mamma. Ma tu tornavi e ti mettevi in poltrona, lo sguardo nel vuoto, gli occhi senza niente dentro. Quegli occhi. Così simili ai miei, così spaventosamente diversi. Una finestra aperta sul nulla, sullo spazio senz’aria che c’è tra le stelle, senza la quiete di un raggio di luce. Il luogo del silenzio erano i tuoi occhi, papà. Un silenzio che infettava anche la mamma, che pure quando tu non c’eri rinasceva, come risvegliandosi in primavera dopo un lungo, inguaribile inverno. Non che fosse allegra; ma almeno il mento non le tremava di terrore come quando tu mi picchiavi, lo sguardo nel lavandino, le mani bianche per la stretta ad asciugare nervosamente un piatto già asciutto. Non parlavo di noi a scuola. Mi vergognavo dell’abissale differenza tra il mio mondo e quello delle compagne, che parlavano dei padri con tenerezza, con fastidio o con simpatia. Che ne ridevano, perfino. Io non avevo niente da ridere” (M. De Giovanni)[4]. Ci sono padri che, pur stando con i figli ed in particolare con le figlie, non riescono a contribuire alla loro crescita armonica, un po’ per incapacità un po’ per mala volontà. “I padri sono pesanti, anche e soprattutto quelli che non ci sono. Più sono assenti e più lasciano segni evidenti, a maggior ragione nelle figlie” (cit.). I padri non siano ladri d’amore, ma quadri di vita d’amore.

“Senso del padre” e “insieme”: è quello che dovrebbe dare ogni padre ed è quello che dovrebbe poter dire ogni figlio a proposito del padre. È anche questo uno dei significati di “ricerca della paternità”, di cui all’art. 30 comma 4 della nostra Costituzione, che va ben oltre il test del DNA e il riconoscimento della paternità.

Già nel ‘700 lo scrittore e storico francese Abbé Prévost scriveva che “Un cuore di padre è il capolavoro della natura”, perché la figura paterna è quella da cui comincia la maternità, da cui comincia la vita. Si cerchi di capirlo tutti e di contribuire tutti alla costruzione della paternità nell’ambito della genitorialità. La paternità sia diventare padre, essere padre, sentirsi padre, fare il padre con accanto una madre.

Così dovrebbe essere ogni paternità: lasciare tracce dei colori dell’amore e dileguare le negatività rinnovando e rinsaldando i valori della vita.

 


[1] E. Cantarella in “Non sei più mio padre” , Feltrinelli, novembre 2015

[2] Dal film «Ondine – Il segreto del mare» (2009)

[3] M. De Giovanni in “Le voci della pietra” (Matera, settembre 2015)

[4] M. De Giovanni in “Le voci dalla pietra”

Dott.ssa Marzario Margherita

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento