Testimoni e collaboratori di giustizia: una panoramica

Lara Farinon 01/04/24
Scarica PDF Stampa

Testimoni e Collaboratori di Giustizia sono due figure indispensabili nel contrasto alla criminalità organizzata, fondamentali per disvelare e penetrare le roccaforti delle mafie. Vengono spesso confuse, ma differiscono sia nel contenuto soggettivo che nella normativa volta a disciplinarle. In entrambi i casi, però, vi sono delle gravi criticità e l’urgente esigenza di tutela. Per approfondimenti consigliamo il volume Formulario Annotato del Processo Penale dopo la Riforma Cartabia

Indice

1. Area grigia, testimoni e collaboratori


L’agire mafioso si manifesta sempre più spesso in forme non violente, con effetti di minore percezione in termini di allarme sociale e di maggiore difficoltà di individuazione. Si declina anche nella promozione di relazioni di scambio e collusione nelle attività commerciali. Dalla corruzione, infatti, la criminalità organizzata ha mutuato il carattere collusivo consensuale, fondato cioè su cointeressenze tra l’attore e il destinatario dell’azione criminale. Nei mercati il potere delle mafie si consolida mediante il sostegno e la collaborazione di imprese, funzionari pubblici, categorie professionali, politici e altri attori con i quali vengono intessute relazioni. È la cosiddetta area grigia, che comprende spazio e modalità utilizzati dai mafiosi per stringere alleanze e accordi di collusione con gli altri attori a vario titolo presenti, offrendo loro servizi di protezione e di intermediazione, al fine di accumulare ricchezza e acquisire posizioni di potere. Congiuntamente alle intercettazioni, diventa indispensabile il contributo collaborativo offerto dai soggetti informati dei fatti: le fortificazioni della mafia hanno iniziato a sgretolarsi anche grazie alle denunce di chi conosce il sistema mafioso dall’interno, disvelandone dinamiche e attori.
È riconosciuta la qualifica di collaboratore di giustizia a colui che, essendo a conoscenza di informazioni relative ad un determinato fenomeno criminale, decide di collaborare con la Magistratura. I collaboratori hanno un passato di appartenenza ad una organizzazione criminale o mafiosa, da cui si dissociano e sottoscrivono un pattocon lo Stato basato sulla fornitura di informazioni provenienti dall’interno dell’organizzazione criminale in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari. E’ ricorrente il termine “pentito”, poiché la conoscenza del fenomeno criminale gli è derivata proprio dall’averne preso parte o dall’aver interagito in maniera più o meno diretta con gli attori responsabili dei crimini. La condotta di collaborazione deve presentare carattere di intrinseca attendibilità e deve altresì qualificarsi per novità o completezza o comunque deve apparire di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini o ai fini del giudizio. Il collaboratore non accede immediatamente ai benefici di legge, ma solo dopo che le dichiarazioni vengano valutate come importanti e inedite. La collaborazione consiste nel rendere dichiarazioni etero accusatorie e/o nel consentire il rinvenimento di materiale probatorio, ed è finalizzata a contrastare determinati fenomeni criminosi.
Si distingue, almeno formalmente, dal testimone di giustizia indicatidall’articolo 16-bis del decreto-legge n. 8 del 1991, come colui che “assume rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rende le dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato (cd. testimone vittima), ovvero di persona informata sui fatti o di testimone” (cd. testimone terzo), decide di portare il proprio contributo trasmettendo le informazioni di cui è in possesso, che siano rilevanti ai fini di indagine o di giudizio. Le dichiarazioni rese dai testimoni di giustizia possono riferirsi a qualunque tipo di reato e devono essere attendibili. I testimoni sono considerati estranei al gruppo mafioso. Tuttavia, il confine tra testimoni e collaboratori diventa labile quando il soggetto appartiene alla zona grigia. Nella qualifica di testimone può rientrare anche chi ha pagato la consorteria per affari o averne la protezione e successivamente decide di svincolarsi dalla morsa mafiosa, optando per la denuncia. Vi sono poi i “falsi testimoni”, il doppio gioco e quelli che approfittano del sistema di protezione solo per acquisire uno status, o ancora per beneficiare delle agevolazioni statali.
La differenza tra le figure di collaboratore e testimone si esplica nelle disparità di trattamento nel sistema di protezione, dovute al disvalore che la normativa attribuisce al primo, che è stato membro dell’associazione mafiosa o terroristica e quindi è coinvolto in uno o più reati e che potrebbe collaborare per un suo mero interesse personale (ricevere sconti di pena, protezione dal clan di origine, depistare l’attività investigativa, etc.). Il testimone, invece, potrebbe essere un passante della strada completamente estraneo a qualsiasi vicenda, che in virtù del suo valore civico decide di denunciare quanto ha visto, assumendosi tutti i rischi del caso, senza trarre alcun vantaggio personale. Per compensare questo sacrificio del “buon cittadino” che va incontro a pericoli e difficoltà, lo Stato ha previsto delle condizioni più favorevoli rispetto al collaboratore. Tuttavia, le vicende giudiziarie raccontano che statisticamente sono più frequenti le situazioni di vicinanza alle consorterie, rispetto a quelle di completa purezza ed estraneità. La storia ci insegna che niente è come sembra e tutto può essere l’incontrario di tutto, così il testimone di giustizia Vincenzo Scarantino, poi rivelatosi un finto testimone, ha depistato le indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino. Mentre il collaboratore Tommaso Buscetta, importante membro di cosa nostra, boss mafioso con una storia criminale, si è poi confermato attendibile e ha dato un grande contributo all’antimafia, arrivando fino alle più alte cariche dello stato, come l’accertamento a carico del divo Andreotti della sua connivenza per fatti di mafia. Per approfondimenti consigliamo il volume Formulario Annotato del Processo Penale dopo la Riforma Cartabia

FORMATO CARTACEO

Formulario Annotato del Processo Penale

Il presente formulario, aggiornato al D.Lgs. 19 marzo 2024, n. 31 (cd. correttivo Cartabia), rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per l’Avvocato penalista, oltre che per i Giudici di pace o per gli aspiranti Avvocati, mettendo a loro disposizione tutti gli schemi degli atti difensivi contemplati dal codice di procedura penale, contestualizzati con il relativo quadro normativo di riferimento e corredati dalle più significative pronunce della Corte di Cassazione, oltre che dai più opportuni suggerimenti per una loro migliore redazione.La struttura del volume, divisa per sezioni seguendo sostanzialmente l’impianto del codice di procedura penale, consente la rapida individuazione degli atti correlati alle diverse fasi processuali: Giurisdizione e competenza – Giudice – Pubblico ministero – Parte civile – Responsabile civile – Civilmente obbligato – Persona offesa – Enti e associazioni – Difensore – Gli atti – Le notificazioni – Le prove – Misure cautelari personali – Riparazione per ingiusta detenzione – Misure cautelari reali – Arresto in flagranza e fermo – Indagini difensive e investigazioni difensive – Incidente probatorio – Chiusura delle indagini – Udienza preliminare – Procedimenti speciali – Giudizio – Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica – Appello – Ricorso per cassazione – Revisione – Riparazione per errore giudiziario – Esecuzione – Rapporti giurisdizionali con le autorità straniere.Specifiche sezioni, infine, sono state dedicate al Patrocinio a spese dello stato, alle Misure cautelari nei confronti degli enti (D.Lgs. n. 231 del 2001) ed al Processo penale davanti al Giudice di pace (D.Lgs. n. 274 del 2000).L’opera è corredata da un’utilissima appendice, contenente schemi riepilogativi e riferimenti normativi in grado di rendere maggiormente agevole l’attività del legale.Valerio de GioiaConsigliere della Corte di Appello di Roma.Paolo Emilio De SimoneMagistrato presso il Tribunale di Roma.

Valerio De Gioia, Paolo Emilio De Simone | Maggioli Editore 2024

2. Normativa in tema


La prima normativa sul tema è il decreto legge n° 625 del 15 dicembre 1979, convertito in Legge n. 15 del 6 febbraio 1980 che introduce la prima formulazione della nozione di “dissociazione”, intesa a definire colui che «dissociandosi dagli altri, si adopera a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove per l’individuazione o la cattura dei complici». Il fulcro decisivo fu il dL 8/1991 (convertito dalla legge n. 82/91), creato da Giovanni Falcone e Antonino Scopelliti. Il testo ha introdotto la possibilità per i pentiti, i testimoni di giustizia e per i loro familiari di fruire di un programma di protezione. Viene istituito il Servizio Centrale di Protezione (S.C.P.) che dispone il processo decisionale di ammissione allo speciale programma di protezione e la concreta determinazione e attuazione delle necessarie misure tutorie e assistenziali. Tale apparato normativo è stato poi aggiornato con la Legge 13 febbraio 2001, n. 45 che ha stabilito una formale e netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia nonché un diverso regime giuridico di trattamento tra le due figure; ha fissato criteri più rigidi per la selezione delle collaborazioni; ha introdotto il limite temporale di centottanta giorni, periodo entro il quale il collaboratore deve confessare tutte le informazioni e gli elementi di cui è a conoscenza; infine, ha introdotto, per l’ammissione ai benefici penitenziari, dei limiti di pena da scontare in carcere. Viene preservata la possibilità di accesso a riduzioni di pena e all’assegno di mantenimento erogato dallo Stato; viene introdotto un meccanismo di gradualità delle misure di protezione, prevedendo tre diversi livelli di tutela: 1) le misure ordinarie, alle quali provvede l’Autorità di pubblica sicurezza e, per i detenuti, l’Amministrazione Penitenziaria; 2) le speciali misure di protezione, adottate dalla Commissione Centrale prevista dall’art.10 del decreto legge n. 8/1991; 3) lo speciale programma di protezione, anch’esso di competenza della medesima Commissione. Particolarmente rilevante è la distinzione tra “speciali misure di protezione” e “speciale programma di protezione”, perché soltanto quest’ultimo, e cioè il massimo livello di pericolo e di protezione, prevede la possibilità del trasferimento in luoghi protetti e il cambiamento delle generalità, nonché misure di assistenza economica. Sono disposti dei vincoli tassativi: al collaboratore sono concessi 6 mesi di tempo per condividere le proprie informazioni; i benefici previsti dalla legge verranno concessi solo se le informazioni condivise saranno ritenute rilevanti e inedite; il soggetto dovrà in ogni caso scontare almeno 1/4 della pena prevista per i suoi reati e se si tratta di persona condannata all’ergastolo di almeno dieci anni; per i delitti di associazione mafiosa ex art. 416bis la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà; il servizio di protezione durerà fino alla cessazione del pericolo; viene evidenziata una differenza sostanziale fra i conviventi del pentito, che accedono al programma di protezione, ed altri familiari ed affini, per i quali dovrà essere accertata la presenza di un reale grave pericolo di ritorsioni. Mentre la Legge n. 6 del 2018 Disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia -che trae origine dal lavoro della Commissione Antimafia – è specificatamente formulata per la tutela dei testimoni, prevede misure riguardanti vigilanza, tutela fisica, sostegno economico, reinserimento sociale e lavorativo. La tutela viene estesa significativamente, fino a ricomprendere persone messe in pericolo per le relazioni intrattenute con i testimoni di giustizia. Il testimone ha diritto ad un indennizzo per il pregiudizio subito oppure il risarcimento per eventuali danni biologici o esistenziali, mentre sul piano degli strumenti probatori, sia il collaboratore che il testimone possono ricorrere all’incidente probatorio e all’esame a distanza. Infine, è stata introdotta la figura del referente del testimone di giustizia, che lo assiste fin dall’inserimento nel piano provvisorio di protezione. Con riferimento alle c.d. “dichiarazioni tardive” la Cassazione (Sezioni unite, sentenza n. 1150 del 2008 e Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 18048 del 2018) ha precisato che restano comunque legittime ed utilizzabili le dichiarazioni del collaboratore rese al giudice in sede di interrogatorio di garanzia, di udienza preliminare e di dibattimento.
Secondo gli ultimi dati, oggi il sistema di protezione dovrebbe riguardare circa 6500 persone: 1.277 collaboratori a cui si sommano 4915 familiari; e circa un centinaio i testimoni con 300 familiari.

3. La Commissione centrale


La Commissione centrale, prevista dall’art.10 della legge n.82/1991, è l’organo amministrativo competente alla definizione e applicazione delle speciali misure di protezione per i testimoni e i collaboratori di giustizia. La commissione è composta da un Sottosegretario di Stato per l’interno, che la presiede, da un avvocato dello Stato, da due magistrati e da cinque funzionari e ufficiali. I componenti della commissione sono preferibilmente scelti tra coloro che hanno maturato specifiche esperienze nel settore e che sono in possesso di cognizioni relative alle attuali tendenze della criminalità organizzata, ma che non sono addetti a uffici che svolgono attività di investigazione o di indagine preliminare sui fatti o procedimenti relativi alla criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico-eversivo. La commissione valuta e decide l’ammissione dei soggetti allo speciale programma di protezione, nonché la modifica e la revoca dello stesso. L’organo che da attuazione alle disposizioni della Commissione è il Servizio Centrale di Protezione, struttura interforze composta da Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e Corpo di polizia penitenziaria, inquadrata presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale della Polizia Criminale del Ministero dell’interno. Il Servizio Centrale provvede alla tutela, all’assistenza e a tutte le esigenze di vita delle persone in protezione; si compone di una struttura centrale con sede a Roma e dei nuclei periferici articolati sul territorio nazionale, i cosiddetti Nuclei Operativi di Protezione NOP, con competenza regionale o interregionale. Il Servizio mantiene i rapporti con le Autorità Giudiziarie e di Pubblica Sicurezza, nazionali ed estere, nonché con i competenti organi dell’Amministrazione Penitenziaria e con tutte le altre Amministrazioni centrali e periferiche eventualmente interessate.

4. L’evoluzione dell’istituto


Senza il contributo di nuovi collaboratori di giustizia non potremmo comprendere fino in fondo le trasformazioni di un sistema criminale che è sempre più evoluto. Tra i tanti meriti, Giovanni Falcone ebbe anche quello di disegnare la prima normativa organica in materia di protezione e assistenza dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Una regolamentazione che ha dato dignità giuridica all’istituto, prevedendo un programma per proteggere e assistere economicamente chi collabora e i loro familiari. Al fine di consentire a costoro il reinserimento sociale e la possibilità di intraprendere una nuova vita, iniziando anche un’attività lavorativa, aveva già previsto la possibilità di cambiare le generalità. L’idea di Falcone era innovativa e lungimirante, così efficiente che le mafie puntarono subito a smantellarla. La riforma della legge sui pentiti era talmente importante per Totò Riina che l’aveva inserita, assieme all’abolizione dell’ergastolo e del 41bis, tra i primi obiettivi nel suo papello, l’elenco di richieste che Cosa Nostra aveva presentato allo stato per porre fine alle stragi. Le consorterie mafiose non perdonano i collaboratori, considerati come dei traditori, per questo sono puniti con la morte e le vendette trasversali, che colpiscono i loro cari (figli e parenti). Ai feroci agguati spesso si somma anche la campagna di delegittimazione da parte della politica, specialmente se vengono fatti nomi eccellenti. La normativa approvata nel 2001 ha introdotto rigorosi accertamenti per l’ammissione al sistema di speciale protezione e per la concessione di attenuanti e benefici penitenziari. Al fine soprattutto di indurre il collaboratore a riferire prontamente tutte le informazioni in suo possesso, si è stabilito un termine massimo di 180 giorni decorrenti dalla dichiarazione di volontà di collaborare (che non si applica invece ai testimoni di giustizia). Falcone aveva già previsto che che l’attuazione delle misure di protezione avrebbe dovuto essere affidata a organi diversi da quelli investigativi e, ove possibile, a uno specifico e autonomo organismo, proprio per evitare una commistione di ruoli e di conflitti di interessi, che attraverso lo strumento della concessione o del diniego della protezione, potessero influire sui meccanismi di acquisizione delle prove.
L’istituto dei collaboratori viene crepato anche dalla recentemente pronuncia della Consulta sull’ergastolo ostativo che ha aperto ai riconoscimenti premiali per i condannati per mafia che non collaborano con la giustizia, ed il decreto legge n.162, del 31 ottobre 2022, convertito in legge il 30 dicembre dello stesso anno che appunto consente, seppur con dei limiti, i benefici premiali anche ai boss ermetici. Ipotesi questa che lascia concretamente lo spazio di ritorno operativo nelle fila della consorteria. Da ultimo, va evidenziato che mentre per il collaboratore di giustizia è previsto l’obbligo di specificare dettagliatamente tutti i beni posseduti o controllati, per gli irriducibili non è previsto un analogo dovere, ma solo quello di far fronte agli obblighi risarcitori e riparatori a favore delle vittime.  A queste condizioni, collaborare con la giustizia non è conveniente. Tutto ciò produce un evidente effetto deflattivo sulle collaborazioni di livello. I sistemi di potere criminale ai quali aderiscono le istituzioni deviate dello Stato sanno perfettamente che uno degli strumenti più importanti per contrastare la mafia, ed il potere ad essa alleato, sono proprio i collaboratori e i testimoni di giustizia. Oggi il sistema di protezione e di tutela presenta delle gravi e profonde criticità. Nella Relazione della Commissione antimafia, che ha avuto raccolto le testimonianze di oltre sessanta tra collaboratori e testimoni di giustizia, senza mezzi termini si parla di “inadeguatezza del Servizio centrale di protezione”.

Potrebbero interessarti anche:

5. Criticità


Si crea, dunque, un circuito parallelo gestito dalla Commissione Centrale che dispone se concedere o meno e in quale misura protezione a testimoni e collaboratori, con evidentissimi (e gravissimi) conflitti di interesse della politica. Il Nucleo Operativo di Polizia è responsabile sia di testimoni che di collaboratori. Le misure di protezione possono essere revocate o modificate con riferimento alla gravità, intensità ed effettività del pericolo al quale sono esposti i collaboratori. Si può, inoltre, procedere a revoca o modifica della misura per motivi disciplinari, con ampi spazi per ricatti o condizionamenti. La revoca può conseguire anche alla commissione di reati segno del reinserimento del soggetto nel circuito criminale. Ai testimoni di giustizia viene assicurata un’abitazione, la possibilità di studiare, il reinserimento lavorativo, l’assegno di mantenimento, spese legali, sanitarie. Ai collaboratori è concesso un assegno mensile, assistenza legale e spese mediche, alloggio statale.
Le criticità denunciate sono varie: deficit informativo circa i diritti e doveri connessi con l’assunzione del status di collaboratore o testimone di giustizia; sistemazioni logistiche carenti e utilizzo di immobili già destinati a famiglie di soggetti sottoposti a misure di protezione con conseguenti pericoli per la sicurezza; inadeguatezza delle misure poste a tutela dell’incolumità sia in località protetta che in quella di origine; insufficienza e più in generale inadeguatezza del sistema delle misure adottate per il sostegno economico e il reinserimento lavorativo; difficoltà connesse all’utilizzo dei documenti di copertura e all’accesso alla misura del cambio di generalità. Sui nuovi documenti vengono, infatti, trasferite le risultanze del casellario giudiziario e del centro elaborazione dati istituito presso il Ministero dell’Interno. I trasferimenti dei dati reali, però, impediscono il reinserimento sociale del soggetto. L’attuale normativa non assicura la protezione del cambio generalità nemmeno se un denunciante viene fermato per strada e sottoposto a un normale controllo di polizia. La verifica routinaria compiuta attraverso la consultazione della banca dati, tenuta presso il Ministero dell’Interno (sdi), fa emergere precedenti e identità. Per i denuncianti, testimoni o collaboratori, manca dunque il cambio di generalità definitivo. La copertura provvisoria non ha valore legale e spesso è vuota. Per lavorare, studiare o accedere a cure mediche il soggetto deve esporsi, usando la vera identità. Lo stato non converte i titoli di studio e lavorativi, come nemmeno la storia clinica, sul nome di copertura provvisorio. Il Servizio centrale di protezione può creare documenti di identità, patenti, tessere sanitarie e codici fiscali, che però non hanno alcuna corrispondenza anagrafica. Al nome falso, insomma, non corrisponde nulla e pertanto non è spendibile, o nel caso peggiore vengono caricati i dati autentici e quindi è vanificato il cambio di generalità. L’iscrizione a scuola, il contratto di locazione, documenti o prenotazioni per visite mediche sono effettuati direttamente dai Nop, facendo così venire meno la segretezza della famiglia e la possibilità di un reinserimento sociale. Questo significa anche impossibilità a lavorare, essere privati di voce e autonomia, rimanendo totalmente dipendenti dalla Commissione. Scorte e programma di protezione possono saltare velocemente. Il programma non garantisce sicurezza, alloggi e lavori compatibili con le esigenze di segretezza. I parenti molto spesso sono estranei agli ambienti criminali, ma sono intrappolati nelle inefficienze di un programma di protezione fermo da qualche decennio, che indubbiamente necessita di un aggiornamento. Dall’altra parte, occorre anche evitare che rientri nel programma di protezione chi non ne ha motivo e rischia di svilire il sistema stesso, diventando da testimone un “testimonial”. E’ necessario dare valore alle collaborazioni e testimonianze di spessore, rendere efficace la denuncia e il sistema di protezione, soprattutto nella sua fase iniziale, considerando anche la possibilità di estendere il programma e i trasferimenti in tutta Europa. Carente o quasi inesistente il supporto psicologico, come non pervenuto nemmeno un garante a tutela delle famiglie dei denuncianti, perché anche nelle retrovie sono numerose le vessazioni e le violenze. Nel panorama nazionale, è importante il ruolo svolto dall’associazione Sostenitori dei Collaboratori e Testimoni di Giustizia SCTG, fondata dal collaboratore ex ndranghetista Luigi Bonaventura, che raccogliendo molte di queste voci, è promotore e prima firmataria di una proposta di modifica normativa, volta ad una maggiore tutela dei denuncianti.

Lara Farinon

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento