Autorizzare l’apertura nei giorni festivi non compete agli enti locali

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La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza 3/04/2020 n. 7676/20, ha deciso che le aperture nei giorni non sono di competenza degli enti locali.

La Suprema Corte, in questo modo, ha disapplicato il provvedimento di un Comune che si era intromesso su alcune specifiche del fatturato come motivo per consentire l’apertura domenicale.

La ragione della decisione è da ricercare in modo principale nei motivi di competenza.

Non sono gli enti locali, come le Regioni o i Comuni, a potere decidere in modo autonomo sulla materia in questione, spetta allo Stato prendere provvedimenti in relazione alla  olitica economica e alle liberalizzazioni.

La normativa relativa è il decreto Bersani sulla riforma del commercio (d.lgs. n.114/98) che prevede siano gli esercenti a fissare in modo libero gli orari di apertura e chiusura nelle città d’arte.

Sarebbe la cosiddetta “deregulation” in vigore da anni che non può essere compressa da provvedimenti comunali che abbiano senso contrario.

Nella sentenza si parlava dell’apertura di un mobilificio di domenica.

L’ordinanza comunale disapplicata pretendeva una specializzazione merceologica del 75% del fatturato in uno dei prodotti indicati dal decreto Bersani, al fine di consentire al negozio di lavorare nel giorno festivo.

Una circolare del ministero dell’Industria che risale agli inizi degli anni Duemila spiega che, per aprire di domenica, basta che il fatturato complessivo del negozio sia composto almeno per la metà dalla vendita dei beni indicati dal decreto Bersani, che comprende anche i mobili.

Modello nel quale rientrava il negozio in questione.

La Cassazione ha escluso che l’apertura domenicale possa essere interpretata come concorrenza sleale, come sosteneva, invece, un’associazione di commercianti il cui ricorso è stato respinto. I giudici hanno spiegato che non basta la violazione amministrativa di un negoziante per ritenere che abbia danneggiato la concorrenza. Bisogna dimostrare che c’è stata una lesione dei diritti dei concorrenti tramite un’alterazione rilevante delle condizioni di mercato.

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È autore di pubblicazioni su condominio e locazioni.Serena SibonaDottoressa, laureata nel 2017 presso l’Università di Torino, ha maturato esperienze accademiche all’estero. Da gennaio 2018 si dedica prevalentemente al diritto commerciale e al trattamento dei dati personali.Caterina Sola Avvocato, partner dello studio R&P Legal, da oltre 25 anni svolge la propria attività nell’ambito del contenzioso civile, avendo maturato particolare esperienza soprattutto nei procedimenti cautelari ed esecutivi.Stefania Tiengo Avvocato, partner dello studio R&P Legal, si occupa principalmente di contenzioso civile e di assistenza alle imprese nell’ambito della contrattualistica, soprattutto nel settore immobiliare e delle locazioni.Monica Togliatto Avvocato, partner dello studio R&P Legal, dottoressa di ricerca in diritto civile presso l’Università degli Studi di Torino. 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Il decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 114

La riforma del commercio introdotta con il Decreto Legislativo n.114/98 (c.d. decreto Bersani) ha abrogato la p normativa precedente che si basava sulla Legge n. 426/71 e le sue numerose integrazioni, un passo in avanti decisivo in relazione alla liberalizzazione del settore.

L’elemento principale introdotto dalla riforma è rappresentato dalla rimozione di una serie di disposizioni che costituivano barriere nel settore da parte di altri operatori e alle modifiche delle situazioni che esistevano.

Le disposizioni erano:

  1. Abolizione del REC
  2. Abolizione delle tabelle merceologiche
  3. Abolizione dei piani commerciali
  4. Ridefinizione del regime di autorizzazione
  5. Ruolo consultivo delle rappresentanze dei consumatori
  6. Orari di apertura

 

La riforma del commercio attuata con il Decreto Legislativo n. 114/98 ha configurato una sorta di  liberalizzazione del settore, che alla fine dipendeva dal modo nel quale le Regioni attuavano la delega prevista dallo stesso.

A questo proposito, si potrebbe dire che decreto Bersani abbia costituito uno dei primi casi di realizzazione del federalismo amministrativo a “Costituzione invariata”, attraverso il principio di sussidiarietà, lasciando che  le scelte relative all’organizzazione della distribuzione nello spazio siano effettuate da coloro che se ne servivano in modo reale.

 

L’attuazione della riforma del commercio

Da quello che si scrive sopra, si può dedurre il motivo per il quale il livello di normazione regionale non possa essere valutato in modo separato rispetto a quello comunale, perché i Comuni in determinate materie hanno avuto una elevata discrezionalità.

Al contrario, in altre materie, per effetto della normativa regionale, hanno riscontato dei limiti.

Una di queste è la pianificazione, nella quale si sono dovuti attenere in modo rigoroso alle norme emanate dalle Regioni che, di solito, non hanno saputo cogliere in modo completo i contenuti della riforma.

A norma dell’articolo 117 della Costituzione, l’urbanistica è una materia di competenza regionale esclusiva, di conseguenza, si deduce che la definizione degli indirizzi relativi alla programmazione commerciale, sia compito delle Regioni.

La programmazione regionale spesso risulta essere molto condizionata da un’impostazione che assume determinate caratteristiche che rispecchiano una incapacità di distacco da altri modelli, dalla logica dell’equilibrio della domanda e dell’offerta e dai parametri quantitativi.

Dal quadro nazionale si deduce che non esiste un’interazione stretta tra gli indirizzi programmatici di carattere economico commerciale e la pianificazione regionale e comunale e, allo stesso modo, si deve riconoscere la maggiore propensione all’innovazione dimostrata dagli enti comunali rispetto alla resistenza del livello regionale.

In relazione a questo, si dovrebbero ricordare i diversi dubbi di interpretazione sorti in molte amministrazioni nel periodo successivo all’entrata in vigore della riforma, sulla portata dell’articolo 6, comma 5 del Decreto Legislativo n. 114/98 nel termine “adeguamento” degli strumenti urbanistici comunali.

Una soluzione eccellente fu fornita nell’Accordo raggiunto nella Conferenza Unifica tra Stato, Regioni e Comuni del 21 ottobre 1999, che sottolineò che il fine primario della norma fosse quello di rendere compatibile a livello locale l’impatto territoriale e ambientale degli insediamenti commerciali con una considerazione primaria di alcuni fattori, vale a dire, l’accessibilità, la mobilità, il traffico e l’inquinamento e la valorizzazione della funzione commerciale al fine della riqualificazione del tessuto urbano.

Ha anche indicato che al fine di rendere possibile l’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti ai principi e modelli di omogeneità e di razionalità della normativa del settore commerciale nonché,  al fine di rendere operativa la riforma introdotta dal Decreto Legislativo n. 114/98 e garantire tempi sicuri all’utenza, si doveva richiamare l’opportunità che, le Regioni e gli enti locali, rispettando i limiti e le sfere di autonomia garantita, utilizzassero le procedure previste dagli istituti di semplificazione e rendessero meno stringente il procedimento amministrativo previsto dall’ordinamento.

In molti Comuni, sono stati approvati Piani attuativi del Decreto Legislativo n. 114/98, nel quale si è affermato come gli insedianti commerciali dovessero tendere, sia al recupero del patrimonio edilizio che esisteva, sia a riequilibrare il profilo urbanistico di alcune aree costituite da un tessuto urbano poco stabile, da qualificare e dalle periferie più degradate.

Queste affermazioni di sicuro vennero spiegate attraverso la circostanza che in quegli anni era stata raggiunta la consapevolezza della relazione molto stretta che esisteva tra le questioni del territorio, quelle di carattere urbanistico e la programmazione della rete di distribuzione nel suo complesso.

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