inserito in Diritto&Diritti nel novembre 2001

 Alcune riflessioni in tema di procedimento penale a carico di “minori nomadi”.

***


Di
Massimo D'Urso

 

INDICE

 

1. Premessa__ p. 2

2. Un tentativo di comprendere le ragioni della devianza. 
Un approccio sociologico __ p. 4

3. Il contatto del minore nomade con la giustizia. 
La cultura della marginalità __ p. 7

4. Il problema dell’identificazione. 
Un presupposto etico per il  giudice __ p. 10

5. La prassi applicativa dei precedenti dattiloscopici. 
La diversa tecnica dell’accertamento dell’identità giudiziaria __ p. 15

6. L’attribuzione dell’età al minorenne __ p. 19

7. Le misure cautelari applicabili __ p. 24

8. La valutazione dell’imputabilità del minore zingaro __ p. 29

9. La diversità degli esiti giudiziali __ p. 33

10. Al modo di una conclusione __ p. 37

Bibliografia __ p. 39

 

1. Premessa.

 

Afferma autorevole dottrina che la percezione del minore irregolare, come un tempo si usava dire, o deviante[1], come oggi si preferisce, o delinquente, per usare un linguaggio più crudo ma più vicino al pensiero comune, è oggetto di profonda contraddizione. Vi sono in gioco ancestrali pregiudizi sociali nei confronti del “delinquente nato” e del minore “ribelle” il quale, a dispetto dell’età, rifiuta le regole e non riconosce l’autorità dell’adulto e dei suoi simboli e rappresentanti[2].

In realtà, superato questo primo superficiale approccio, risulta sempre più avvertita, anche in un’opinione pubblica distratta e molte volte depistata in senso allarmistico dai mass-media, la consapevolezza che la devianza minorile è spesso prodotto della incapacità degli adulti di sapere offrire all’adolescente modelli credibili, scale valoriali, appartenenze etiche non solo effimere, egoistiche e consumistiche.

Al riguardo, secondo un ulteriore orientamento dottrinale, l’atteggiamento della pubblica opinione verso il minore debole e perciò stesso potenzialmente inadeguato alla assunzione di responsabilità, e la politica minorile che ne consegue, risultano contraddittori in quanto devono conciliare tutela e punizione: bisogna “farsi carico allo stesso tempo dei bisogni del minore, dei suoi diritti e del diritto della società a difendersi dalla trasgressione”[3].

Una simile problematica assume, nel contesto giuridico oggetto della nostra analisi, una rilevanza esponenziale, atteso che la situazione dei minori nomadi, i loro comportamenti delittuosi, il tipo di cultura di cui sono portatori, necessitano di approcci e strategie adeguate, specie in questi ultimi anni in cui il fenomeno nuovo dei minori stranieri extracomunitari rischia di appiattire le problematiche dei minori zingari slavi su quelle più generali dei minori stranieri, facendo perdere ulteriormente la coscienza  della specificità del mondo zingaro.

Ed invero, la criminalità minorile nomade è connotata da una serie di originali peculiarità che hanno una caratterizzazione a matrice anomala difficilmente riscontrabile non solo nell’ambito della nostra cultura occidentale, ma anche in aree culturali o pseudo-culturali differenti dalla nostra.

In buona sostanza, il contesto deviante zingaro si segnala per il target familiare, culturale e sociale che educa, sostiene, istiga e, frequentemente, costringe i minori al delitto; si segnala, altresì, per l’altissima specializzazione di questi ultimi nella perpetrazione di comportamenti delittuosi, specialmente nella commissione di reati contro il patrimonio (scippi e furti in appartamento, in particolare); si segnala, infine, per il contributo preponderante fornito dalle donne nella realizzazione di attività criminose, soprattutto se incinte o infraquattordicenni, attese le concrete possibilità di elusione del perseguimento penale derivanti dalle difficoltà logistiche legate alla restrizione in vinculis, nel primo caso, e dalla inesorabile declaratoria di non imputabilità, nel secondo.

Questa deficienza di attenzione, coscienza e riflessione ha generato, in ogni caso, delle modalità di approccio genericamente punitive e comunque ininfluenti dal punto di vista della deterrenza.

Scopo del presente lavoro sarà, quindi, quello di fornire alcuni spunti di riflessione e di approfondimento in ordine alla vexata quaestio riguardante la posizione che il nomade assume all’interno del procedimento penale minorile, tenendo conto, peraltro, delle strategie processuali praticate e di quelle invece auspicabili. Ed invero, come affermano illustri autori, la “questione zingara” viene trattata quasi esclusivamente dagli operatori dei servizi minorili e dai giudici minorili: in altre parole, la “questione zingara” viene ridotta a questione di minori zingari delinquenti. Non si è ben compreso che considerare questo fenomeno solo una manifestazione di “delinquenza minorile” è fuorviante[4].

Aggiungiamo noi che non si può restare confinati dentro l’anacronistica logica che l’unica soluzione praticabile è quella di esasperare la politica repressiva nei confronti dei soli minorenni. L’importanza di rompere certi determinismi si fa, quindi, sempre più urgente. Tale tematica che, a nostro avviso, rappresenta il nodo centrale di tutta la questione, avremo modo, peraltro, di sviscerarla ed approfondirla in tutte le sue sfaccettature nelle pagine che seguiranno.

 

2. Un tentativo di comprendere le ragioni della devianza. Un approccio sociologico.

 

Per capire a fondo le problematiche riguardanti la “questione zingara”, è bene intendersi, innanzitutto, sul concetto di “degenerazione integrazionista”. E’ infatti la mancata integrazione degli zingari nei sistemi economico e culturale della nostra società a comportare un loro costante rapporto con la giustizia, nel senso che non essere inseriti ad un qualche livello nell’attività produttiva implica facilmente il non poter disporre in modo lecito di che sopravvivere, e quindi il rischio di poter incorrere presto o tardi in un perseguimento penale.

Tanto premesso, giova osservare che ciò che è connaturato ai cromosomi del nomadismo zigano è proprio la “logica della contrapposizione nei confronti del gagè[5]”; una contrapposizione che tende innanzitutto a misconoscere il gagio stesso e ad attribuirgli poi una posizione poco lusinghiera all’interno del microcosmo sociale di appartenenza. L’intenzione di annullare il gagio sarà tanto più decisa quanto più verrà percepito il suo potenziale destabilizzante.

Si afferma nella letteratura sociologica che, per qualsiasi membro di una Kumpania[6], ribadire a se stesso e agli altri l’estraneità culturale di un gagio in visita al campo, è pratica sottile e quotidiana: linguaggio, gestualità, stati d’animo, contenuti, vengono implicitamente tradotti in una specie di codice collettivo che ha la capacità di trasformare l’incontro in un non incontro a garanzia di una distanza sentita come necessaria[7].

Ciò posto, giova ulteriormente osservare che le riflessioni che i contesti sociali zingari hanno maturato e continuano a maturare, a tutt’oggi, in ordine alle problematiche connesse al concetto di attività economica assumono connotazioni del tutto alternative e difficilmente percepibili se confrontate con il nostro back-ground culturale, posto che l’esigenza fortemente avvertita dal complesso delle comunità Rom, anzi sentita quasi come indispensabile, è legata soprattutto alla necessità di un’ampia flessibilità nell’organizzazione della giornata lavorativa.

Da ciò si comprende perché l’attività remunerativa che sta, in modo predominante, alla base dell’organizzazione sociale nomade, e che garantisce appunto la massima flessibilità, è connessa al Manghèl, cioè alla raccolta di elemosine, che è praticato nella quasi totalità dei gruppi familiari esclusivamente dalla moglie e dai figli (più raramente da tutti i membri della famiglia, uomini compresi).

Da queste considerazioni, inferisce, in modo abbastanza trasparente, che il lavoro dipendente è considerato poco dignitoso e degradante se parametrato alle scale valoriali di considerazione e di visibilità sociale. Può essere eventualmente ammesso, ma in casi eccezionali, solo per brevi periodi di tempo. Peraltro, il Manghèl, se confrontato con connotazioni antitetiche rispetto al lavoro dipendente, può rappresentare un reddito piuttosto stabile e sicuro, a patto che venga praticato con regolarità, e può essere, inoltre, utilizzato dai componenti di sesso maschile del clan come essenziale fondo sociale di garanzia al fine di sperimentare ed avviare, con un discreto margine di rischio, ulteriori e più disparate attività di guadagno, più o meno illecite.

Tra queste, come si ritiene ancora in sociologia, una delle più diffuse è sicuramente l’attività del furto in appartamento ad opera di minorenni penalmente meno perseguibili (figli, fratelli, nipoti, cugini, argati), praticato soprattutto dalle comunità di recente provenienza dalla ex Jugoslavia di religione ortodossa. Tale attività può rappresentare una necessità sporadica, scarsamente promossa dal clan ma giustificata da momentanee difficoltà economiche, ma può anche assumere, al contrario, le forme di un’imposizione fortemente coatta in cui lo sfruttamento del minore, da parte di adulti anche estranei alla rete parentale, viene opportunamente organizzato su vasta scala[8].

E’ sicuramente quest’ultimo l’aspetto più preoccupante di tutta la “questione zingara”. Ed invero, i presupposti strutturali di tale attività illecita ci fanno comprendere chiaramente che i minori che delinquono non sono di solito i figli di coloro che ne sfruttano i proventi del reato: quasi tutti i bambini che rubano sono argati. Tale parola, di origine slava, significa letteralmente “operaio”, ma chiaramente, nell’ambito del nostro discorso, assume un senso ed una valenza più ampi. Non si tratta, infatti, solamente della prestazione di un’attività lavorativa, bensì implica un legame del tutto particolare, un vincolo assoluto con gli adulti che godono dei proventi di tale attività.

Le inferenze logiche di tali considerazioni hanno, quindi, come ovvia e necessitata destinazione argomentativa l’emersione di un graduale processo di asservimento alla volontà del padrone e di annullamento della personalità del minore. Siamo, pertanto, di fronte ad un sistema che, se per le nostre coscienze, può essere considerato aberrante ed ai limiti di un’evoluzione in termini di “nuovo schiavismo”, per il contesto sociale delle comunità Rom rappresenta, invece, l’espressione di una normalissima ed, anzi, apprezzata e condivisa fonte di approvvigionamento economico.

Argato, pertanto, vuol dire che il minore appartiene ad un nomade, anche senza esserne figlio. Alla stessa stregua di un oggetto e per tale nomade lavora andando a rubare. Molto spesso alla base di tale rapporto vi è un vero e proprio contratto di cessione stipulato tra i genitori ed il futuro “padrone” del minore. Si tratta di una specie di contratto non scritto, ma regolato da norme molto precise e solennizzato da un giuramento musulmano “sul pane”, con il quale i genitori cedono il figlio per un periodo di tempo determinato, in cambio di un compenso che, in molti casi, consiste in una partecipazione agli utili futuri derivanti dallo sfruttamento del minore oppure nell’elargizione di una somma di denaro predeterminata per un certo periodo di tempo (in genere un anno).

Si ritiene in dottrina che un tale modus vivendi è comune ad un numero assai elevato di nomadi presenti nel nostro paese e provenienti da alcune zone della ex Jugoslavia. Addirittura spesso la suddetta cessione avviene a mezzo di intermediari il cui compito è quello di cercare bambini da acquistare nella ex Jugoslavia, portarli in Italia clandestinamente e qui cederli ad altri. Oppure i minori vengono rapiti o adescati all’insaputa dei genitori[9].

Non solo, ma l’organizzazione di tali popolazioni è studiata  talmente a fondo che esiste anche un efficiente meccanismo di recupero dei minori in caso di loro arresto da parte della polizia giudiziaria: meccanismo che si basa, come si avrà modo di specificare meglio infra, soprattutto, sulla non imputabilità dei soggetti infraquattordicenni.

Ovviamente, poi, nessuna remora impedisce molto spesso ai padroni di commettere maltrattamenti e sevizie per costringere i bambini a rubare e a non tornare a mani vuote, dal momento che per loro il minore argato è una vera e propria fonte di reddito, potendo egli guadagnare fino ad un milione al giorno.

Ciò considerato, giova pertanto osservare che la natura e la forza dei vincoli affettivi che uniscono minori e adulti zingari appaiono ai nostri occhi spesso ambigue e inafferrabili come del resto lo sono anche le stesse norme che regolano diritti e doveri all’interno delle comunità Rom. Predomina comunque, ineludibile, la fedeltà al “principio di appartenenza”, che concorre a rendere ancora meno decifrabili comportamenti che nella nostra cultura vengono definiti come “sfruttamento di minore” o “stato di abbandono”[10].

 

3. Il contatto del minore nomade con la giustizia. La cultura della marginalità.

 

Si parla spesso in sociologia di invisibilità del popolo zingaro, per l’abitudine a non comparire, a non condividere, a restare volutamente al di fuori della nostra società, ma si parla ancor di più di emarginazione e di marginalità. Ed invero, alcuni dei comportamenti tipici della società zingara hanno molto in comune con una certa cultura della marginalità formalizzata dalle piccole organizzazioni devianti che vivono di espedienti illegali[11].

Peraltro, le comunità Rom, benchè da sempre ai margini della nostra società, non hanno mai propriamente inteso se stesse come al di fuori dei corretti canoni di vita. Al contrario, si sono da sempre considerate il fulcro essenziale intorno cui tutto ruota; e non è un caso che il termine Rom venga tradotto con la parola Uomo.

In tale contesto, il minore nomade che si trova davanti ad un giudice per rispondere dell’azione criminale commessa è quindi innanzitutto un Rom; è cioè portato a reagire seguendo una logica univoca.

Quindi, secondo un pregevole orientamento sociologico, la giustizia sembra essere vissuta come una sorta di ineluttabile fatalità, in cui ogni tanto si incorre ed è indispensabile occuparsene, perchè ostacola la vita quotidiana. Tuttavia, per gli zingari i termini di questo rapporto non sono mai totalmente prevedibili, in quanto la giustizia sembra loro governata da meccanismi in buona parte incomprensibili[12].

La legge dei gagi, come sostenuto da un ulteriore indirizzo sociologico, per l’ottica che le è propria (quella de “La legge è uguale per tutti”), nella misura in cui è portata ad equiparare il minore zingaro al minore non zingaro, si propone idealmente come promotrice di un avvicinamento culturale. E tuttavia, tale avvicinamento non è affatto auspicato nè richiesto dalla parte in causa, nè a maggior ragione accettato, se realizzato in un contesto punitivo di segregazione[13].

Ciò posto, giova peraltro rilevare che gli approfondimenti relativi ai meccanismi comportamentali che hanno come protagonista il minore zingaro fanno emergere un contesto di impermeabilità e di neutralità passiva dimostrata dallo stesso nei confronti dell’autorità giudiziaria. Ed invero, risulta trasparente che né una condanna materiale del nomade né tanto meno la disapprovazione da parte dei gagi potranno influire in futuro, in maniera positiva, sulla sua condotta. Analogamente, il minore non è in grado di recepire la condizione di deviante attribuitagli, prima ancora che dalla legge, da un’intera società che lo respinga o meno, posto che si tratta di un codice culturale che non gli appartiene e che, quindi, non lo può trovare minimamente sensibile.

Il procedimento penale appare agli occhi del minore zingaro assolutamente incomprensibile ed inquietante, soprattutto se lo si venga a parametrare con i meccanismi tecnici e con le formalità procedurali che lo contraddistinguono.

Inoltre, il rapporto con l’autorità giudiziaria, considerata eccessivamente punitiva oltrechè estranea ed inavvicinabile sia da un punto di vista morale che materiale, tende ad acuire un inevitabile percorso di isolamento, destinato ad aumentare nei casi in cui sia assente il sostegno della famiglia d’origine.

Nei casi in cui, invece, la famiglia di appartenenza si stia curando del minore, anche tramite l’assistenza legale, l’atteggiamento di costui nei confronti del carcere, e dell’autorità giudiziaria in generale, appare spesso di distacco o di superiorità. Ed invero, il minore nomade è convinto di poter superare, grazie all’ausilio della famiglia e dell’avvocato, possibilmente indenne, il periodo di reclusione, che può essere vissuto anche come prova di coerenza e di fedeltà nei confronti dei valori che contraddistinguono la propria identità.

Peraltro, lo scrivente ha avuto modo di osservare, pur nella sua ancor breve esperienza professionale come avvocato minorile, che l’intervento del legale è richiesto, nella quasi totalità dei casi, al momento dell’arresto o del fermo del ragazzo. Ed invero, il tentativo della famiglia d’origine è quello di evitare che il minore possa subire l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in IPM, che se applicata intralcerebbe gravemente tutto il meccanismo produttivo dell’intera comunità Rom, posto che il ragazzo non potrebbe essere più mandato in strada a chiedere l’elemosina o a commettere furti in appartamento o scippi.

Invece, risulta di tutta evidenza che qualsiasi altra modalità cautelare, diversa dalla restrizione in vinculis, non potrebbe sortire la benché minima efficacia preventiva o deterrente, atteso che il minore, per le già evidenziate caratteristiche di marginalità del popolo nomade, esauriti i contatti con l’autorità giudiziaria, si verrebbe a trovare in una condizione di assoluta irreperibilità.

Le superiori considerazioni ci fanno, quindi, comprendere chiaramente quanto sia difficile e complesso indirizzare con efficacia gli interventi educativi.

Al riguardo, ritiene un’emergente autrice che le azioni del servizio sociale, se da una parte insinuano i meriti ed i vantaggi di una diversa etica o stile di vita, dall’altra minacciano di sgretolare i riferimenti esistenziali dei giovani zingari. Infatti, nel caso in cui il gruppo zingaro non rappresentasse più l’unico parametro di confronto, attraverso il quale il minore costruisce il proprio sè sociale, la situazione psicologica del minore, nell’ambito del circuito penale, esprimerebbe in maniera ancor più problematica il vissuto ambivalente e contraddittorio che egli già vive quotidianamente nei confronti della realtà esterna. La resistenza alle interferenze esterne è dunque tenace ma non impenetrabile; da questo punto di vista il carcere minorile, la comunità o la frequentazione assidua, da parte dei minori, di eventuali operatori sociali, sono percepiti come fattori fortemente destabilizzanti per l’intera famiglia[14].

 

Ciò posto, una messa a punto si impone.

Ed invero, giova ulteriormente chiarire che la giustizia dei gagè non è effettivamente disprezzata. In realtà, non è compresa; è considerata irrilevante o persecutoria e spesso sortisce addirittura effetti negativi, sia sul piano ideale che su quello concreto.

Per esempio, esperienze sociologiche ci fanno notare come taluni genitori si dichiarino incapaci di mandare i loro figli a rubare, come avviene in altre comunità, ma asseriscono che lo riterrebbero preferibile all’accattonaggio perchè hanno capito che, così facendo, avrebbero minori fastidi con la giustizia. Inoltre, i soldi impiegati per il compenso degli avvocati, qualora gli interessati vi ricorrano, sono sempre tratti dai proventi dell’accattonaggio, per i quali sono perseguiti con procedimenti giudiziari in cui sono difesi dagli stessi avvocati. Gli zingari sono spesso consapevoli di questo circolo vizioso, ma dicono di non essere in grado di spezzarlo a prescindere da consistenti interventi istituzionali, che prevedano maggiori possibilità di lavoro o di aiuti in denaro, atteso che si tratta, in ogni caso, di caratteristiche comportamentali che sono espressione di un modus vivendi assolutamente alternativo[15].

Questa è un’ulteriore dimostrazione di quanto siano delicati gli spazi d’intervento del servizio sociale, posto che quest’ultimo si trova ad operare nell’ambito di un microcosmo culturale che, purtroppo, nella maggior parte dei casi, risulta del tutto refrattario a qualsiasi tentativo di mediazione.

Peraltro, la mediazione necessaria non è quella tipica; quella, cioè, che il servizio sociale adotta nella generalità dei casi e grazie alla quale riesce a fungere da tramite tra l’individuo e la più ampia società, per mettere il primo in grado di relazionarsi con maggiore efficacia con le strutture di quest’ultima, lungo un percorso di avvicinamento culturale, di migliore utilizzo delle risorse, di rispetto delle regole e, quindi, di integrazione sociale sempre più riuscito. La mediazione richiesta si lascia agevolmente individuare ed è di più ampia portata: è la mediazione tra due mondi, tra due universi differenti e tra loro per molti aspetti incompatibili.

E non è tutto. Ed infatti, rimanendo così lo stato delle cose, la vigilanza sociale esperita dal diritto e poi, in concreto, grazie all’esercizio dell’attività giudiziaria non potrà ottenere, almeno nel breve periodo, consistenti riscontri positivi, in termini di attenuazione della delinquenza nomade, atteso che interviene con configurazioni esclusivamente repressive sugli effetti della c.d. “degenerazione integrazionista”, come supra esemplificata, in ordine alla quale sarebbe forse più opportuno risalire alle cause della sua nefasta evoluzione, apparendo, quindi, più efficaci interventi che abbiano una funzione di prevenzione.

 

4. Il problema dell’identificazione. Un presupposto etico per il giudice.

 

Negli ultimi anni, secondo un pregevole orientamento dottrinale, nell’opinione pubblica italiana, con riguardo alla posizione degli immigrati stranieri, e degli zingari slavi in particolare, si è fatta avanti sempre più l’idea dell’esistenza di un panorama sociale invertito, dove sullo stereotipo del “bambino”, considerato come personaggio positivo, buono, da proteggere e aiutare, ha prevalso quello dello “straniero”, qualificato come personaggio di cui diffidare, clandestino, violento e spesso delinquente[16].

Non vi è dubbio, quindi, che la questione dei minori nomadi sia stata posta politicamente più sotto il profilo emergenziale ed allarmistico che dell’integrazione e dell’accoglienza. In realtà, il minorenne zingaro, come si avrà modo di specificare meglio infra, non subisce un trattamento penale più duro, bensì diverso; è il doppio binario della giustizia minorile italiana: attenta e misurata con gli italiani, distratta e imprecisa, ma assai dura quando colpisce, con gli stranieri.

Occorre allora fissare nuove modalità d’approccio, che dosando discrezionalità e poteri del giudice, permettano che la risposta penale venga data anche al minore straniero appropriatamente e ponderatamente: e per fare questo bisogna conoscere innanzitutto l’imputato; si manifesta, peraltro, la necessità di un accurato e multidimensionale accertamento dello sviluppo, in primo luogo fisico e poi eventualmente psico-patologico, da acquisire attraverso la valutazione della “cognizione” e della “personalità” del minore; valutazione peraltro necessaria  (art. 9 D.P.R. 448/88) in ambito minorile, essendo invece vietata per gli adulti  (art. 220 co. 2° c.p.p.).

E se si deve arrivare ad acquisire la cognizione di ognuno, si deve partire da quel minimum di personalità dei minorenni stranieri, e degli zingari nello specifico, che è la loro identità fisica. Quindi prendere, innanzitutto, le impronte digitali al minore nomade è il presupposto della sua conoscenza e del riconoscimento della sua individualità.

In questa ottica, afferma ancora correttamente il suindicato autore che l’identificazione del minore straniero non è un problema tecnico della polizia, bensì un problema etico del giudice. Ed invero, l’identificazione non è finalizzata alla maggiore difesa sociale (che quasi sempre comunque ne consegue), nè è indirizzata alla maggiore difesa dell’imputato (cosa che è comunque legittima e positiva); ma è finalizzata principalmente a permettere ai giudici di essere tali. L’identificazione dell’imputato costituisce il presupposto, morale prima ancora che giuridico e pratico, dell’attività del giudice, eliminando l’ipocrisia o la frustrazione di emanare provvedimenti generici e tutti uguali[17].

Va premesso che dell’identità fisica si parla nell’art. 66 co. 2° c.p.p., dove si afferma che “l’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di alcun atto da parte dell’autorità procedente, quando sia certa (appunto; n.d.s.) l’identità fisica della persona”.

E’ stato affermato in giurisprudenza che al termine “identità fisica” della persona si deve attribuire il significato che l’espressione assumeva nell’art. 81 dell’abrogato codice di procedura, e cioè quello di identità tra la persona alla quale è attribuito il reato e nei cui confronti è stato instaurato il processo e quella che si giudica. E’ questa la nozione di “vero imputato”, mentre il mero errore di generalità, da qualsivoglia causa cagionato, viene considerato come un errore materiale, soggetto alla procedura di rettifica di cui all’art. 130 c.p.p.. Ne consegue che l’incertezza sull’individuazione anagrafica dell’imputato è irrilevante ai fini della prosecuzione del processo penale, allorquando sia certa l’identità fisica della persona nei cui confronti sia stata iniziata l’azione penale, detta situazione non pregiudicando il compimento di atti da parte dell’autorità giudiziaria procedente, né essendo idonea a ritardare o sospendere il processo, in quanto è pur sempre possibile provvedere alla rettifica delle generalità, erroneamente attribuite, nelle forme di cui al citato art. 130 c.p.p.[18].

Dubbi sono stati sollevati sull’ambito di operatività dell’art. 66 co. 2° c.p.p., atteso che, pur in presenza di una formulazione di ampio respiro del disposto legislativo, sostiene autorevole dottrina che esso sia circoscritto alla fase processuale in senso stretto, senza la dovuta estensione all’indagato, risultando così non precluso, durante la fase delle indagini preliminari, il compimento di atti nei confronti di una persona non identificata neppure fisicamente. A conferma di quanto sostenuto viene fatto riferimento opportuno all’art. 415 co. 1° c.p.p., in virtù del quale, nel caso in cui l’autore del reato sia rimasto ignoto, il pubblico ministero presenta al giudice per le indagini preliminari richiesta di archiviazione o di autorizzazione alla prosecuzione delle indagini. La prosecuzione presuppone evidentemente un inizio, e, quindi, la ritualità di investigazioni precedenti[19].

Giunti a questo punto del presente discorso giova rilevare che, ove emerga, invece, come ritiene ulteriore dottrina, la sussistenza di un errore sull’identità fisica della persona, e cioè che la persona a cui è attribuito il reato è diversa da quella nei cui confronti pende il procedimento penale, il giudice dovrà in ogni stato e grado dello stesso pronunciare sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’art. 129 c.p.p.. Nel contesto culturale occidentale sussiste un forte legame tra la persona ed il nome, e l’identificazione, al momento dell’arresto o di una denuncia, o nel primo atto in cui l’indagato compare dinanzi all’autorità giudiziaria, si realizza normalmente con la dichiarazione delle generalità e l’esibizione dei documenti anagrafici da parte dell’interessato. Salvi i non frequenti casi di omonimia l’identificazione effettuata in tal modo consente di ritenere accertata l’identità personale dell’indagato[20].

Diverse considerazioni si impongono nei casi in cui il soggetto nei cui confronti vengono svolte le indagini sia uno straniero privo di documenti, o in possesso di documenti di identità palesemente falsi.

Avviene in questi casi che la persona venga generalizzata dalla polizia giudiziaria come “sedicente”, con il nome da questa datosi. Le generalità, come già anticipato, sono quasi sempre assolutamente false; peraltro, nonostante l’evidenza di una tale problematica, la suindicata prassi continua ad essere normalmente utilizzata, atteso che l’autorità giudiziaria ha bisogno di un “nome”, perché senza un “nome” non riesce a far decollare la procedura. In ogni caso, essendo il nome inventato, non si avrà mai alcuna corrispondenza con una persona fisica realmente esistente.

Il problema assume carattere di gravità estrema, e le conseguenze a volte sono davvero paradossali, relativamente agli stranieri, soprattutto nomadi. Infatti, la maggior parte di coloro che hanno a che fare con la giustizia penale è costituita da clandestini, i quali non hanno o non forniscono documenti, e vengono generalizzati sulla base delle loro dichiarazioni. Pertanto, non solo essi forniscono più generalità diverse in occasione delle varie identificazioni, ma spesso per creare maggiori difficoltà forniscono nomi di grande diffusione fra le comunità a cui appartengono: con il risultato che al momento dell’esecuzione della pena il verificarsi di omonimie è di grande frequenza.

Il corollario di tali considerazioni è che, in mancanza di impronte digitali del minore straniero, non è pertanto possibile continuare il procedimento penale, il cui esito corretto e coerente è l’archiviazione, ex art. 415 c.p.p., per essere ignoto l’autore del reato.

Al riguardo, si afferma ancora in dottrina come si ricavi da una circostanza emblematica la considerazione secondo cui la persona fisicamente non identificata e semplicemente sedicente non possa ritenersi “individuata”, sulla base dei criteri del codice di procedura penale. Ed invero, in caso di iscrizione di persona così impropriamente individuata sorgono problemi esecutivi insormontabili in relazione agli adempimenti che per legge conseguono alla individuazione. In seguito alla iscrizione inizia infatti una complessa attività amministrativa. Secondo l’art. 335 c.p.p., il pubblico ministero iscrive immediatamente nel registro solo la notizia di reato, mentre il nome dell’indagato viene iscritto o contestualmente o dal momento in cui risulta. Ora, nel momento in cui si procede all’iscrizione del nome dell’indagato, la segreteria, ex art. 110 disp. attuaz. c.p.p., deve richiedere i “certificati anagrafici”; per fare questo, ex art. 3 reg. esecuz. c.p.p., ha bisogno delle “generalità della persona” che già dovrebbero essere contenute nella copertina del fascicolo. Le generalità necessarie alla segreteria comprendono nome, cognome, data di nascita, residenza, essendo questi i dati senza i quali non si possono richiedere i vari certificati anagrafici. Se questi dati mancano, l’iscrizione del solo nome diventa un atto inutile e gratuito. Quindi il pubblico ministero deve limitarsi ad ordinare l’iscrizione della notizia di reato (e ovviamente ordinare le necessarie indagini sull’identità dell’indagato). All’esito delle indagini, la notizia transiterà nel registro delle persone note o, se le generalità non venissero accertate, lo stesso pubblico ministero dovrebbe richiedere l’archiviazione del procedimento come ignoti[21].

E’ dunque necessario giungere ad identificare fisicamente le persone quando il nome non è sufficiente, o è incerto, o è falso, e per fare ciò non si può non ricorrere alle impronte digitali.

Dalla fine del secolo scorso, come afferma un’illustre autrice, gli studi effettuati in materia di dattiloscopia e la constatazione che ogni individuo ha impronte digitali[22] diverse hanno permesso di realizzare un sistema per l’identificazione delle persone basato sull’acquisizione, archiviazione e classificazione delle stesse. Al momento dell’arresto o di una denuncia vengono acquisite le impronte digitali, le quali forniscono un dato di inequivoca identità fisica della persona[23].

In Italia alla identificazione personale di un soggetto la polizia giudiziaria provvede con i rilievi segnaletici, i quali sono in parte descrittivi (descrivono cioè i connotati ed i contrassegni della persona), in parte fotografici (con tre fotografie del soggetto da diversa angolazione), ed in parte, appunto, dattiloscopici: questi ultimi consistono nel prelievo delle impronte delle falangi delle dita (impronte digitali) e delle palme delle mani (impronte palmari). I detti rilievi vengono riportati dai tecnici sul modulo denominato cartellino fotosegnaletico, un esemplare del quale viene inviato al Ministero dell’Interno dove viene classificato ed archiviato.

I rilievi dattiloscopici possono servire sia ad identificare una persona indipendentemente dalla consumazione di un reato (identità preventiva) sia a giungere, attraverso tracce rilevate sul luogo del reato, all’attribuzione del reato al reo (identità giudiziaria).

Per ciò che attiene al problema dell’identificazione preventiva, quest’ultima è un’attività propria di polizia e non può essere ordinata dal pubblico ministero qualora la persona non sia indagata per un reato. Una volta acquisite le impronte, le varie forze di polizia inviano il cartellino al Casellario centrale di identità il quale procede alla comparazione delle stesse; le classifica, le archivia e risponde informando se la persona era già stata segnalata: in tal caso fornisce l’elenco dei precedenti dattiloscopici. E’ questa una scheda (stampata da un computer) dove sono contenuti la data, il luogo, i motivi di tutti i precedenti segnalamenti dattiloscopici, con altresì l’indicazione delle generalità dichiarate dalla persona in occasione del segnalamento. La redazione della scheda dattiloscopia è necessaria per accertare all’estero, attraverso l’Interpol, le esatte generalità della persona, compatibilmente con la precaria situazione interna (guerra o altre calamità) di alcuni paesi. La scheda è intestata ad un numero d’ordine, che è quello interno di archiviazione del Casellario centrale di identità; in alcuni casi (cioè quando sono conosciute), la scheda riporta le precise generalità anagrafiche del segnalato; in caso contrario viene scritto: “Esatte generalità: sconosciute”.

 

Nel paragrafo che seguirà, ci occuperemo, oltre che della prassi applicativa dei precedenti dattiloscopici, anche della tematica dell’identità giudiziaria, che rappresenta, senz’altro, quella di maggiore interesse ai fini dell’approfondimento delle problematiche oggetto della nostra analisi.

 

5. La prassi applicativa dei precedenti dattiloscopici. La diversa tecnica dell’accertamento dell’identità giudiziaria.

 

Per quanto già ampiamente esposto nelle pagine precedenti, si evince chiaramente che la gran parte dei reati commessi da stranieri è imputabile ad extracomunitari, sprovvisti di documenti o con documenti falsi; per cui la scheda dei precedenti dattiloscopici, secondo autorevole dottrina, è in definitiva l’unico documento relativo alla personalità dello straniero, e del minore straniero in particolare, riferibile con certezza all’imputato o all’arrestato, in quanto le altre certificazioni (per es. del casellario giudiziale), essendo fatte con criteri anagrafici, sono inattendibili per la nota usanza degli stranieri, e degli zingari in particolare, di fornire ogni volta diverse generalità[24].

Pertanto, è in realtà sulla base dei “precedenti dattiloscopici” che viene fatta la valutazione della personalità dell’imputato straniero, in relazione alla pericolosità sociale, alla recidiva, nonchè ai fini della irrogazione della misura cautelare o della determinazione della pena.

Al momento dell’arresto o della denuncia in stato di libertà, è necessario quindi che la polizia giudiziaria provveda a prendere le impronte digitali del minore straniero e ad inviarle immediatamente a chi è in grado di classificarle e di fornire i precedenti dattiloscopici; quindi, innanzitutto, al Casellario centrale di identità.

Si afferma in Medicina Legale che bastano pochi minuti all’Ufficio centrale di segnalamento per attribuire ad ogni impronta la cifra corrispondente, utilizzando, al riguardo, la classificazione del Gasti, che, appunto, divide le impronte digitali in dieci classi, indicandole ciascuna con una cifra; si costituisce così un numero di dieci cifre (in realtà, ponendo i simboli delle varie dita in un determinato ordine, risulta un numero di 3 cifre: indice, pollice, anulari sinistri, o numero di serie; un altro di 3 cifre: indice, pollice, anulare destri, o numero di sezione; ed infine uno di 4 cifre: medio e mignolo sinistri, medio e mignolo destri, o numero). Considerando l’insieme delle cifre corrispondenti alle dieci dita, si rileva come le combinazioni vadano dal numero 0.000.000.000, attraverso tutte le fattibili sostituzioni delle cifre, fino al numero 9.999.999.999: si tratta cioè di miliardi di diverse possibilità. Se lo stesso individuo era già stato un’altra volta schedato, il suo cartellino avrà nel casellario il numero risultante dalla nuova segnalazione[25].

Con la scheda dei precedenti dattiloscopici in mano, il pubblico ministero potrà  richiedere, e  il  giudice  per le indagini preliminari concedere, la misura  cautelare 

più adatta disponendo di informazioni sicure relativamente: a) alla presenza costante o recente del minore in Italia; b) alla frequenza di coinvolgimenti in attività delittuose (la scheda dei precedenti dattiloscopici indica le denunce per i reati, non le condanne); c) alla attendibilità delle dichiarazioni relative alla identità personale (potendosi accertare se in precedenza ha fornito generalità diverse).

Successivamente, i dati contenuti nella scheda dei precedenti dattiloscopici costituiscono la base per un approfondimento delle conoscenze sull’indagato. In particolare, prendendo come riferimento i diversi nomi forniti, si potranno richiedere altrettanti certificati del casellario giudiziale, al fine di avere un quadro attendibile della situazione penale del minore. Ciò è indispensabile al giudice allorquando si debba decidere se concedere allo stesso il perdono giudiziale o la sospensione condizionale della pena o una misura alternativa alla detenzione.

Si comprende quindi chiaramente, come afferma un illustre autore, che, in mancanza della scheda dei precedenti dattiloscopici, l’autorità giudiziaria si troverebbe a decidere in ordine alla misura cautelare disponendo soltanto dei dati oggettivi relativi alla comissione del reato: il che è poco per ogni indagato, ma è sicuramente troppo poco per i minorenni, in quanto le disposizioni sul processo penale minorile richiedono, in ordine alle misure precautelari e cautelari, una valutazione assai più complessa che per gli adulti. Come si vede, non solo è indispensabile, per non emanare provvedimenti giudiziari immotivati, essere in possesso di questi dati, ma è anche necessario averli immediatamente o in tempi ristretti. Per tale motivo è certamente utile creare, all’interno delle sezioni di polizia giudiziaria presso le procure della Repubblica minorili, degli uffici specializzati in grado di ricevere, ricercare, archiviare questi dati in modo da disporre autonomamente dei documenti utili, evitando perdite di tempo e duplicazioni di attività investigative[26].

A conclusione di questo excursus  è d’uopo trarre le fila del discorso.

Ci si rende perfettamente conto, infatti, che in mancanza di un’identificazione anagrafica, la soluzione più congeniale risulta essere quella di intestare la sentenza e gli altri provvedimenti giudiziari emanati con il nome attribuitosi dal minore o risultante dai documenti falsi da lui esibiti, aggiungendo la qualifica di “sedicente” e, soprattutto, il riferimento all’atto che lo identifica fisicamente ex art. 66 c.p.p. (ad es: il cartellino fotosegnaletico).

 

Diversa tecnica si applica, invece, per l’accertamento dell’identità giudiziaria che serve a collegare, come si è già anticipato supra, tracce lasciate dall’autore di un reato (per es. impronte digitali) ad una persona sospettata di averlo commesso. L’attività ha inizio dopo che un reato è stato commesso e tende, sotto il controllo e secondo le direttive dell’autorità giudiziaria, ad identificare il soggetto attraverso le sue impronte, con l’uso di una complessa procedura scientifica che fa riferimento al confronto diretto fra le impronte rilevate nel corso del sopralluogo e le impronte della persona sospettata.

Si ritiene in dottrina che, per evidenti motivi, è assai improbabile che sul luogo del reato vengano rilevate impronte complete, mentre comunemente vengono repertati frammenti più o meno estesi di impronte digitali o palmari e, rarissimamente, delle piante e delle dita dei piedi. Compito del dattiloscopista è quindi quello di ricercare ed esaltare nel frammento le caratteristiche, dette “accidentalità” o “punti”, che nel loro complesso identificano solamente quella particolare impronta. Se si riscontrano, tra il frammento e un’altra impronta della persona sospettata (già in possesso della polizia giudiziaria o fatta rilasciare ad uopo), sufficienti corrispondenze quantitative e qualitative, si potrà giungere ad esprimere un giudizio di identità [27].

Secondo la letteratura medico-legale, essendo il disegno delle impronte digitali già presente alla nascita e mantenendosi inalterato fino alla morte, è ovvio che il metodo ha larghissima applicazione, molto maggiore di quello antropometrico. Inoltre, non vi è possibilità di giudizi diversi da parte dei vari operatori, essendo la classificazione eseguita, presso l’ufficio centrale, con completa identità di criteri. L’inalterabilità dell’impronta per tutta la vita va intesa nel senso che il disegno può risultare più o meno distrutto (perdita di dita, cicatrici della pelle dei polpastrelli, malattie cutanee), ma mai diverso. Nelle lesioni da polpastrello o non sono interessate le papille del derma, ed allora le creste tornano precise come prima, o vengono eliminate le papille, ed allora la cicatrice sarà liscia, senza disegni. Benché, in pratica, sia impossibile che in una così grande quantità di combinazioni risultino numeri uguali, quando ciò avviene si passa all’esame delle impronte nei loro dettagli[28].

Anche se tecnicamente ha maggiore rilevanza la qualità delle corrispondenze che vengono riscontrate, anzichè il loro numero (atteso che alcune accidentalità sono molto significative, mentre altre sono assai comuni), si è elaborato il principio che, per la sicurezza dell’identificazione, debbono essere riscontrati nei frammenti di impronte almeno un numero minimo di punti uguali ad altri presenti nell’impronta confrontata.

La giurisprudenza ha fatto proprio questo principio ed ha elaborato una celebre massima d’esperienza di larga applicazione nei giudizi penali ai fini del controllo delle impronte palmari e digitali: “Le risultanze delle indagini dattiloscopiche offrono piena garanzia di attendibilità, senza bisogno di ulteriori elementi sussidiari di conferma, anche quando riflettono una sola impronta o le impronte appartengano solo alla porzione di un dito, purchè evidenzino la sussistenza di almeno sedici o diciassette punti caratteristici uguali per forma e posizione”[29].

Ritiene un autorevole interprete che in tali casi la prova circa la sussistenza dei punti caratteristici può essere acquisita attraverso una perizia che proceda alla rilevazione delle impronte, alla loro identificazione ed alle opportune comparazioni. Questa la conclusiva massima d’esperienza: “Le impronte palmari, al pari di quelle digitali, sono dotate di una propria individualità, sono (come già reso noto; n.d.s.) immutabili nel tempo e permettono raffronti d’identità assolutamente significativi”. Se l’attività di prelievo delle impronte è effettuata in modo corretto, l’uso della massima d’esperienza approda ad un’incontrovertibile conclusione sull’identificazione del soggetto[30].

 

6. L’attribuzione dell’età al minorenne.

 

Il codice di procedura penale minorile è riservato ad un soggetto cui si contesta la commissione di un reato nel corso della minore età, quale che sia la sua stessa età al momento del processo.

Afferma, al riguardo, autorevole dottrina che i tempi processuali non possono sottrargli il diritto che a valutarne la personalità sia il giudice specializzato, stante che il giudizio non involge solo il presente e la prospettiva futura, ma anche il tempo del reato, attraverso un’analisi di prognosi postuma, effettuata sulla base degli atti dell’epoca (indagini di servizio sociale, psicologiche e quant’altro) e degli strumenti diagnostici di cui è portatore il collegio specializzato[31].

L’accertamento dell’età all’epoca del fatto è, pertanto, questione preliminare inderogabile, tanto da determinare la competenza per materia (art. 3 c.p.p. min.). Ed inverto, il Tribunale per i Minorenni deve giudicare esclusivamente soggetti che al tempo del fatto erano minorenni e nessuno di costoro, per nessuna ragione, può essere giudicato dal giudice ordinario.

Chi si è occupato dell’argomento affronta, di solito, la risoluzione del quesito circa il predetto accertamento nei casi in cui vi siano, ovviamente, dei dubbi derivanti dall’assenza o dall’inaffidabilità dei dati anagrafici.

Tale problematica assume una stringente rilevanza, per le ragioni già esposte nel corso della presente opera, con riferimento ai minori stranieri e soprattutto ai minori zingari, atteso che l’attribuzione nei loro confronti di un’età erronea è un’evenienza piuttosto frequente. Ciò posto, mentre l’uso nel corso del processo di generalità erronee, qualora sia certa l’identità fisica, non cagiona conseguenze irrisolvibili, l’attribuzione dell’età esatta è spesso fondamentale per l’applicazione diversa, a seconda dell’età, di alcuni istituti giuridici[32], oltre che, come già detto, per la determinazione della competenza del giudice.

Secondo l’art. 8 c.p.p. min.: “1. Quando vi è incertezza sulla minore età dell’imputato, il giudice dispone, anche d’ufficio, perizia. 2. Qualora, anche dopo la perizia, permangano dubbi sulla minore età, questa è presunta ad ogni effetto. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano altresì quando vi è ragione di ritenere che l’imputato sia minore degli anni quattordici”. Analogamente, dispone l’art. 67 c.p.p. che: “In ogni stato e grado del procedimento, quando vi è ragione di ritenere che l’imputato sia minorenne, l’autorità  giudiziaria  trasmette gli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni”.

Tale ultima norma disciplina ulteriormente il caso di incertezza sull’età dell’imputato (o indagato); in virtù di essa, quando sorge il dubbio e si ha ragione di ritenere che il soggetto imputato o sottoposto alle indagini sia minorenne, l’autorità giudiziaria trasmette gli atti al Procuratore Minorile.

Tale previsione, come afferma un illustre autore, attribuisce al Tribunale per i Minorenni la competenza esclusiva a determinare l’età del soggetto del quale si abbia fondato motivo di ritenere minorenne, nonché evita che, nelle more dell’espletamento della perizia per accertare l’età del soggetto, questi possa, anche se minorenne, essere assoggettato a trattamenti traumatizzanti, quali, ad esempio, la custodia cautelare in carcere insieme a detenuti maggiorenni[33].

Alla luce di quanto sinora esposto, non vi sono dubbi sul fatto che la presenza di un documento in mano ad un minore zingaro o ancor di più l’autoattribuzione di generalità non sono assolutamente in grado di eliminare l’incertezza sull’età di cui all’art. 8 c.p.p. min..

Per acquisire maggiori elementi oggettivi di conoscenza in ordine all’età dell’indagato sono indispensabili accertamenti da compiersi sulla persona stessa, quali ad esempio misurazioni antropometriche, rilievi dentari e, soprattutto, radiografie (in particolare quella del gomito e del polso). Al riguardo, il pubblico ministero può procedere a rilievi tecnici o con le forme dell’accertamento tecnico irripetibile ai sensi dell’art. 360 c.p.p., o con le forme della consulenza tecnica di cui all’art. 359 c.p.p..

La radiografia al polso viene effettuata al fine di individuare l’età biologica del ragazzo, tenendo conto dello stato dei nuclei di calcificazione delle ossa. Tale metodologia non solo espone il paziente a rischi molto bassi, atteso che l’area corporea irraggiata è assai limitata ed il voltaggio molto basso, ma, perdippiù, viene espletata utilizzando una procedura consolidata e standardizzata, permettendo, quindi, di ottenere risultati molto affidabili in relazione alla brevità del tempo a disposizione[34].

In dottrina, anche a seguito dell’emanazione della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 238 del 27/6/96[35], si è posto il problema della legittimità degli accertamenti radiologici effettuati eventualmente senza il consenso del soggetto interessato. Non vi è dubbio che gli accertamenti presentano un certo grado di invasività della sfera personale del soggetto, e che in assenza di consenso da parte dell’interessato gli stessi possono ritenersi legittimi solo se effettuati sulla base di un’espressa previsione normativa  che li autorizzi, quale è, ad esempio, quella di cui all’art. 8 c.p.p. min.. Ed invero, tale disposizione, prevedendo espressamente che sia disposta una perizia per l’accertamento dell’età, attribuisce al giudice la possibilità di utilizzare le procedure in uso maggiormente idonee a fornire elementi di conoscenza in ordine all’effettiva  età anagrafica del soggetto, e quindi anche gli elementi di conoscenza forniti dagli esiti degli accertamenti radiologici[36].

Secondo la dottrina citata, se ne dovrebbe desumere quindi che gli accertamenti radiologici ex artt. 359 e 360 c.p.p. sarebbero inammissibili in mancanza di consenso dell’interessato, proprio per l’assenza di un’espressa previsione che li autorizzi, anche se va comunque precisato che in sede operativa non si conoscono a tutt’oggi casi di minori indagati o imputati che si siano rifiutati di sottoporsi ad esame radiologico.

Giova rilevare che nel panorama dottrinale attuale le opinioni al riguardo sono abbastanza contrastanti. Ed invero, ritiene in primo luogo un illustre autore che l’attività svolta ai sensi degli artt. 359 e 360 c.p.p., o conferita alla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 349 commi 2 e 4, rappresenta, in ogni caso, un’attività d’urgenza, da compiersi quando sia indispensabile per l’immediata emanazione di provvedimenti (esempio, l’arresto della persona colta in flagranza, che dichiara di essere minore degli anni 14 o degli anni 18), e che non può sostituire la perizia prevista dall’art. 8 c.p.p. min., che sarà comunque affidata dal giudice ad un perito di sua fiducia, che svolgerà con calma tutte le indagini opportune[37].

La perizia, in realtà, dovrebbe essere disposta dal magistrato quando sussista un dubbio, non solo ragionevole, ma addirittura decisivo, circa l’età dell’imputato, che non possa essere risolto aliunde, attraverso cioè gli strumenti normalmente a disposizione sia dei giudici che degli operatori del servizio sociale minorile. Ed invero, vi sono dei dati estrinseci sulla scorta dei quali si può desumere che il minore sia effettivamente ultraquattordicenne, nonostante lo stesso risulti, per esempio, in possesso di documenti, peraltro quasi sempre falsi, che attestino un’età inferiore agli anni quattordici. Si pensi, a tal proposito, a tutti gli elementi acquisiti dall’ufficio, che possono essere rappresentati sia dalle risultanze della scheda del casellario giudiziale da cui si evincano numerosi precedenti penali e giudiziari, sia dalla conoscenza diretta di operatori sociali e penitenziari a seguito o delle assidue frequentazioni, da parte del ragazzo, in veste di imputato, delle aule del Tribunale per i Minorenni o dei continui ingressi presso l’Istituto penale minorile.

Ad abundantiam, anche l’esistenza di relazioni sulla personalità o caratteristiche fisiche inequivocabili consentono al giudice, sulla scorta del suo prudente apprezzamento discrezionale e delle comuni regole di scienza ed esperienza, di non dar corso a formale perizia e di acquisire, grazie ai dati indiziari già di sua conoscenza, elementi di approssimativa sicurezza in ordine all’età dell’imputato (o indagato), suffragandole eventualmente con ulteriori riscontri quali, ad esempio, accertamenti tecnici irripetibili o meri rilievi tecnici, che possono essere già a sua disposizione.

Si è, purtuttavia, sostenuto che la disposizione di cui all’art. 8 cit. imponga sempre e comunque il ricorso a formale perizia. Sicchè, nella fase delle indagini preliminari, il g.i.p. dovrebbe dare corso ad un incidente probatorio[38]. Eccepisce, peraltro, un autorevole orientamento dottrinale, cui noi riteniamo di aderire, che, pur dovendosi condividere l’interpretazione estensiva secondo la quale la norma è applicabile anche all’indagato, pare eccessivo negare al p.m. la possibilità di dare luogo, con la procedura di legge, ad un accertamento tecnico irripetibile o a meri rilievi tecnici. Il primo, rispettato il procedimento legale, entra, per principio generale, a pieno titolo fra le prove e non è sulla base dell’apparentemente perentorio, ma incompiuto, contenuto letterale della norma che può escludersi, senza alcuna logica ragione, il ricorso ad esso. I secondi, di utilizzabilità relativa, servono, nel caso di specie, proprio a concorrere ad escludere l’incertezza di cui si è detto[39].

In senso abbastanza conforme, sibbene incidentalmente, si esprime un altro illustre autore, atteso che questi fa riferimento all’uso della polizia giudiziaria in accertamenti tecnici (art. 348 co. 4° c.p.p.) e di consulenti tecnici del p.m. (art. 359 c.p.p.)[40].

Giova rilevare che tutti i superiori sistemi di attribuzione dell’età al minorenne straniero, spesse volte, come già supra esemplificato, hanno caratteristiche davvero penetrative della sfera fisica e psichica del ragazzo; ma è, d’altra parte, sin troppo evidente che, in presenza di un rilevante interesse dell’indagato ad essere considerato minore degli anni quattordici, al fine di poter conservare la possibilità di continuare a delinquere nell’impunità, non è, purtroppo, possibile fare affidamento soltanto sulle sue dichiarazioni o sui documenti esibiti.

Ciò considerato, la necessità di un accertamento sull’età, che sia il più completo ed approfondito possibile, si pone, in realtà, proprio all’inizio del procedimento, allorché il p.m. stia predisponendo qualche determinazione invasiva nei riguardi dell’indagato, quale potrebbe essere, per esempio, la presentazione di una richiesta di applicazione di misura cautelare. Ed invero, è in tale momento, proprio per la delicatezza delle decisioni sullo status libertatis che stanno per essere prese nei confronti del minore, che si manifesta l’esigenza di porre in essere accertamenti tecnici o con le forme di cui all’art. 359 c.p.p. o con quelle di cui all’art. 360, che riescano a dirimere del tutto i dubbi sull’età del ragazzo. Ove, invece, tali accertamenti non solo confermino, ma, addirittura, aumentino le incertezze sull’esatta individuazione dell’età del minorenne, risulta allora assolutamente necessario, proprio per le esigenze supra evidenziate, dare corso a formale perizia mediante incidente probatorio.

La perizia dovrà essere condotta con i metodi di rilevazione di tipo auxologico e circondata da tutte le peculiari garanzie previste per l’assunzione di un mezzo di prova (affidabilità e competenza del perito, previsione di incompatibilità, possibilità di astensione, ricusazione, di nomina di consulenti tecnici di parte, ecc.).

Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, i dati acquisiti con la perizia non possono avere efficacia vincolante in altro processo penale, civile e amministrativo, così come disposto dall’art. 2 co. 2° c.p.p.. Tali dati, peraltro, fanno fede nel processo penale nel quale sono stati assunti, anche in presenza di un documento di identità di dubbia efficacia identificativa e fedefacente[41].

Nel caso in cui, nonostante lo svolgimento di perizia (concernente, come già reso noto, accertamenti sullo sviluppo scheletrico, e, in particolare, su alcune parti della struttura ossea e dei nuclei di calcificazione), permanga dubbia l’età, secondo l’orientamento consolidato in dottrina, vige un logico principio di favor per il sottoposto al procedimento, sia esso ancora indagato o già imputato: se è dubbia l’imputabilità, il minore deve considerarsi non imputabile; se è dubbia la minore età il soggetto deve essere considerato minorenne; se è dubbio il superamento dei sedici anni, si applicheranno, in via estensiva, i termini massimi di custodia cautelare dell’infrasedicenne[42].

 

Ciò posto, giova in conclusione osservare che soltanto delle capillari attività di raccolta di indizi riguardanti il minore straniero, e zingaro in particolare, rappresentati o dall’individuazione dell’età biologica attraverso la radiografia al polso o dall’accertamento della falsità dei documenti, permettono di selezionare e quindi scartare, in via approssimativa, le generalità non veritiere. Ed invero, bisogna rilevare che, nonostante l’impegno delle forze di polizia, non sempre tutte le superiori attività di indagine portano necessariamente all’attribuzione di generalità certe; ma è, in ogni caso, l’accumularsi esponenziale di elementi indiziari di questo tipo che consente di avvicinarsi, con un sempre maggiore grado di sicurezza, a quelle autentiche.

 

7. Le misure cautelari applicabili.

 

Le considerazioni svolte in precedenza, ci permettono di affrontare, adesso, con maggiore cognizione di causa le problematiche afferenti l’applicabilità delle misure cautelari nei confronti dei minori zingari.

Ed invero, deve innanzitutto osservarsi che la quasi totalità dei reati contestati a carico di minori nomadi riguarda la fattispecie di furto, ed in particolare di furto in appartamento e di scippo. Tanto premesso, c’è da rilevare che, ai sensi dell’art. 16 c.p.p. min., che richiama l’art. 23 L. cit. e, per relationem, l’art. 380 co. 2° lett. e) c.p.p., è previsto l’arresto in flagranza, peraltro sempre facoltativo, in ordine alle ipotesi di furto aggravato ex art. 625 commi 1 n. 1, 2 prima ipotesi e 4 seconda ipotesi del codice penale; e poichè il furto in appartamento e lo scippo rientrano proprio in tale previsione, la conseguenza logica è che tutti i minori zingari colti in flagranza di reato vengono arrestati e condotti in questura o presso il Comando dei Carabinieri. In seguito, sono esperiti, su disposizione del magistrato competente, tutti gli accertamenti sull’età secondo le modalità esposte nel paragrafo precedente. Se questi ultimi danno esito positivo, i minori vengono, infine, trasferiti presso il Centro di prima accoglienza.

Giova a questo punto specificare che risulta del tutto trasparente il costante impegno degli effettivi responsabili di questi delitti al fine di escogitare soluzioni sempre differenti per potere continuare a delinquere nell’impunità.

Sicchè, vengono utilizzati o minori in età non imputabile, o minori di sesso femminile, in avanzato stato di gravidanza o con prole in tenerissima età (nel tentativo di scongiurare l’eventuale custodia cautelare in I.P.M.).

In ordine alla prima ipotesi, deve osservarsi che i minori infraquattordicenni vengono condotti, come già anticipato, in questura e, ove sia confermata tramite gli accertamenti di cui sopra l’inimputabilità, vengono ritirati dai genitori, ai quali non si contesta alcun addebito. Viene poi fatta una segnalazione all’Ufficio distrettuale del servizio sociale, la cui azione, però, non ha alcun effetto; infatti i ragazzi non vengono quasi mai rintracciati e, quando questo avviene, non si presentano alle convocazioni. Dopodichè, non sono previsti altri interventi.

Per ciò che attiene, invece, alla seconda ipotesi, giova rilevare che è prassi di alcuni giudici minorili applicare la custodia cautelare anche alle minori nomadi in avanzato stato di gravidanza. Ed invero, si legge nelle motivazioni di alcune ordinanze di custodia cautelare in I.P.M. che lo stato di gravidanza delle minori, nella quasi totalità dei casi, non osta all’applicazione della misura cautelare anzidetta. Al riguardo, non si può sottacere il paradosso della situazione specifica e cioè che proprio la custodia in I.P.M. può garantire alle dette minori una tranquilla gestazione, considerando che le nomadi normalmente, per prassi e per loro stessa ammissione, sono costrette quotidianamente a girovagare da un paese all’altro per chiedere l’elemosina o per commettere furti, restando così soggette ad un regime di vita semplicemente massacrante o del tutto debilitante in relazione alle loro particolari condizioni fisiche[43].

Ciò considerato, è d’uopo attenzionare un combinato disposto del codice di procedura penale minorile, e precisamente quello di cui agli artt. 16 e 23 c.p.p. min., che consente l’arresto in flagranza in tutte le ipotesi in cui si può applicare la custodia cautelare. E’ chiaro, quindi, per la proprietà riflessiva, che un soggetto arrestato può essere tranquillamente sottoposto alla misura della custodia in I.P.M., quando, ovviamente, lo consenta il titolo del reato.

Quali, allora, le problematiche che emergono in relazione ad un uso calibrato o meno della suindicata misura?

Al riguardo, giova innanzitutto osservare che l’entrata in vigore, nel 1989, del codice di procedura minorile (D.P.R. 448/88) era stata accompagnata da lodevoli propositi; in particolare si mettevano in risalto le caratterizzazioni e le finalizzazioni specifiche che avrebbero dovuto essere espressione di quel rito, il quale doveva diventare, coma affermava autorevole dottrina, un processo di accertamento della personalità, oltre che del merito[44].

Tra i principali obiettivi della riforma, avallati anche dalle elaborazioni sviluppate in varie sedi internazionali[45], uno spazio ben preciso era dedicato alle problematiche attinenti la realtà del carcere minorile, il ricorso al quale si sarebbe potuto giustificare solo in casi estremi.

In realtà, secondo una giovane autrice, le disuguaglianze di fruizione e di beneficio sono oggi sotto gli occhi di tutti, messe in evidenza dalla cruda luce delle cifre, nelle statistiche riguardanti la criminalità minorile. Il suo andamento, in termini di tipologia d’autore e di provvedimento adottato, ha reso ormai evidente che il ricorso estremo al carcere avviene in prevalenza per alcuni autori, quelli di nazionalità straniera; mentre gli obiettivi migliori della riforma (formule depenalizzanti o alternative in direzione educativa) sono appannaggio esclusivo dei ragazzi italiani. Si denuncia, quindi, la difficoltosa praticabilità delle formule di rito autoselettive e destigmatizzanti a favore dei ragazzi stranieri.

Certo, ritiene ancora quest’autrice, spesso loro stessi cercano di sfuggire, con atteggiamenti più o meno consapevoli, a qualunque tentativo di intervento in direzione educativa, assumendo comportamenti che li conducono a sentenze di condanna, a volte “preferite”, perchè dotate di pena certa ed immediatamente eseguibile, o a decisioni infondatamente indulgenziali, idonee solo ad evitare più lunghi periodi di inerzia produttiva nelle maglie della giustizia[46].

Tali argomentazioni, come si afferma bene in sociologia, valgono in particolare, ovviamente, per i nomadi, atteso che per questi ultimi il carcere non ha alcun effetto deterrente, per cui entrano ed escono dall’istituto penitenziario con una frequenza impressionante. In carcere, oltre tutto, non è possibile costruire alcun progetto per loro che si mostrano ostili a tutte le proposte, appoggiati dalle famiglie interessate solo al fatto che continuino a rubare[47].

Da qui, la mancanza di reciproca comprensione con il resto della popolazione ed i conseguenti insuccessi degli interventi giudiziari sui minori, che sarebbero volti non solo a punire, ma anche a sostenere.

Capita, allora, che gli stessi giudici minorili tentino di ovviare, almeno nelle intenzioni, a questo sentimento aperto d’impotenza, cercando di utilizzare il ricorso alla detenzione, sia in forma preventiva che esecutiva, in via del tutto residuale. Vi può essere quindi un uso distorto degli strumenti processuali per finalità improprie; peraltro, l’ovvia destinazione argomentativa di tali indirizzi non può che derivare dalla necessità di qualificare ancora una volta l’istituto della carcerazione come extrema ratio.

Purtroppo, nonostante tali involontarie risoluzioni a carattere inesorabilmente garantista, nella maggior parte dei casi, sta di fatto che il carcere minorile, e l’inasprimento giudiziario che ne consegue, si stanno trasformando, seppur per necessità e di malavoglia, da “misura estrema” in “misura speciale”, destinati a tutti quei soggetti confinati in quel limbo di marginalità con cui sono quotidianamente costretti a confrontarsi; soggetti che, in ogni caso, rifiutano deliberatamente in termini assoluti qualsiasi  forma di integrazione con la popolazione autoctona, restando quindi privati della seppur minima possibilità di acquisire quelle scarne, ma necessarie, risorse ambientali e sociali che possano, peraltro incidentalmente, consentire anche all’ordinamento statale di realizzare quelle finalità di accoglienza cui lo stesso sarebbe geneticamente preposto.

Ed invero, con riferimento specifico alla problematica zingara, si evince chiaramente che difficilmente si possono configurare delle alternative rispetto alla custodia cautelare e, quindi, all’istituto del carcere, atteso che quest’ultimo rappresenta l’unico spazio giudiziario praticabile per cercare di instaurare un contatto con il ragazzo o, quantomeno, per contenerlo e controllarlo sino alla definizione processuale della vicenda che lo vede protagonista, tenendo conto del fatto che, in caso contrario, la soluzione residuale sarebbe quella della assoluta e ben nota invisibilità del minore, che verrebbe giudicato non in quanto imputato - persona fisica ma, utilizzando un termine comune a molti giudici minorili, in quanto fantasma.

Deve essere messa in risalto, pertanto, l’ampiezza di vedute di chi, già da molto tempo, affermava che esistono dei “nuovi” puniti e che la stessa dimensione del concetto di punizione risulta a sua volta nuova; ci si riferiva proprio ai nomadi. Su questi giovani, infatti, le novità del processo penale minorile passano senza lasciare alcuna traccia, perché i nuovi istituti tendenti al recupero tramite l’inserimento sociale trovano per loro grandi difficoltà di realizzazione. L’effetto è che, mentre per gli altri ragazzi queste alternative si attuano (sia pure con difficoltà), per i nomadi ciò non avviene. Per loro, la punizione penale è ancora più dura che per gli altri, in quanto da un lato finiscono per essere i più emarginati tra gli emarginati, non usufruendo delle misure alternative o sostitutive alla detenzione, e dall’altro la loro attitudine a spostarsi continuamente da luogo a luogo fa sì che il rimanere bloccati in carcere per un certo tempo renda ancor più pesante che per gli altri tale permanenza[48].

Ciò posto, come afferma chiaramente un’emergente autrice, alle cui considerazioni riteniamo di aderire, un’uscita possibile da tale paradosso, almeno nel breve termine, che servirebbe almeno a soppiantare deleteri processi logici di autogiustificazione, a vario titolo oscillanti tra gli interpreti, pare quella, che in alcuni istituti penali è già realtà, di considerare il carcere non come mera struttura contenitiva, in cui nascondere o nascondersi le difficoltà ed il disagio, ma come contesto in cui trovare l’occasione per ricucire o per modellare le competenze personali e sociali del ragazzo: come luogo, insomma, in cui egli scopre o riscopre la propria capacità progettuale, la propria individualità di persona[49].

In tale particolare contesto, secondo la letteratura sociologica, è necessario che gli operatori carcerari si impegnino al fine di “restituire” al minore l’opportunità di ritrovare o ricreare una propria dimensione, partendo, peraltro, dalla necessaria presa di coscienza di questa nuova realtà, occupata prevalentemente dagli stranieri, portatori di istanze e di esigenze differenti rispetto agli autoctoni, diversamente dotati e sostenuti nella famiglia e nel territorio[50].

Quindi, per ciò che attiene specificamente ai minori nomadi, il carcere, secondo autorevole dottrina, dovrebbe essere più diffusamente riempito nei loro confronti di contenuti orientati; in particolare, nei riguardi di persona imputata per reato commesso in età minore, il programma di trattamento richiederebbe un’applicazione ad ampio raggio anche prima dell’emissione di una sentenza di condanna (vd. l’istituto della probation); peraltro, se la stessa persona venisse condannata, la medesima procedura si dovrebbe seguire prima che la pronuncia sia diventata definitiva. Tali affermazioni si fondano essenzialmente sulla premessa che nei confronti dei minorenni le esigenze di osservazione e di trattamento sono immanenti ad ogni momento dell’intervento penale, collegandosi con la tutela del fondamentale diritto all’educazione, sancito dagli artt. 30, 31 e 2 Cost., ed “insofferente ad ogni deroga”. In tale prospettiva, pare, quindi, sempre più urgente una riforma penitenziaria che, come già quella del rito, sia saldata a configurazioni necessariamente aderenti alla complessa realtà minorile[51].

 

Fatta questa lunga disamina sulle problematiche riguardanti gli istituti del carcere minorile e della custodia cautelare in particolare, giova rilevare che, con riferimento alla posizione dei nomadi, tutte le altre misure cautelari assumono nei loro confronti una valenza assolutamente residuale.

Ed invero, come si ritiene correttamente negli ambienti giudiziari minorili, quando essi vivano stabilmente in campi in qualche modo attrezzati e soggetti al controllo delle forze dell’ordine (in particolare della polizia municipale), sono applicabili anche le misure delle prescrizioni e della permanenza al campo; e soltanto dopo l’infruttuoso esperimento di quelle misure, e quando sia considerevole la reiterazione di reati, si dovrebbe ricorrere alla custodia in carcere. Quindi, se in percentuale sono ancora molti i nomadi che entrano in un istituto penale rispetto agli italiani, ciò è dovuto soprattutto alla loro altissima recidiva (che è caratteristica precipua dei nomadi) e non solo alla loro condizione di stranieri. Quando, infine, il titolo di reato non consenta la custodia cautelare, il loro collocamento in comunità diventa semplice espediente per ottenere più tardi, in risposta alla fuga ed al conseguente stato di irreperibilità, la misura del carcere sia pure per un tempo non superiore ad un mese (art. 22 co. 4° c.p.p. min.); vi sarà così, comunque, il tempo di arrivare all’udienza preliminare con l’indagato ancora in stato di detenzione[52].


 

 

 

8. La valutazione dell’imputabilità del minore zingaro.

 

Giova preliminarmente osservare che per la configurazione dell’imputabilità occorre la “capacità di intendere e di volere”; quindi, ragionando in termini antagonistici, l’imputabilità è esclusa dalla mancanza anche di una sola delle due condizioni. La norma di cui all’art. 98 c.p. non consente interpretazioni alternative e la giurisprudenza di legittimità lo afferma espressamente in via di principio, pur se concretamente sembra talvolta discostarsene provvedendo a limitare la sua analisi alla sussistenza della capacità di intendere.

Tali statuizioni sono state mutuate, interpretate e criticate correttamente in dottrina, proprio in relazione alle problematiche afferenti la questione zingara; al riguardo, si è più volte affermato che per alcune condotte dei nomadi di recente immigrazione, poste in essere dai Rom slavi, in nessun modo ancora integrati, sono poco utili delle considerazioni incentrate sulla devianza e sul rapporto con la sola incapacità di intendere, poiché, generalmente, si può affermare che un gruppo deviante rifiuta le mete culturali proposte dal sistema e le vie istituzionali per realizzarle. Non è questo il caso del gruppo nomade di recente immigrazione, il quale non può porsi in modo antagonistico rispetto al sistema in quanto non ne ha mai fatto parte[53].

Il deviante, in realtà, risponde ad una situazione di disagio, o percepita come tale, violando norme e valori che regolano la vita sociale, e pertanto si dice che la devianza implica un processo attivo e consapevole di rifiuto. Il nomade invece non reagisce, ma semplicemente agisce secondo i propri codici comportamentali. Lo stesso sistema sociale zingaro non considera deviante il minore che chiede l’elemosina, che ruba al gagè per il sostentamento della famiglia, che non va a scuola. Tali condotte sono tollerate, considerate regolari, perfino dovute. Anzi, i minori sono brutalmente addestrati proprio al fine della realizzazione di tali comportamenti, senza alcuna possibilità reale di sottrarvisi all’infuori dell’abbandono della famiglia e del gruppo; condotte che quindi non possono essere considerati devianti ma semplicemente illegali.

Accade però che questi minorenni molto presto apprendono che la legge italiana vieta e punisce il furto; lo imparano e lo sperimentano sulla propria pelle dopo essere stati accompagnati in caserma per l’identificazione prima dei 14 anni e dopo essere stati arrestati o fermati una volta raggiunta l’età minima per essere imputabili. Tuttavia, la conoscenza che viene acquisita del divieto non è una conoscenza concreta, ma soltanto squisitamente teorica, atteso che essi non riescono a percepirne il sostrato sociale perché questo risulta essere opposto, contrario ed assolutamente incompatibile con quello che nel loro contesto di appartenenza viene considerato un valore apprezzabile, tutelato ed enfatizzato, e per tal guisa viene somatizzato, perché appare indispensabile ai fini della conservazione del ciclo produttivo della famiglia e, più in generale, del gruppo sociale di riferimento.

La cognizione che il minore zingaro acquisisce dei modelli negativi da rifuggere è collegata ad una valutazione per noi poco comprensibile, che risulta essere espressione di un target pseudo-culturale con il quale lo stesso ragazzo è giocoforza costretto a misurarsi: il giovane nomade deve capire immediatamente che ciò che è male, e quindi degno di riprovazione sociale, è solo ed esclusivamente il reato compiuto all’interno del proprio microcosmo sociale, ed in particolare il furto commesso nei confronti di un altro zingaro, di un altro compagno di ricovero notturno della sua etnia.

Tutte queste riflessioni che attengono alla capacità di intendere del minore nomade, ossia alla capacità di rendersi conto del disvalore sociale dell’atto, quindi non permettono di fare approfondire la nostra indagine, come purtroppo spesso avviene, partendo solo ed esclusivamente dalla superficiale affermazione che il ladruncolo è sempre imputabile perché sin da bambini si sa che rubare è un male.

Tali considerazioni, peraltro, trovano una chiave di lettura ancor più chiara e più ampia sol che si attenzioni il piano della capacità di volere, cioè della capacità di resistere ad impulsi spesso più forti della fragile personalità del ragazzino zingaro, già di per sé sufficientemente destabilizzata. Ed invero, il rilievo pratico di queste acquisizioni è di tutta evidenza, atteso che negli adolescenti, e negli adolescenti nomadi in particolare, ciò che assai spesso difetta non è la consapevolezza della illiceità del proprio comportamento ma la concreta capacità di determinarsi autonomamente superando nello specifico i condizionamenti a cui sono esposti. A tal proposito, la dottrina e la giurisprudenza minorili hanno avuto estreme difficoltà ad inquadrare le condotte dei minori slavi nella categoria generale dell’imputabilità. Infatti, “Che dire - come si ritiene, peraltro, nella letteratura sociologica - della capacità di volere di ragazzi che sono determinati al furto dalle loro stesse famiglie? E come può essere considerato “capace” un ragazzo che ruba con la convinzione di doverlo fare per sostentare la propria  famiglia, la quale non ha altre fonti di reddito? E quale maturità è necessaria ad un minore per essere in grado di ribellarsi ai comandi che gli vengono dalla sua stessa famiglia ed acquisire regole di condotta contrarie a quelle familiari?”[54].

Questi dubbi e questi scrupoli mettono in crisi i giudici minorili, allorquando si trovano a dover giudicare della maturità di alcuni minori slavi, combattuti tra l’esigenza di un’adeguata retribuzione al reato commesso e la necessità di una corretta applicazione della norma sull’imputabilità minorile di cui all’art. 98 c.p..

Tali problematiche sono state particolarmente attenzionate in alcuni ambienti giudiziari, dove si è affermato che le esigenze di difesa sociale sono reali ed assolutamente degne di tutela; ma ciò non risolve il problema se la loro tutela e garanzia diventano compito diretto ed immediato, addirittura esclusivo, del giudice minorile, magari sino al punto da far pagare ai minorenni zingari colpe di altri, compresa l’impotenza o l’incapacità degli apparati repressivi di perseguire chi effettivamente li sfrutta[55].

Questa tematica che, peraltro, avremo modo di approfondire più specificatamente infra, ci deve far comprendere sin d’ora che risulta del tutto impensabile poter ritenere che il minore nomade abbia la capacità di effettuare un obiettivo metro di paragone tra il back-ground sub-comportamentale che viene esplicitato dal suo contesto etnico di appartenenza ed i profili legali predisposti dalla società autoctona e, quindi, percepire che le scale valoriali emergenti dal panorama sociale e giuridico italiano sono aderenti a modelli culturali apprezzabili ed introiettabili per il futuro in vista di un ipotizzabile percorso di crescita formativa. E tutto ciò sol se si pensi che un prolungato rifiuto del minore all’accettazione delle consuetudini della famiglia e del clan di riferimento ha come ovvia e necessitata conseguenza oltre che la riprovazione generalizzata, anche il rancore violento e, in moltissimi casi, la sottoposizione a durissime sanzioni corporali.

Rebus sic stantibus, ci si rende, quindi, perfettamente conto che difficilmente il minore nomade dovrebbe essere ritenuto imputabile, atteso che si pretenderebbe da lui lo sganciamento da un vincolo vessatorio che è espressione innata del palinsesto pseudo-culturale del gruppo di appartenenza.

Peraltro, a contrario, è frequente l’opinione di chi afferma che l’assoluzione ex art. 98 c.p. avrebbe, da un lato, un effetto di deresponsabilizzazione specialmente dannoso nei confronti dei ragazzi che, per di più, si sentirebbero marchiati come “incapaci di intendere e di volere”; dall’altro, sulla scorta di considerazioni incentrate sulla concezione retributiva della pena, equivarrebbe ad un indulgenzialismo inaccettabile in presenza di fatti gravi o di reiterazione del reato.

Tali argomentazioni sono contestate da autorevole dottrina, la quale ritiene, innanzitutto, che l’istituto della non imputabilità minorile ha una ratio del tutto diversa da una generica “benevolenza” (si vedano, al riguardo, le conseguenze di cui all’art. 224 c.p. derivanti dalla dichiarazione di inimputabilità). Il giudice, inoltre, deve applicare e fare applicare la legge, dunque anche l’art. 98 c.p.; non deve invece cercare di risolvere, lui, con mezzi illegittimi, esigenze di difesa sociale. A tutti i “ragazzi da 98” basta sapere se essi “vanno dentro oppure no” e gli stessi non si sentono affatto “responsabilizzati” da una condanna o da un perdono giudiziale. Per un ragazzo giungere ad un adeguato livello di responsabilità, dunque di valutazione anche negativa delle sue azioni criminose, è strada lunga, percorribile con successo solo se accompagnato ed aiutato dalle risorse esterne, non certo da una o più pronunce di condanna[56].

Purtuttavia, non si può sottacere la circostanza che, ad un certo punto, anche il giovane nomade ha bisogno, per la sua stessa tutela, di risposte che lo aiutino a percepire anche una cultura diversa dalla propria, che gli facciano intravedere la possibilità di porre in essere altre scelte di vita, che possano far emergere ulteriori potenzialità le quali gli consentano di acquisire una lettura alternativa e più critica della realtà.

A tal proposito, secondo pregevoli opinioni emerse nel panorama giudiziario minorile, alle quali riteniamo senz’altro di aderire, ipotizzate simili alternative, si ritiene che possa essere risposta utile anche la condanna, per la quale tuttavia occorre attendere che il ragazzo abbia raggiunto uno sviluppo fisiopsichico adeguato, che sia già stato avviato il fisiologico processo di sottrazione alla soggezione degli adulti. Se si tiene presente che la cultura nomade è estremamente chiusa, che essa è rimasta per secoli ed è tutt’ora impermeabile a qualsivoglia influenza esterna, appare evidente come una possibilità di sensibilizzazione del ragazzo ad istanze diverse da quelle provenienti dal suo mondo non possa esistere se non in età superiore, quanto meno ai 16 anni, ma non certo ai 14 appena compiuti. Non è fuor di luogo riflettere, per valutare realisticamente le considerazioni sopra esposte, sui tempi di maturazione dei figli adolescenti della nostra società, nonostante le incolmabili lontananze sul piano culturale ed esperienziale, perchè si tratta comunque di tempi fisiologici e non ambientali[57].

 

9. La diversità degli esiti giudiziali.

 

Si è già anticipato che, per le note caratteristiche di marginalità e di invisibilità del popolo zingaro, l’unico modo per ottenere la presenza del minore all’udienza preliminare o al dibattimento è la sua condizione di ristretto in vinculis. Per cui, ove dovesse mancare tale status, l’unica soluzione praticabile sarebbe quella di celebrare il processo nell’assoluta contumacia ed irreperibilità dell’imputato; e, nella maggior parte dei casi, purtroppo, accade proprio questo.

Tanto premesso, il processo, condotto con o senza la presenza del minore nomade, ha in ogni caso un esito giudiziale che può essere, quando venga accertata la sua responsabilità, o in direzione di diversion o in direzione repressiva.

Con riferimento alla prima ipotesi, occorre puntare innanzitutto l’attenzione sugli istituti del perdono giudiziale e della probation.

Per ciò che attiene al perdono giudiziale, giova osservare che condizione fondamentale per la sua concessione è che il giudice abbia elementi che lascino presumere che il minore si asterrà in futuro dal commettere ulteriori reati. Proprio per tale motivo il perdono giudiziale è generalmente negato ai minori zingari: per essi purtroppo la prognosi è addirittura contraria, in molti casi, a quella che giustificherebbe la concessione del beneficio.

Ed invero, come si afferma in dottrina, l’istituto in questione è rivolto a quella fascia di adolescenti in crisi a causa dei problemi e delle difficoltà  che si incontrano nell’età giovanile e che manifestano la loro irrequietezza mediante la commissione di episodi delittuosi i quali tuttavia risultano spesso fenomeni unici ed isolati, frutto di un temporaneo e passeggero sbandamento. Ed è allora proprio nei confronti di tali soggetti che può rivelarsi opportuno operare un tentativo di recupero attraverso l’inapplicazione della pena, essendo presumibile che, superato il disagio dell’età, non commetteranno ulteriori reati. E’ evidente che tali considerazioni non possono valere nei confronti di un minore nomade dedito al furto. E’ notorio, infatti, che per i nomadi la perpetrazione di reati contro il patrimonio costituisce un modus vivendi. Essi vivono con i proventi di tali reati e quindi la loro rappresenta una condotta abituale che esclude qualsiasi probabilità di ravvedimento[58].

Per ciò che riguarda invece l’istituto della probation o messa alla prova, deve rilevarsi che con l’applicazione di tale misura diversiva si apre nell’ambito del processo (sia esso nella fase dell’udienza preliminare o del dibattimento) una parentesi, all’interno della quale le finalità cognitive lasciano momentaneamente il campo a quelle squisitamente educative. La scelta di sottoporre il minore a questa esperienza è riservata al giudice, il quale, in forza della discrezionalità riconosciutagli dal dettato normativo, dovrebbe azionare lo strumento in questione ogni qualvolta ritenga di “dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova” (art. 28 D.P.R. 448/88).

Peraltro, le scarne disposizioni di cui agli artt. 28 e 29 c.p.p. min. sono integrate dall’art. 27 disp. attuaz., il quale prevede che, per poter disporre la sospensione, il giudice deve tenere a base “un progetto d’intervento elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali”.

Il giudice, pertanto, dispone la sospensione “sulla base” del progetto elaborato dai servizi (art. 27 cit.); il che significa che è ben possibile un intervento di quest’ultimo volto ad importare modificazioni ed integrazioni.

Il minore, comunque, è seguito scrupolosamente dai servizi sociali; viene aiutato a trovare una sistemazione lavorativa o ad inserirsi in un corso scolastico o professionale. In buona sostanza, il ragazzo è oggetto di prescrizioni, ma anche di cure particolari. Paradossalmente, quindi, viene supportato più dei suoi coetanei incensurati che, al contrario di lui, non hanno commesso alcun reato.

Giova osservare al riguardo che tali alternatività di trattamento possono essere ben comprese in un contesto ambientale e culturale come il nostro, dove si considera senz’altro giusto, anzi apprezzabile, svolgere un’attività di sostegno specifico nei confronti di un soggetto che si trova in una condizione di deprivazione particolare. Ma, in un microcosmo pseudo-sociale a matrice ristretta come quello zingaro, tali modalità di intervento risultano assolutamente incomprensibili, proprio perché qui la deprivazione non è particolare ma totalmente diffusa, e quindi approcci trattamentali particolareggiati posti in essere nei confronti di alcuni soggetti e non di altri appaiono immediatamente riconoscibili; simili disparità sono sentite come fortemente destabilizzanti per l’intera comunità e, di conseguenza, gli indirizzi comportamentali de quibus non possono essere minimamente accettati.

Come ritiene un’emergente autrice, per il nomade che ha commesso il reato, risposte istituzionali così sofisticate sono lontane da una logica istantaneamente percepibile (quella, per intenderci, dell’occhio per occhio dente per dente). L’attesa impoverisce il contenuto del provvedimento, mentre, paradossalmente, risposte come la condanna o la libertà vigilata sono dai Rom accettate più facilmente. E’, d’altronde, comprensibile che interventi che richiedono un profondo coinvolgimento emotivo o uno sforzo di condivisione di precisi valori creino forti sensazioni di inadeguatezza[59].

Non è un caso, attenzionando la cruda realtà delle cifre, che non si siano avuti negli ultimi tre anni (1998 - 2000), nel Distretto di Catania, casi di minori nomadi sottoposti a probation.

 

Deve rilevarsi, giunti a questo punto del presente lavoro, che si percepisce, in modo sempre più pressante, in alcuni ambienti giudiziari minorili, un malcelato tentativo di degenerazione verso la spirale dell’intransigenza, che rischia di assumere contorni anche aberranti, nel momento in cui si attenziona e si cerca di porre rimedio al triste fenomeno sub-sociale della devianza dei minori zingari; è forte la persuasione di dover privilegiare in percentuale sempre più alta i criteri dell’efficienza rispetto all’esigenza del garantismo rieducativo. Non ci si rende conto che, così facendo, si rischia soltanto di far conoscere ai giovani nomadi le rudezze della polizia, la gelida indifferenza dei giudici che li condannano, la lunga sosta nelle prigioni; e tutto questo non fa altro che accrescere in maniera esponenziale il già evidente sentimento di insofferenza verso l’apparato istituzionale giudiziario e poliziesco che, tra l’altro, non viene neanche temuto perché non viene compreso.

Come afferma autorevole dottrina, tale apparato viene solo odiato e basta, e ciò accentua ulteriormente il loro “sentirsi nemici in terra nemica” [60].

Al riguardo, con riferimento, per esempio, all’istituto della sospensione condizionale della pena, si ritiene che le stesse considerazioni sulla gravità del reato, sulla personalità del colpevole e sulle condizioni di vita del nomade, svolte già con riguardo alla problematica del perdono giudiziale, varrebbero altresì ad escludere la possibilità di applicare il beneficio della pena sospesa, essendo negativa la prognosi sulla futura condotta del reo e che, peraltro, l’assenza di precedenti penali non potrebbe avere molto significato quando si tratta di zingari, atteso che è una loro pratica diffusa quella di fornire false generalità alla polizia: con la conseguenza che, pur risultando incensurati, sono già stati invece denunziati altre volte[61].

In realtà, il pregiudizio di fondo che accompagna le problematiche legate alla “questione zingara”, e che, peraltro, è stato acquisito ormai quasi come assunto giustificatore del fallimento dell’operazione di ricerca di percorsi alternativi di intervento nei confronti dei minori nomadi, è ricollegato alla circostanza che la reazione istituzionale alle loro condotte devianti dovrebbe essere canalizzata solo ed esclusivamente verso la soluzione retributiva, e cioè verso la risposta della detenzione. Ciò posto, secondo quella che è, invece, l’opinione costante nella letteratura sociologica, l’individuazione dell’assenza di strumenti tendenti all’aiuto ed al recupero del ragazzo, più che avere una matrice degenerativa nella risposta sanzionatoria, dovrebbe rappresentare il presupposto della presa di coscienza che non è possibile intervenire in maniera proficua e che quindi gli indirizzi di intransigenza giudiziaria non potranno annullare, ma, anzi, enfatizzeranno e confermeranno ancor di più l’impulso del minore verso l’inesorabile vortice della spirale criminale.

Ciò considerato, sono pertanto sicuramente da apprezzare le opinioni di alcuni rappresentanti dell’amministrazione della giustizia che, come voci fuori dal coro, affermano che l’accettazione realistica della impossibilità di intervenire utilmente in aiuto ad un giovane nomade, proprio perchè non esistono strumenti o strutture di sorta, dovrebbe avere l’effetto di rendere i giudici più attivi ed esigenti nel sollecitare i soggetti istituzionali preposti ad assumere le iniziative adeguate; potrebbe costituire un segnale, una spinta per chi abbia compiti di prevenzione e di difesa sociale, compiti troppo sovente ed arbitrariamente assunti dalla magistratura minorile in via di supplenza mediante la risposta del carcere[62].

 

10. Al modo di una conclusione.

 

Giunti alla fine del presente lavoro, ci si rende perfettamente conto che il dilemma di fondo con cui sono costretti a confrontarsi quotidianamente operatori sociali, psicologi ma, soprattutto giudici, quando si affrontano le problematiche legate alla “questione zingara”, attiene alla necessità di trovare delle soluzioni equidistanti tra la sostanziale politica del non far nulla e l’inasprimento giudiziario.

Un simile approccio non può prescindere dalla preliminare considerazione che gli zingari sono continuamente bersagliati, soprattutto da parte dei mezzi di comunicazione di massa, pur nel loro contesto di isolamento, di deprivazione sociale e di disorientamento normativo, da nuovi modelli di consumo, dalla visione di una società autoctona opulenta. Tanto premesso, non si può sottacere, la circostanza che a tale sovraesposizione, la quale impone originali bisogni e particolari esigenze voluttuarie, non fa da contraltare, però, l’individuazione degli strumenti leciti per soddisfarli. Quindi, l’impossibilità di realizzare onestamente tali finalità, e la necessità di portarle comunque a compimento, ha come inesorabile conseguenza la spinta alla devianza ed all’impiego di minori in attività delittuose.

Pertanto, questi comportamenti illeciti sono in buona parte frutto dell’adesione degli zingari ad una subcultura, che non appartiene alla loro tradizione. Sono il prodotto, come si afferma bene in sociologia, di una situazione di anomia in cui i codici normativi di entrambe le culture, quella di appartenenza e quella di riferimento, non sono più in grado di stabilire il giusto nesso tra mezzi e fini[63].

Ciò posto, risulta trasparente che l’intervento giudiziario non potrà mai raggiungere gli obiettivi che si propone sin quando si continueranno ad attenzionare tali problematiche offrendosi ad una visuale distorta della realtà, e cioè facendo ancora finta di ritenere che la “questione zingara” sia solo ed esclusivamente una forma di “delinquenza minorile”.

Rimanendo confinati dentro questa logica, l’unica soluzione praticabile per creare dei contrappesi ad una politica repressiva ormai esasperata nei confronti dei soli minorenni, potrebbe essere, come si ritiene in dottrina, quella di “allargare” la repressione penale anche nei confronti degli adulti zingari. Non si tratta solo del concorso, della istigazione, dello sfruttamento relativo ai reati commessi dai minori, comportamenti che pure sono evidentissimi e che non vengono in realtà perseguiti. Si pensi anche al trattamento che molti adulti riservano ai minori di cui “dispongono” e che non sempre sono loro figli. Un pari trattamento perpetrato in danno di minori italiani da parte di un genitore porterebbe a segnalazioni e denunce, concretizzando di volta in volta i reati di maltrattamento, abuso e violazione degli obblighi di assistenza familiare. Procedimenti del genere, invece, sono rarissimi[64].

Peraltro, il problema risulta essere ancora più complesso di quel che sembri in apparenza. Ed infatti, se è vero che la sensazione allarmistica di impotenza che si ricava di fronte alla dirompente delittuosità dei minori nomadi, potenzialmente, dovrebbe trovare un riscontro immediato nella necessità di estendere i confini dell’attività repressiva anche nei confronti degli adulti, in realtà, tali nuovi e peculiari indirizzi di politica criminale non sono sentiti come indispensabili da parte dell’opinione pubblica; più precisamente, prevalgono in una parte di essa evidenti manifestazioni di indifferenza e di estraneità, ispirate dalla convinzione che le pratiche devianti, e cioè gli abusi nei confronti dei minori zingari e lo sfruttamento di ragazzini impiegati nell’accattonaggio e nei furti, siano, purtroppo, il frutto di una cultura radicata in secoli di pseudo-consuetudini specificatesi all’interno di un microcosmo ristretto e, quindi, difficilmente modificabili con semplici interventi esterni.

Ciò non toglie che si deve porre in essere un tentativo di vincere questo atteggiamento di resa incondizionata; in tal senso, come si ritiene correttamente in sociologia, il sistema giuridico, considerato nel suo complesso, potrà incidere, de iure condendo, in maniera positiva sulle problematiche attinenti alla “questione zingara”, considerando quest’ultima nella sua globalità, configurando interventi che riescano ad incidere la radice del contesto deviante e predisponendo, altresì, adeguate misure per favorire l’integrazione e diminuire la necessità del ricorso a strumenti repressivi. In tal modo, il minore zingaro, entrando in rapporto con il mondo dei gagè, prima di essere tutelato dalla loro confusa giustizia, potrà esserlo anche da una più concreta accettazione[65].

 

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* L. PEPINO, Chi ha paura della non imputabilità minorile?, in Minori e Giustizia 1996, 4.

 

* P. PITTARO, Commento al codice di procedura penale - Leggi collegate, I, Il processo minorile, (a cura di M. CHIAVARIO), UTET, Torino 1994.

 

* G. SANGA, Currenti libido: il viaggio nella cultura dei marginali, in L. PIASERE (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, Napoli 1995.

 

* C. SCIVOLETTO, Per i minori stranieri solo accoglienza in carcere, in Minori e Giustizia 2000, 1.

 

* D. SIRACUSANO, in SIRACUSANO - GALATI - TRANCHINA - ZAPPALA’, Diritto processuale penale, Giuffrè, Milano 2001, vol. I.

 

*  S. TOVO, Medicina Legale e delle Assicurazioni, Piccin, Padova 1989.

 

* P. VERCELLONE, L’imputabilità e la maturità del minore, in AA.VV., Difendere, valutare e giudicare il minore, Giuffrè, Milano 2001.

[1] Secondo la più consolidata letteratura sociologica si configurano due tipi di devianza: 1) la devianza criminale (o delinquenza), che consiste nella violazione di una norma di carattere penale; 2) la devianza psico-patologica, che consiste nella violazione di una regola di benessere sociale o psicologico (per es. emarginazione), ma che non dà luogo alla trasgressione di una norma di carattere penale. E’, sostanzialmente, un fenomeno di disadattamento sociale.

[2] S. DI NUOVO - G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè, Milano 1999, p. 26.

[3] F. FACCIOLI, Immagini della devianza minorile tra tutela e allarme sociale, in La tutela del minore, psicologia ed etica , (a cura di A. Mestitz), Giuffrè, Milano 1997, p. 88.

[4] A. CERETTI - R. MERAFINA, La criminalità minorile zingara a Milano: 1972 - 1992, in Minori e Giustizia 1998, 1, p.135.

[5] Gagè o Gagio, in lingua zingara, significa “non zingaro”.

[6] Una Kumpania  è una piccola e temporanea comunità “residenziale” con affinità elettive e funzioni principalmente di protezione dall’esterno e di organizzazione economica interna.

[7] A. DUSI, Identità e devianza del minore zingaro, in Minori e Giustizia 1999, 3, p. 88.

[8] A. DUSI, op. cit., p. 89.

[9] R. BARRASSO, Perdono giudiziale, sospensione condizionale della pena e minori nomadi, in Gurisprudenza italiana 1996, II, p. 617.

[10] Per le modalità zingare di educazione dei bambini cfr. J. P. LIEGEOIS, Zingari e viaggianti, tr. it., Lacio Drom, Roma, 1987.

[11] G. SANGA, Currenti libido: il viaggio nella cultura dei marginali, in L. PIASERE (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, Napoli 1995, p. 377.

[12] C. CARTASEGNA, Il minore zingaro e la giustizia dei gagè, in Minori e Giustizia 1999, 3, pp. 75-76.

[13] A. DUSI, Identità e devianza del minore zingaro, op. cit., p. 91.

[14] A. DUSI, Identità e devianza del minore zingaro, op. cit., pp. 91 - 92.

[15] C. CARTASEGNA, Il minore zingaro e la giustizia dei gagè, op. cit., p. 81.

[16] L. MIAZZI, Nomadi ed extracomunitari: problemi di identificazione e di trattamento, in Minori e Giustizia 1996, 4, p. 91.

[17] L. MIAZZI, op. cit., p. 98.

[18] Cass. Pen., 22 marzo 1995, Liti, C.E.D. Cass., n. 200477.

[19] R. E. KOSTORIS, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, UTET, Torino 1989, vol. I, p. 339.

[20] R. MARCHIORI, in AA.VV., Difendere, valutare e giudicare il minore, Giuffrè, Milano 2001, p. 634.

[21] L. MIAZZI, op. cit., p. 101.

[22] Le impronte digitali sono caratterizzate dai segni che lasciano i disegni formati dalle creste presenti sulle superfici delle dita quando vengono premute o anche solamente appoggiate ad un altro corpo. Infatti, la sommità delle creste, attraverso i pori, secerne il sebo, l’urea ed altri composti organici, che si depositano sugli oggetti che vengono toccati, lasciando impresso il disegno delle creste.

[23] R. MARCHIORI, op. cit., p. 635.

[24] L. MIAZZI, Nomadi ed extracomunitari: problemi di identificazione e di trattamento, op. cit., p. 106.

[25] G. CANUTO – S. TOVO, Medicina Legale e delle Assicurazioni, Piccin, Padova 1989, p. 391.

[26] L. MIAZZI, op. cit., p. 107.

[27] L. MIAZZI, op. cit., p.108.

[28] G. CANUTO – S. TOVO, op. cit., p. 391.

[29] Cass. Pen., Sez. II, 14/11/59, n. 2259. Tale sentenza in motivazione fa riferimento alla regola (derivata dagli esiti dei calcoli del matematico Balthazard) relativa al “ritorno delle corrispondenze” nelle impronte, per cui con 17 punti di corrispondenza vi è una probabilità su 17.179.869.184 che vi siano due impronte diverse che li contengano. Nello stesso senso vedi: Cass. Pen., 20/5/82, Fanolla.

[30] D. SIRACUSANO, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALA’, Diritto processuale penale, Giuffrè, Milano 2001, vol. I, p. 330.

[31] S. DI NUOVO - G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, op. cit., pp. 153 - 154.

[32] Oltre a tutte le conseguenze previste per il caso in cui l’interessato sia maggiorenne o minorenne, si pensi, per es., all’art. 163 co. 3° c.p., per l’applicazione della sospensione condizionale della pena; all’art. 275 co. 4° c.p.p., per l’applicazione della misura cautelare; all’art. 24 disp. attuaz. proc. pen. min., per l’espiazione pena del detenuto infraventunenne.

[33] R. E. KOSTORIS, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, UTET, Torino 1989, vol. I, p. 343.

[34] L’età risultante dalla radiografia può dirsi attendibile, con una tolleranza di circa sei mesi in più o in meno. Più precisa sarà la perizia, che terrà conto di maggiori parametri.

[35] Tale sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 224 co. 2° c.p.p. “nella parte in cui consentiva che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponesse misure che comunque incidessero sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi al di fuori di quelle specificatamente previste nei vari casi e nei vari modi dalla legge”.

[36] R. MARCHIORI, in AA.VV., Difendere, valutare e giudicare il minore, op. cit., p. 633.

[37] L. MIAZZI, Nomadi ed extracomunitari: problemi di identificazione e di trattamento, op. cit., p. 113.

[38] P. PITTARO, Commento al codice di procedura penale - Leggi collegate, I, Il processo minorile  (a cura di M. CHIAVARIO), UTET, Torino 1994, pp. 76 -77.

[39] S. DI NUOVO - G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, op. cit., pp. 156 -157.

[40] F. PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano 1989 (seconda ediz. 1991), p. 155.

[41] Cass. Pen., 23 giugno 1993, in Giur. it., 1994, II, 316.

[42] Vedi, per esempio: R. MARCHIORI, op. cit., p. 633.

[43] Vedi, per esempio: Ord. GIP Trib. Min. Catania, 27/5/00, Duric.

[44] F. PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, op. cit., p. 76.

[45] Vedi, per es., le c.d. “Regole minime” di Pechino, ONU, 29/11/85; e le “Raccomandazioni sulle reazioni sociali alla delinquenza giovanile”, Consiglio d’Europa, 1987.

[46] C. SCIVOLETTO,  Per i minori stranieri solo accoglienza in carcere, in Minori e Giustizia 2000, 1, pp. 24-25.

[47] B. BARBERO AVANZINI, “La devianza giovanile tra controllo penale e intervento dei servizi”, in B. BARBERO AVANZINI (a cura di), Minori, giustizia penale e intervento dei servizi, Angeli, Milano 1998, p. 65.

[48] F. OCCHIOGROSSO, “Il primato della punizione”, in M. CAVALLO (a cura di), Punire perchè, Angeli, Milano 1993, p. 310.

[49] C. SCIVOLETTO, Per i minori stranieri solo accoglienza in carcere, op. cit., p. 32.

[50] P. CENTOMANI, “L’I.P.M. - Istituto penale minorile. Un servizio, verso il recupero di una centralità della persona e il superamento della concezione rieducativa”, in P. VALENTINI (a cura di), Cultura preventiva e azione comunicativa con i ragazzi autori di reato, Angeli, Milano 1997, p. 152.

[51] G. LA GRECA, Bisognosa di adeguamento la disciplina penitenziaria minorile dopo più di un ventennio, in Diritto penale e processo 1996, 6, p. 768. In giurisprudenza vedi, nello stesso senso: Trib. Minorenni Milano, 8 settembre 1979, in Foro it. 1980, II, 69.

[52] G. CALCAGNO, Il trattamento penale dei minori nomadi e dei minori extracomunitari, in Minori e Giustizia 1999, 3, pp. 94-95.

[53] A. CERETTI - R. MERAFINA, La criminalità minorile zingara a Milano: 1972 - 1992, op. cit., p. 90.

[54] P. PAZE’ - N. DE PICCOLI, “I minori zingari: risposta giudiziaria e intervento sociale”, in Il Bambino incompiuto, 1987, 2, p. 16.

[55] L. PEPINO,  Chi ha paura della non imputabilità minorile?,  in  Minori  e  Giustizia 1996, 4,  p. 51.

[56] P. VERCELLONE, L’imputabilità e la maturità del minore, in AA.VV., Difendere, valutare e giudicare il minore, Giuffrè, Milano 2001, p. 351.

[57] G. CALCAGNO, Il trattamento penale dei minori nomadi e dei minori extracomunitari, op. cit., p. 99.

[58]  R. BARRASSO,  Perdono giudiziale, sospensione condizionale della pena e minori nomadi, op. cit., p. 622.

[59] A. DUSI, Identità e devianza del minore zingaro, op. cit., p. 92.

[60] P. VERCELLONE, L’imputabilità e la maturità del minore, in AA.VV., op. cit., p. 352.

[61] R. BARRASSO, Perdono giudiziale, sospensione condizionale della pena e minori nomadi, op. cit., pp. 622 - 623.

[62] G. CALCAGNO, Il trattamento penale dei minori nomadi e dei minori extracomunitari, op. cit., p. 97.

[63] A. R. CALABRO’, “Il vento non soffia più”. Gli zingari ai margini di una grande città, Marsilio, Venezia 1992, p. 89.

[64] A. CERETTI - R. MERAFINA, La criminalità minorile zingara a Milano: 1972 - 1992, op. cit., p. 135.

[65] C. CARTASEGNA, Il minore zingaro e la giustizia dei gagè, op. cit., p. 82.