*** di Francesco Giacca 1.1. Uno sguardo generale
L’attuale
linea legislativa italiana in favore dei minori che hanno fatto ingresso
nell’area penale, si fonda in questo momento sul minimo intervento
penale, che a sua volta fa riferimento ai principi socio-criminologici
della Scuola di Chicago, in particolare all’Interazionismo Simbolico.
Allo scopo di dare coerenza
metodologica a questo lavoro, appare opportuno capire qual’è la
diretta, la conseguenziale evoluzione e applicazione di questo approccio
scientifico nell’attuale legislazione italiana.
Ci sembra di individuare, la
presenza di questa teoria, nelle linee attuative del DPR 448/88, che ha
disciplinato la materia minorile contestualmente, ma separatamente
rispetto al nuovo codice di procedura penale (Palomba, 1991, 4).
Naturalmente, allo scopo di
iniziare un esame specifico della legge, è necessario cercare di
riflettere sul mutamento culturale che ha portato all’approvazione del
nuovo processo penale minorile.
Fino
ad una ventina d’anni fa, si guardava al ragazzo e ai suoi problemi, in
modo sostanzialmente diverso e limitato.
Il ragazzo, nell’ambito del
diritto civile, era in fondo visto soltanto come un soggetto su cui si
riversava il diritto, piuttosto che come un soggetto portatore di diritti
di personalità e, principalmente, di quel fondamentale diritto
all’educazione, indispensabile per la costruzione di una personalità
matura (Moro, 1994, 40).
Il diritto civile si
preoccupava, sostanzialmente, solo dei diritti patrimoniali del ragazzo,
disciplinando con molta attenzione persino quelli del concepito e della
tutela della sua integrità fisica.
Tale atteggiamento nei
confronti dei minori, caratterizzava, d’altra parte, il periodo storico
che si attraversava.
Tutto il sistema
d’assistenza, era principalmente finalizzato a temi di profilassi
sociale, senza alcun intervento concreto nei confronti della personalità
del minore, che potesse contribuire al superamento delle differenze nelle
posizioni di partenza della vita, che vedeva alcuni soggetti più
svantaggiati rispetto agli altri.
Anche nel sistema degli
interventi contro la devianza, la competenza amministrativa dei Tribunali
per i Minorenni riguardava interventi di correzione morale, come recitava
la legge del 1934, in pratica finalizzati a prevenire che situazioni di
difficoltà del minore, sfociassero poi in comportamenti penalmente
rilevanti.
All’interno degli Istituti di
Correzione non si realizzavano, quindi, interventi di sostegno e di
recupero di un processo educativo interrotto, ma attività di
contenimento.
Conseguentemente, la
concessione del perdono, la dichiarazione d’immaturità o
l’internamento in una struttura di tipo carcerario, costituivano le
uniche possibilità d’intervento nei confronti del minore.
Il ragazzo, all’interno del
sistema penale, era considerato come un piccolo adulto criminale, al quale
s’infliggeva una pena che avrebbe dovuto restaurare l’ordine sociale
violato.
Negli ultimi vent’anni, però,
si sono avuti sostanziali mutamenti nella filosofia dell’intervento.
E’ emerso, infatti, in
maniera più compiuta, la necessità di attuare il diritto fondamentale
all’educazione di cui, poi, tutti gli altri diritti previsti
dall’ordinamento sono un’applicazione.
In sostanza, il diritto
minorile non è più un diritto sui minori, ma è diventato un diritto per
i minori: deve, cioè, servire ad aiutare lo sviluppo della personalità
del ragazzo, affrontando e risolvendo i suoi problemi non con la
segregazione, ma con il coinvolgimento di tutti coloro che fanno parte
della rete di relazioni del soggetto.
Solo un intervento così
complessivo può portare alla ripresa di un processo educativo interrotto
o deviato.
E’ in questo quadro che nasce
la riforma del processo penale, principalmente radicato sull’idea di un
progetto educativo nei confronti del ragazzo che ha espresso le sue
difficoltà attraverso un comportamento penalmente sanzionato.
Il ragazzo ha bisogno di un
intervento efficace, più che di una risposta in termini di terrorismo
dell’intervento penale e questo vale anche per il carcere che, anziché
facilitare l’opera di recupero del soggetto la rende più difficile.
L’adolescente è un soggetto
alla disperata ricerca di un’identità, non importa se positiva o
negativa.
All’interno di una struttura
carceraria il minore, stigmatizzato in un ruolo delinquenziale, trova
continue conferme per lo sviluppo in negativo della sua identità.
E’ possibile che in tale
struttura si creino delle profonde alleanze funzionali alla ripresa di
un’attività delinquenziale futura.
Il fallimento di tale tipo
d’intervento, fa emergere chiaramente l’importanza di superare le
insufficienze umane, che si esprimono attraverso comportamenti devianti,
non con l’annientamento, ma con il recupero della persona per la
realizzazione di un adeguato progetto educativo.
Possiamo sicuramente
affermare che, attraverso il nuovo processo minorile, si è venuta a
rompere la tradizionale autarchia del sistema penale.
Così, anche la comunità
locale e i suoi servizi sono stati profondamente coinvolti in questa
attività e chiamati a collaborare ai programmi di recupero.
Il sistema penale chiuso,
gestito cioè dagli operatori della repressione, come necessariamente
erano configurati gli operatori di un servizio che si occupava solo di un
intervento penale di tipo carcerario, si apre con il nuovo processo
minorile alla comunità locale.
Questa profonda
rivoluzione culturale che il nuovo processo penale ha attivato, in fondo
non costituisce una novità, perché già attraverso il D.P.R. 616/77 e le
attribuzioni agli Enti Locali degli interventi nei confronti degli
adolescenti devianti che non avessero commesso fatti penalmente rilevanti,
la comunità era stata legislativamente coinvolta.
L’attribuzione
delle competenze assistenziali e di recupero prevista dal D.P.R. 616 era
collegata all’idea di un’interrelazione profonda tra la politica dello
sviluppo e la politica dei servizi, e quindi tra momento di valutazione
politica dei più generali bisogni dei cittadini e momento d’intervento
tecnico a sostegno delle persone in difficoltà.
L’attribuzione al
Comune di queste competenze è stata spesso vista solo come una forma di
decentramento amministrativo.
Invece, aveva un
significato più profondo e pregnante: con essa si rendeva il Comune
titolare non di un potere amministrativo ma di un potere politico in
relazione alla progettazione della qualità della vita nell’ambito
comunitario (Moro, 1994, 44).
Non si è pertanto
decentrata l’assistenza, ma si è voluta legare la politica
dell’assistenza alla più generale politica sociale, tendente quanto
meno alla eliminazione delle situazioni di disagio che generano i bisogni.
Gli obiettivi
dell’assistenza devono essere profondamente incorporati negli obiettivi
dell’azione sociale, perché evidenti sono i nessi causali tra carenze
politiche e sociali e situazioni sociali deficitarie.
Questo
appare in modo evidente nell’ambito della devianza giovanile e, in certi
casi ci renderemmo conto di come certe agglomerazioni sociali sono di per
sé patogene.
E non basta, in
questi casi, intervenire nei confronti del singolo soggetto, ma è
indispensabile svolgere un’azione politico-sociale per risolvere sul
piano più generale il problema.
Un’azione
indispensabile per evitare la devianza, non può che radicarsi su
un’accentuazione dell’intervento di tipo preventivo, proprio perché
in questo modo si eliminano alla radice i rischi conseguenti
all’insorgere delle difficoltà e si consente un sereno sviluppo della
persona.
Un’attività di
prevenzione implica una capacità di individuare tempestivamente tutte le
situazioni di rischio, e quindi predisporre la creazione di una rete di
relazioni con tutte le agenzie di socializzazione che hanno la possibilità
di percepire tempestivamente l’insorgere di una situazione a rischio,
quali la scuola e i servizi.
Il che capovolge la tradizionale ottica dei servizi come sportello,
in attesa che l’utente vi si rivolga chiedendo una data prestazione.
Probabilmente,
non è stata sempre compresa in maniera compiuta questa nuova metodologia
di lavoro, per la prevenzione ed il recupero della devianza.
A nostro
giudizio, non si è avuto il coraggio, da parte anche degli Enti Locali,
di capire come l’intervento assistenziale veniva ad avere una
connotazione molto diversa da quella dell’intervento assistenziale
tradizionale legato al sussidio.
I servizi
dell’Ente Locale, sono stati tradizionalmente più attenti alle
problematiche infantili che a quelle giovanili, in particolare della
preadolescenza e adolescenza.
L’Ente
Locale si è occupato della preadolescenza e dell’adolescenza solo per
la predisposizione di strutture per il tempo libero (solo negli ultimi
tempi sono state avviate sperimentazioni sulla base della legge n. 285/97
per la devianza giovanile), cosa certamente rilevante ma che non risponde
ai bisogni più profondi di un’adolescenza diversa e profondamente
travagliata.
Non è
cambiata la vecchia logica, secondo cui l’assistenza è la risposta ad
una richiesta spontanea rivolta dall’utente e non deve aiutare a
risolvere i profondi problemi della persona quando essi non siano
rappresentati e avvertiti.
Deve, quindi,
essere superata la tecnica dell’intervento d’urgenza che si limita a
tamponare delle situazioni, senza rimuovere tutte le cause alla base della
difficoltà.
Certamente,
finché i servizi del territorio non avranno mutato la loro ottica, si
troveranno in estrema difficoltà a gestire interventi come quelli
previsti dalla legge n. 616 per adolescenti e preadolescenti nell'ambito
delle cosiddette misure amministrative del Tribunale per i Minorenni, e
ancora di più si troveranno impreparati a gestire un intervento come
quello che è richiesto nella nuova riforma del processo penale minorile.
La riforma
del sistema penale, ha l’enorme valenza di sfidare i servizi, la cultura
e la società a riflettere sulla drammatica situazione di un’adolescenza
sostanzialmente negata e abbandonata e che esprime oggi più che mai una
serie di bisogni.
Il nuovo
processo penale, rappresenta un’occasione che può aiutare tutti a dare
un concreto sostegno a un momento così drammatico della vita di questi
ragazzi, non solo per evitare la devianza, ma per attuare in loro quelli
che sono i diritti fondamentali della persona, e in particolare il
fondamentale diritto all’educazione e allo sviluppo umano (Moro, 1994,
47).
1. 2. Attori, Servizi e Fasi del
Processo Penale minorile
A questo punto, sembra
importante illustrare le scansioni temporali del nuovo processo penale
minorile individuando, nelle varie fasi, i servizi sociali coinvolti ed i
compiti a loro spettanti, a proposito dell’attività di recupero del
minore deviante.
1.2.1 Gli accertamenti preliminari
all’esercizio dell’azione penale
In
questa prima fase, indicata dalla notizia criminis, cioè la notizia che
un reato è stato commesso da un determinato ragazzo, si aprono una serie
d’indagini funzionali all’accertamento della responsabilità e alla
predisposizione di un progetto processuale.
La notizia della
commissione di un reato, è inviata al Pubblico Ministero presso il
Tribunale del luogo in cui è stato commesso il reato.
E’ da dire subito
che, mentre nella normativa vigente prima del nuovo codice, il Pubblico
Ministero presso il Tribunale aveva una serie di compiti rilevanti anche
sul piano istruttorio, cioè poteva, in ambito istruttorio, assumere tutta
una serie di prove che erano valide nel processo, nel nuovo sistema
processuale (per gli adulti e per i minorenni) il Pubblico Ministero non
può che svolgere delle indagini preliminari, al fine di effettuare
l’identificazione della norma che è stata violata.
Le prove non sono
più assunte dal P.M., ma sono assunte, in via preventiva, quando c’è
pericolo che non ci sia la possibilità di ripetere la prova, dal Giudice
delle indagini preliminari, in altre parole sono assunte direttamente
nell’ambito del dibattimento.
Quindi, la funzione
del P.M. nel nuovo sistema processuale è una funzione fortemente
ridimensionata nei confronti della sua vecchia posizione.
Questi, diventa
parte antagonista ma analoga a quella del difensore e tutto
l’accertamento probatorio è demandato al giudice.
Nel processo
minorile, il P.M. ha in più una competenza particolarmente rilevante
perché è colui che deve proporre la tipologia dell’intervento
processuale che si vuole realizzare nei confronti del ragazzo.
E questa richiesta,
si radica su un accertamento approfondito della personalità del ragazzo,
dei suoi problemi, dei suoi bisogni, al fine di disporre le misure più
opportune, sul piano penale, quando la devianza sia del tutto occasionale
e quindi non siano necessari degli interventi di tipo squisitamente
penale, o la possibilità di sospensione del procedimento, o, infine, la
possibilità e l’opportunità di un intervento sanzionatorio (Palomba,
1991; Giannino, 1994; Moro, 1994).
Questa possibilità
di scelta del P.M., che è poi ratificata dal giudice, non può che essere
radicata sugli accertamenti di personalità del ragazzo.
Accertamenti che
sono funzionali, perciò, ad un programma processuale e non ad un
programma educativo.
Il problema da
affrontare in questa fase è di capire, dunque, qual’è la risposta più
adeguata da dare sul piano processuale: se far uscire il ragazzo il più
rapidamente possibile dal circuito penale o se, invece, sospendere il
procedimento, o arrivare
all’irrogazione di una sanzione; mentre il momento della determinazione
di un progetto educativo, non potrà che venire successivamente alla
scelta che il giudice avrà fatto sul tipo di intervento che si vuole
realizzare per il recupero del minore.
E’ quindi
indispensabile una conoscenza del ragazzo, dei suoi problemi, del suo
ambiente, dell’eziologia che lo ha portato al reato.
Questi
accertamenti, devono essere svolti nei confronti di colui che abbia
compiuto i 14 anni, per il quale, quindi, è necessaria sempre una
decisione giudiziale, anche se alcuni ritengono che debbano essere svolti
anche nei confronti dell’infraquattordicenne, cioè di colui che non è
ancora imputabile (Moro, 1994, 49).
Infatti,
l’imputabilità, cioè la possibilità di responsabilità penale, è
strettamente legata al compimento dei 14 anni mentre il ragazzo al di
sotto di questa età non è responsabile penalmente ex lege, quindi non può
essere nemmeno sottoposto a processo.
Naturalmente,
gli accertamenti di personalità nei confronti del ragazzo
infraquattordicenne devono essere svolti dai servizi dell’Ente Locale,
perché il trattamento riguardante quest’ultimo è di competenza
esclusiva dei servizi dell’Ente Locale.
Lo
stesso codice, prevede che l’indagine di personalità possa essere
realizzata in modo diverso: sentendo la famiglia e le persone che si
occupano del ragazzo, i suoi insegnanti, il datore di lavoro.
Il
Pubblico Ministero può acquisire rapidamente notizie dai servizi che già
si occupano del ragazzo, o assumere informazioni attraverso quella polizia
specializzata che il nuovo codice ha istituito presso la Procura della
Repubblica per i Minorenni.
La
richiesta d’indagini specifiche, può essere rivolta dal P.M. o al
Servizio Sociale Ministeriale o al Servizio dell’Ente Locale.
Possono
essere necessarie anche indagini psicologiche più approfondite sul
minore, compiute da tecnici qualificati.
L’articolo
nove, parla a tal proposito di un parere degli esperti, a detta di alcuni
equivoco, come equivoca e riduttiva è la possibilità che attraverso una
perizia di stampo classico si possano accertare i problemi di personalità
del ragazzo, tenuto conto che il disadattamento ha caratteristiche
sostanzialmente sociali (Moro, 1994, 50).
Il
codice, prevede anche che vi sia, in questa fase di atti preliminari, un
diretto contatto del P.M. con il ragazzo per valutarne non solo la
responsabilità penale, ma anche le concrete risorse.
L’assistenza al minore imputato
In questo
stadio preliminare, come poi in tutte le fasi successive, il ragazzo,
riconosciuto dall’ordinamento un soggetto debole e bisognoso di
protezione dalle sofferenze e dai pregiudizi, deve essere assistito non
solo dal difensore tecnico, ma anche dal genitore e dai Servizi.
Questo tipo
d’assistenza al ragazzo, è espressamente prevista dall’art.12 del
codice di procedura penale minorile, in cui si ripropone la necessità di
un’assistenza affettiva e psicologica all’imputato, assicurata sia
dalla presenza dei genitori o d’altra persona, sia dall’assistenza
continua da parte dei Servizi.
Il termine
“assistenza”, non significa solo aiuto al ragazzo perché predisponga
un idoneo piano di difesa, ma significa anche aiutarlo psicologicamente, e
non sempre il genitore è colui che meglio può sostenerlo in questo
momento.
Difatti,
spesso al momento del processo, scatta nel genitore o una tendenza
giustificazionista del ragazzo, oppure un meccanismo fortemente
penalizzante nei confronti del minore, una forte richiesta di sanzioni
pesanti nei confronti del ragazzo.
Perciò è
importante che, proprio per queste situazioni, ci sia una costante
presenza dei Servizi e, in questo caso, dei servizi che svolgono una
funzione d’assistenza: possono essere o i Servizi dell’Ente Locale,
specie se già conoscono il ragazzo e principalmente se poi devono
seguirlo successivamente o i Servizi Sociali Ministeriali, se il ragazzo
è sottoposto ad una misura cautelare.
Sorge qui,
per i Servizi Sociali Territoriali, il problema di avere dei sussidi
tecnici nei confronti di un’attività d’assistenza, d’avere consigli
sul piano legale, dato che non sempre l’avvocato difensore ha
sufficiente capacità pedagogica per capire i problemi del ragazzo e molto
spesso gli interventi tecnici proposti sono assolutamente rovinosi sul
piano pedagogico.
Allora,
sarebbe bene che i Servizi Comunali territorialmente competenti si
dotassero di una sorta di consulenza giuridica per avere la possibilità
della comprensione tecnica delle fasi di svolgimento del processo e per
avere consigli su ciò che è giuridicamente opportuno al ragazzo.
Tale
consulenza, crediamo sia indispensabile ai servizi non solo nell’ambito
del processo penale, ma anche nell’ambito degli interventi propriamente
civili, per i quali spesso i servizi hanno bisogno di un sostegno tecnico.
Le misure cautelari
Una
seconda fase, logicamente distinta, ma che si interseca con la prima fase,
è quella relativa alle misure cautelari nei confronti dei minori.
E’
questa una fase particolarmente delicata e su cui, a nostro modo di vedere
ci sono molti equivoci da eliminare.
Il
nuovo processo penale minorile, ha profondamente modificato la vecchia
normativa, che era strettamente legata all’obbligatorietà
dell’arresto in flagranza di reato del minore.
In
pratica, quando la polizia scopriva un ragazzo nell’atto di commettere
un reato, o immediatamente dopo la commissione dello stesso, era obbligata
all’arresto e alla conseguente carcerazione preventiva.
Nei
confronti dei minori, che per il 73% commettevano reati contro il
patrimonio, l’arresto in flagranza era una realtà piuttosto sviluppata,
anzi, tutto l’intervento penale finiva con l’essere polarizzato sul
momento della carcerazione preventiva.
Quindi,
in gran parte, era questo l’unico momento sanzionatorio, cui seguiva poi
l’eventuale proscioglimento per immaturità o l’eventuale
proscioglimento per concessione del perdono giudiziale.
Ciò,
creava notevoli traumi al ragazzo, perché, specie quando la carcerazione
avveniva per la prima volta, c’era il pericolo di un’identificazione
immediata del ragazzo in una figura di deviante, mentre un reale
trattamento educativo non era sufficiente, visti i tempi brevi di
carcerazione preventiva.
La
carcerazione preventiva veniva, infine, vissuta dal ragazzo come una
sostanziale ingiustizia specie se seguiva ad essa la mancata applicazione
della pena. Il nuovo sistema ha modificato profondamente questa realtà:
la custodia in carcere diviene del tutto residuale, può essere disposta
dal giudice e non per autonoma decisione della polizia a seguito del fermo
o dell’arresto.
Il
P.M. chiede al giudice la custodia in carcere e tale misura può essere
data solo nel caso di commissione di delitti particolarmente gravi.
Una
possibilità di custodia in carcere, vi è quando vi è stata una
violazione delle prescrizioni, un allontanamento dalla comunità, o la
violazione delle altre forme di misure cautelari previste dal nuovo
codice.
Nel
vecchio ordinamento, vi era l’obbligo per la polizia di arrestare anche
il minore colto in flagranza di reato.
Nel
nuovo ordinamento, l’arresto in flagranza è possibile da parte della
polizia solo per i reati che comportino una pena superiore ai 9 anni, per
il resto la polizia ha solo il potere di accompagnare il ragazzo nella
abitazione, se il reato non è colposo e sia punito con pena superiore nel
massimo a 5 anni, ovvero, se questa manca, in una comunità pubblica o
autorizzata, informandone l’autorità minorile.
La
questione della misura dell’accompagnamento è aperta e l’istituto
appare piuttosto ambiguo.
In
particolare, sul tema delle misure cautelari occorre fare delle
precisazioni.
Anzitutto,
le misure cautelari per i minori non possono avere caratteristiche e
finalità diverse da quelle previste per tutte le misure cautelari nei
confronti degli adulti, anche se ovviamente le misure cautelari per i
minori debbono essere correlate alla particolare personalità del soggetto
in età evolutiva.
Per
cui, anche per i minori, le misure cautelari, innanzi tutto, non possono
essere assunte:
se non ci sono gravi indizi di
colpevolezza da parte del ragazzo;
se è prevedibile un’incapacità di
intendere e di volere del ragazzo, che porti ad un proscioglimento;
se è prevedibile che il fatto non
abbia una tale rilevanza sociale da giustificare un intervento penale, per
cui, come vedremo, c’è la possibilità di archiviazione per irrilevanza
sociale del fatto;
se è prevedibile una misura di
probation.
Infine,
non è accettabile, né possibile, l’applicazione di misure di questo
genere se non sussistono ragioni di cautela processuale e di difesa
sociale.
Nell’ambito
delle misure cautelari per gli adulti è detto che la misura cautelare è
possibile assumerla, ma solo quando vi sia o pericolo di fuga di colui che
è imputato, oppure se vi sia pericolo d’inquinamento probatorio, cioè
di un’attività tendente a rendere più difficile l’accertamento del
reato, sopprimendo prove o subornando testi, oppure quando vi sia il
pericolo che il soggetto imputato possa commettere reati della stessa
indole.
Quindi,
solo queste sono le ipotesi in cui è possibile per l’adulto e, a nostro
parere, anche per il minore assumere delle misure cautelari.
Per
quanto riguarda le misure cautelari, si parte da quella più blanda, la
prescrizione (art.20), che implica un obbligo per il minore di svolgere
attività di studio o di lavoro o altra attività utile alla sua
educazione.
Questa
misura, secondo alcuni, non ha senso perché l’obbligo di svolgimento di
un’attività di studio e di lavoro si può realizzare anche attraverso
altre forme d’intervento più appropriate, piuttosto che attraverso una
misura che rimane connotata come una misura penale (Moro, 1994, 55).
La
seconda misura prevista, è quella della permanenza in casa (art.21), che
comporta dei limiti alla sua libertà di movimento e il divieto di
comunicare con persone diverse da quelle con cui abita e che lo assistono.
Può
però comportare, attraverso un consenso del giudice, l’allontanamento
dalla casa per un determinato periodo di tempo, per attività di studio o
di lavoro o per altre attività utili alla sua educazione ( ad esempio,
un’attività sportiva ).
Secondo
alcuni, “in realtà, nella permanenza in casa il contenuto delle
prescrizioni rivive in modo indiretto e, siccome fondato su un principio
di consenso dell’interessato, più efficace: infatti, il giudice
consente al minore di allontanarsi dall’abitazione ove è ristretto solo
se egli accetta di svolgere attività di studio o di lavoro o altre
attività utili alla sua educazione, ove egli non svolge tali attività,
il giudice stesso non concede o revoca l’autorizzazione ad
allontanarsi” (Pazè, 1989, 20).
Va
inoltre osservato che la misura, privando il minore del necessario
contatto con i coetanei, può essere particolarmente gravosa per lo stesso
ed allora è auspicabile che si attivino i Sevizi Sociali con una
preparazione di un programma d’attività.
Il
collocamento in comunità (art.22), è anch’essa una misura cautelare
che prevede un obbligo di stare. La terza per intensità tra quelle
limitative della libertà personale.
Tale
misura, è una novità introdotta nel sistema processuale: il collocamento
in comunità era, infatti, possibile e si configurava come intervento
socio-terapeutico (per i tossicodipendenti) o educativo-assistenziale (per
i minori privi d’idonea famiglia o con problemi comportamentali), ma non
era configurabile come misura cautelare.
“Con
il provvedimento che dispone il collocamento in comunità, il giudice
ordina che il minorenne sia affidato ad una comunità pubblica o
autorizzata”.
Così
il comma 1 prima parte dell’art. 22 c.p.p.m.
Va
subito posta, la dibattuta questione sulle caratteristiche organizzative e
operative della comunità che, del resto, la normativa rende necessaria.
In particolare, gli orientamenti legislativi e quelli del dibattito
scientifico e operativo, sembrano andare nella direzione di una gestione
pluralistica (Stato, Enti Locali e privati), ma garantita sia sul piano
della funzionalità (dall’autorizzazione delle Regioni), sia su quello
giuridico e giudiziario centrato sui diritti e sugli interessi dei minori
(dalle convenzioni con l’amministrazione della giustizia e dai controlli
e dalle prescrizioni dei giudici).
Si è osservato, che il ricorso a “comunità aperte” è una
scommessa difficile, ma l’adozione di “comunità chiuse” sarebbe
un’innovazione puramente gattopardesca: piuttosto di introdurre nuove
piccole carceri, tanto vale conservare, senza ipocrisie le vecchie
(Pepino, 1992, 89).
La custodia cautelare (art.23) è l’ultima e più gravosa misura
limitativa di libertà, che contiene un obbligo di stare.
I criteri fondamentali per l’applicazione della misura sono gli
stessi per le altre misure: i gravi indizi di colpevolezza, la sussistenza
di esigenze cautelari (attinenti alle indagini, al pericolo di fuga, alla
commissione di gravi delitti); la proporzionalità, gradualità e
adeguatezza e, soprattutto per i minori, il principio della minima
offensività, nella accezione primaria di evitare per quanto possibile
sofferenze psicologiche all’imputato e che si traduce, nel caso della
custodia cautelare, nel minimo sacrificio della libertà personale che
determina la cosiddetta residualità della custodia cautelare in carcere.
A
questi criteri per la scelta della misura, si accompagna quello
fondamentale della non interruzione dei processi educativi in atto.
E’
noto, inoltre, l’appassionato dibattito che ha coinvolto e coinvolge
giudici, operatori e criminologi, sulla decarcerizzazione.
La
maggior parte degli operatori riconosce, almeno teoricamente, che tutte le
istituzioni chiuse destinate ai minori, e quindi prima fra tutte il
carcere, sono solo distruttrici delle potenzialità maturative delle
personalità adolescenziali, creando esse stesse situazioni di
emarginazione.
Soprattutto,
“ si è giustamente rilevato, che la carcerazione può essere molte
volte controproducente: perché il deviante è spesso un soggetto in
difficoltà e alla ricerca di un’identità e di un ruolo e la sua
segregazione con altri ugualmente etichettati può comportare una spinta
addizionale al delitto, pensandosi il soggetto come delinquente e
organizzando il suo comportamento in conformità; perché la segregazione
del condannato dalla società non rimuove le cause che stanno
all’origine del comportamento deviante con la conseguenza che, a pena
espiata, il nuovo impatto con la vita sociale riproduce, spesso in modo
aggravato, la situazione di conflitto preesistente” (Moro, 1989, 205).
Da
qui, la necessità e l’avvertita esigenza di ridurre e svalorizzare la
risposta meramente carceraria al reato con l’introduzione di altri
sistemi sanzionatori, che tenendo conto della personalità del minore,
elaborino concreti programmi di recupero, utilizzando proprio tali nuove
risposte sanzionatorie.
Va
detto però che “tra i giudici minorili è difficile a morire la cultura
del carcere e stenta a farsi strada, per la maggior parte dei casi, la
consapevolezza della sua inutilità, consapevolezza che può portare al
suo utilizzo veramente residuale”(Giannino, 1994, 163).
Va anche aggiunto che la politica criminale nel nostro paese è
stata, in questi anni, estremamente ambigua e contraddittoria alternando
momenti di scelte esclusivamente garantiste ed altri di esclusiva
ispirazione a principi di difesa sociale.
1.2.4
Uscita del ragazzo dal circuito penale
La terza
fase, dopo quella degli atti preliminari e delle misure cautelari, è
legata alla possibilità di arrivare ad una rapida chiusura del processo
penale senza l’irrogazione di una pena.
Gli istituti
che consentono la chiusura rapida del processo penale sono: l’istituto
dell’irrilevanza del fatto, l’incapacità di intendere e di volere,
l’applicazione del perdono giudiziale.
L’istituto
dell’irrilevanza del fatto è un istituto nuovo, adottato sulla base
della considerazione che moltissimi reati commessi dai minori sono dei
reati di poco conto, di scarso rilievo sociale, tali da non rivelare
particolari problemi del ragazzo.
Si pensi, a
tutta una serie di delitti colposi per cui si richiederebbe al ragazzo una
capacità di prudenza e di previsione delle conseguenze che è del tutto
fuori della sua mentalità, che è imprudente per natura ed è imperito
per ragioni d’età.
Oppure, a
tante contravvenzioni, o a certe euforie dei ragazzi in gruppo o a certi
micro-furti compensativi da parte del ragazzo, o ancora a certi furti
commessi più per provare la propria valenza che per brama di lucro.
Sanzionare
penalmente questi comportamenti, sarebbe non educativo come non sempre
appariva educativo il ricorso alla formula dell’incapacità
d’intendere e di volere, vissuta dal ragazzo come un’incapacità poco
accettabile perché svalorizzante la sua persona.
Il P.M.,
perciò, può richiedere sentenze di non luogo a procedere per irrilevanza
del fatto se l’ulteriore corso del procedimento penale finisse col
pregiudicare le esigenze educative.
Una seconda
formula assolutoria con cui si chiude il processo è quella
dell’incapacità di intendere e di volere con una valutazione
dell’imputabilità del ragazzo, presupposto d’ogni affermazione di
responsabilità.
Un
accertamento di tale capacità presuppone un’indagine mirata che non può
esaurirsi solo in una valutazione astratta del ragazzo, ma va accompagnata
anche da una valutazione sul trattamento più adeguato per ricostruire
questa personalità debole e fragile, per facilitare il processo
maturativo che si vuole realizzare.
E’ vero che
talvolta può non essere necessario, nell’incapacità di intendere e di
volere, un trattamento se il caso è del tutto occasionale anche se non
irrilevante.
Per lo più,
la fragilità che ha portato a un delitto di una certa consistenza è
rivelatrice di profondi squilibri, quindi è opportuno che si valuti
adeguatamente questa personalità.
Una relazione
di questo tipo, può essere svolta dal Servizio Sociale Territoriale, che
ha in carico il ragazzo e quindi sta già svolgendo un suo preciso
programma educativo.
Se
questo, invece, non ha una conoscenza precisa del ragazzo, dal Servizio
Sociale Ministeriale, che dovrebbe essere particolarmente competente nello
svolgere valutazioni di questo genere e nella predisposizione di un
programma di recupero.
La
terza formula d’uscita dal sistema penale è quella dell’applicazione
del perdono giudiziale, una formula che è rimasta nel nuovo codice e che,
per alcuni dovrebbe essere utilizzata in maniera meno massiccia di com’è
stata utilizzata in passato (Moro, 1994, 60).
Possiamo
sostenere che, la formula dell’irrilevanza del fatto garantisce più
rapidamente ed ampliamente la fuoriuscita dal sistema penale del ragazzo
che non deve essere trattato specificamente sul piano penale.
Anche a
seguito della fuoriuscita del ragazzo attraverso il perdono giudiziale, o
tramite la dichiarazione di immaturità del soggetto, può nascere il
problema del sostegno al ragazzo, sia attraverso eventuali misure civili,
sia attraverso misure di tipo rieducativo nell’ambito della competenza
specifica.
In un
caso come nell’altro, l’intervento deve essere svolto esclusivamente
dai Servizi dell’Ente Locale i quali si devono attrezzare, com’è già
stato detto, anche per il trattamento delle situazioni di difficoltà
degli adolescenti e preadolescenti.
La sospensione del procedimento e la
messa alla prova
E’ in
attuazione anche in Italia un istituto, il Probation, che è stato
fortemente utilizzato in altri contesti sociali, specie nel mondo
anglosassone e che esige una serie di specificazioni.
In primo
luogo, bisogna riaffermare fortemente che il Probation, vale a dire la
sospensione del processo e la messa alla prova, è una misura penale, vale
a dire non è una misura clementizia, una misura di trattamento civile o
amministrativo, è una vera e propria misura penale, anche se non comporta
una detenzione ma una serie di prescrizioni di condotta per agevolare con
misure di sostegno, di protezione, di controllo, il recupero della
devianza.
La
spinta verso una collaborazione, anche da parte del soggetto, a questo
processo di recupero è data dal fatto che, se dopo la messa alla prova
l’esito sarà positivo, il giudice pronuncerà una sentenza
d’estinzione del reato, vale a dire una sentenza che cancella il fatto
come penalmente rilevante.
Se,
invece, la misura della messa alla prova non avrà un tal esito, c’è
per il giudice la necessità di applicare una sanzione.
Ma,
quali sono i presupposti per cui si può arrivare alla sospensione del
procedimento e messa alla prova?
E’
innanzitutto necessaria la certezza della commissione del fatto
costituente reato da parte dell’imputato.
Proprio
perché si tratta di una misura penale, è necessaria un’accettazione di
questa misura da parte dell’imputato; infatti, la sospensione non può
essere data se l’imputato chiede il giudizio abbreviato (cioè la
definizione del procedimento nell’udienza preliminare con esito o di
assoluzione o di condanna a una pena ridotta nel terzo), ovvero il
giudizio immediato, cioè quello che si compie saltando l’udienza
preliminare ed entro pochi giorni dalla notizia del fatto.
Con
l’istituto del probation, il giudice presuppone che la messa alla prova
possa essere utilmente adoperata per realizzare un processo di recupero,
sviluppando potenzialità positive nel ragazzo.
E’ da
rilevare come nessun limite è posto dall’ordinamento all’adozione
della sospensione, perciò ogni tipologia di reato può portare
all’applicazione della sospensione, compreso il reato d’omicidio o i
reati di maggiore gravità.
Varia
soltanto, a seconda della tipologia di reati, la durata della messa alla
prova che supera i due anni per i reati più gravi, ma è di circa un anno
negli altri casi.
Quali
sono le modalità d’applicazione del Probation?
La
sospensione del procedimento, può essere decisa soltanto dal giudice
dell’udienza preliminare, cioè dal collegio e comporta anche la
sospensione dei termini di prescrizione.
La
decisione di sospensione e di messa alla prova, si basa su un progetto
d’intervento elaborato dai Servizi minorili dell’amministrazione della
giustizia, ovviamente in collaborazione con i Servizi Sociali
Territoriali.
Il
progetto d’intervento, deve prendere in considerazione le modalità di
coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare, del suo ordinario
ambiente di vita.
Deve
prendere in considerazione gli impegni specifici che il minore deve
assumere, le modalità di partecipazione degli operatori della giustizia
nonché degli operatori degli Enti Locali, le modalità di attuazione,
come dice il codice, eventualmente dirette a riparare le conseguenze del
reato e a promuovere la riconciliazione del minorenne con la persona
offesa.
Il
Servizio della Giustizia Minorile, che vigila sullo svolgimento del
programma di recupero, deve informare periodicamente il giudice
dell’attività svolta e dell’evoluzione del caso, in modo che nel
corso del trattamento possano essere apportate nuove modifiche più
restrittive o più liberali all’originario programma.
Non
ogni trasgressione delle prescrizioni comporta automaticamente la revoca
della sospensione, ma quest’ultima può essere adottata, come dice il
codice, dopo ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte.
E
poiché la legge, al contrario di quanto è detto per la sospensione
condizionale della pena, non impone la revoca in caso di commissione di
nuovo reato, deve ritenersi che neppure la commissione di un nuovo reato,
deve portare necessariamente alla revoca.
L’ordinamento,
considera che il ragazzo in un momento di crisi possa avere delle ricadute
e che la crisi vada superata anche avendo capacità di tollerare, di
aspettare che si restaurino dei momenti maturativi diluiti nel tempo.
Per
la messa alla prova, non è prevista una proroga della sospensione, per
cui dall’esito del periodo di sospensione, che varia da uno a tre anni,
il giudice deve decidere se dichiarare l’estinzione del reato o
procedere all’erogazione di una pena.
Possiamo
sicuramente affermare che l’adozione di quest’istituto non può essere
generalizzato, ma va utilizzato solo per i casi più difficili, per quelli
cioè per cui altri tipi di trattamento, non sarebbero concretamente
praticabili.
Non
può essere, pertanto, una misura a pioggia irrogata per una pluralità di
ragazzi, anche perché moltiplicare i casi significherebbe in concreto non
trattare adeguatamente nessuno.
Per quanto concerne, invece, il progetto educativo, esso deve
essere realistico, basato
sulle possibilità concrete d’attuazione: deve chiedere al ragazzo delle
cose che il ragazzo può dare.
Non può essere delineato sulla base di uno stereotipo astratto di
ragazzo che è molto diverso dal ragazzo concreto, fragile, incapace di
avere un determinato rapporto col suo ambiente sociale, deve cioè essere
fortemente radicato sulle caratteristiche peculiari di quel ragazzo (Moro,
1994, 63).
Chi
deve seguire la messa alla prova? Il codice si riferisce ai Servizi del
Ministero della Giustizia, che nelle norme di attuazione sono però
identificati negli Uffici di Servizio Sociale per minorenni, negli
Istituti Penali minorenni, nei Centri di Prima Accoglienza, nelle Comunità,
negli Istituti di semilibertà.
E’ espressamente indicato che la messa alla prova debba essere
seguita dal Servizio Sociale Ministeriale senza prevedere, invece, la
costituzione di un apposito Ufficio di Probation, con il compito di
diversificare le figure professionali e l’incidenza dell’intervento.
Tuttavia, negli ultimi anni, la politica dell’Ufficio Centrale
Giustizia Minorile ha considerato come centrale anche il ruolo
dell’educatore, specialista del trattamento, che in alcuni Centri di
Prima Accoglienza, ma anche in integrazione con il Servizio Sociale svolge
funzione di Probation.
Naturalmente, per una misura come questa, sono necessarie verifiche
ed incontri periodici con il ragazzo, al fine di valutare i progressi, le
difficoltà che incontra, le positività che può attivare.
Tutto questo, non si potrà fare se avremo un diluvio di casi
seguiti dalla stessa persona (Moro, 1994, 65).
1.2.6
L’irrogazione della sanzione
Se non c’è
una rapida uscita dal sistema penale, se non vi è sospensione del
procedimento, si arriva al processo con l’irrogazione di una sanzione.
Anche in
questo caso, però, è raro, nell’ambito del nuovo processo penale
minorile, che la sanzione irrogata debba essere di tipo carcerario.
Innanzitutto,
com’era anche per il vecchio ordinamento, non sempre la condanna deve
essere eseguita.
C’è
difatti, l’istituto della sospensione condizionale della pena, per tutte
le condanne che non superano in concreto i tre anni di reclusione.
La
sospensione condizionale, porta ad una sospensione della pena: essa dovrà
essere scontata solo se il condannato, poi, commetterà un altro reato,
con l’irrogazione di una pena che, se sommata alla precedente, comporta
una condanna complessiva superiore a tre anni.
La sanzione
penale, si diceva, può non essere di tipo carcerario, perché nel nuovo
ordinamento, come in quello precedente ma in misura più ampia che nel
passato, sono previste le cosiddette sanzioni sostitutive: la
semidetenzione o la libertà controllata.
La
semidetenzione, consiste nell’obbligo del ragazzo di trascorrere dieci
ore al giorno negli istituti situati nel Comune di residenza o vicini, con
ulteriore obbligo di non detenere armi, di presentarsi ad ogni richiesta.
La libertà
controllata consiste, invece, in un divieto di allontanarsi e
nell’adeguamento ad alcune prescrizioni che il giudice ordina, affidando
il controllo delle prescrizioni e lo svolgimento di queste attività al
Servizio Sociale.
Appare
importante precisare che, nei confronti di queste misure, nasce la
necessità di una collaborazione tra il Servizio Ministeriale, impegnato
in prima persona nella loro attuazione, e i Servizi Territoriali che
devono predisporre tutte quelle attività di sostegno al ragazzo e al suo
ambiente familiare, indispensabili per realizzare il recupero e per
consentire un inserimento più utile nella vita sociale.
1.2.7
Le misure di sicurezza e quelle alternative
Un ultimo
punto, riguarda la nuova disciplina delle misure di sicurezza i cui
provvedimenti sono conseguenti:
ad atti obiettivamente costituenti
reato;
alla pericolosità sociale del minore,
sulla base della valutazione della sua personalità nell’impossibilità
di applicazione di una sanzione penale per incapacità del soggetto.
Per i minori,
la misura di sicurezza può anche essere aggiuntiva alla pena quando ci si
trovi di fronte ad una situazione di pericolosità.
Prima del
vecchio ordinamento, la pericolosità era, nei casi di reati più gravi,
presunta per legge; oggi, la pericolosità deve essere, dopo la riforma
del 1986, sempre concretamente valutata dal giudice.
Si può dire,
che anche un certo dibattito dottrinale contestava che il soggetto in età
evolutiva potesse essere ritenuto socialmente pericoloso.
Il nuovo
codice, ha riconosciuto l’esistenza e la possibilità d’applicazione
della misura di sicurezza, ma sostituisce alla vecchia misura
dell’internamento nel riformatorio quella dell’inserimento del minore
in una comunità educativa, solo se i reati hanno una rilevante gravità
oggettiva.
Negli altri
casi, la misura di sicurezza è quella della libertà vigilata.
Secondo alcuni, una formulazione di questo genere dà origine ad
una certa confusione, perché se il soggetto ha commesso dei reati gravi e
si presume che sia particolarmente pericoloso e quindi capace
tendenzialmente di commettere reati di identica gravità, la sua
collocazione in una comunità educativa tradizionale, gestita dall’Ente
Locale o da gruppi di volontari e per lo più aperta, non risolverà il
problema del minore pericoloso.
Oltretutto,
se un soggetto, ritenuto socialmente pericoloso, è inserito in un
ambiente in cui si trattano ragazzi spesso fragili e deboli, sarebbe
necessario valutare se un simile inserimento non possa avere un effetto
dirompente, anche per la presenza di un eroe negativo che non può che
avere ripercussioni rilevanti sullo svolgimento del processo educativo
degli altri (Moro, 1994, 68).
Conseguentemente,
sarebbe stato più giusto abolire la misura di sicurezza, piuttosto che
adottarne una di questo tipo.
Si
tratta di costruire delle comunità ad hoc per i ragazzi ritenuti
socialmente pericolosi e che sono stati raggiunti da misure di sicurezza.
Le
misure alternative alla detenzione, evitano al ragazzo, anche se si arriva
ad una condanna di tipo carcerario,che questa debba essere scontata in
carcere.
Sappiamo
che durante l’esecuzione della pena è possibile la detenzione
domiciliare, quando per il minore d’anni ventuno vi siano comprovate
esigenze di salute, di studio, di lavoro o di famiglia ed è il giudice di
sorveglianza che fissa le modalità di tale detenzione.
E
poi possibile, sempre secondo le caratteristiche di durata della pena
inflitta, fruire dell’affidamento in prova al servizio sociale, con una
serie di prescrizioni che il soggetto dovrà seguire.
Inoltre è possibile che l’esecuzione della pena avvenga
attraverso l’istituto della semilibertà, vale a dire il regime in cui
il minore trascorre alcune ore in istituto, mentre svolge la sua attività
normale durante le ore diurne.
1.3. Cultura giuridica e attuali
tendenze legislative in Italia per la prevenzione
della devianza minorile
Ripercorriamo ora, le
fasi principali dell’evoluzione del sistema della giustizia minorile,
con particolare, con esclusivo riferimento alla situazione italiana.
Una prima fase,
limitandoci al nostro secolo, arriva fino alla fine degli anni Cinquanta
(quando hanno iniziato ad essere aperte le case di rieducazione) ed è
caratterizzata dall’assoluta prevalenza di risposte istituzionali.
Indipendentemente
dall’etichetta che caratterizzava questa istituzionalizzazione, si
trattava comunque sempre dell’inserimento in un’istituzione con
funzioni di contenimento e controllo.
Negli anni Cinquanta e in
parte negli anni Sessanta, abbiamo avuto un periodo caratterizzato invece
dalla crescente fiducia in un’ideologia di tipo assistenziale,
terapeutico; si credeva cioè che la risposta da dare alla devianza
giovanile fosse l’erogazione dell’assistenza, di un trattamento di
tipo rieducativo, terapeutico, sia in contesti istituzionali, sia
tendenzialmente fuori dalle istituzioni.
Possiamo rilevare
che vi sia stato un fallimento di questo tipo di ideologia, che, fra
l’altro, evidenziava anche un’inadeguatezza dei modelli
d’interpretazione del disadattamento e della devianza.
Questi interventi,
hanno avuto una funzione opposta a quella rieducativa, funzionando come
primo filtro istituzionale, selettivo e discriminante, in termini di
classe sociale e di marginalità, dei processi di criminalizzazione della
diversità (De Leo, 1978; 1990).
Successivamente,
è iniziata una fase molto più complessa ed articolata, come già
accennato nel primo paragrafo, che ha coinciso con la legge delega 22
luglio 1975, n.382 e con il relativo decreto d’attuazione n. 616/77.
L’importanza
di questa legge risiede nel fatto che sancisce il passaggio delle
competenze rieducative agli enti locali.
Ciò, ha
aperto possibilità di produrre servizi ed istituzioni più elastici e
modificabili, con un contenuto minore di segregazione e isolamento.
Dopo il 1978,
è iniziata una crisi (che dura tutt’ora) evolutiva e di cambiamento,
all’interno della quale la risposta alla delinquenza giovanile non è più
strettamente di istituzionalizzazione, nè di fiducia nell’assistenza,
nella rieducazione o nella terapia.
Questa crisi,
ha stimolato il dibattito che ha avvicinato il nostro Paese a ciò che
stava avvenendo in altre parti d’Europa, ha fatto emergere esigenze di
chiarificazione, soprattutto relativamente alla concezione della pena, che
non poteva più essere fatta coincidere con l’istituzionalizzazione.
Si è
avvertita, quindi, l’esigenza di rompere questo schema rigido tra pena e
istituto chiuso, cominciando a pensare e a introdurre misure sostitutive e
alternative alla detenzione (Palomba, 1991, pagg. 110-113).
La fase
attuale, si ispira alla concezione del minimo intervento penale.
Questa
teoria, consiste nel cercare di ridurre al minimo possibile l’intervento
penale, con l’obiettivo di ridurre la permanenza del soggetto nei
servizi detentivi e soprattutto di fare in modo che questa permanenza sia
sempre accompagnata dall’attenzione alla sua personalità e alla sua
fase evolutiva.
Da un
punto di vista macrotrattamentale, oggi la pena non ha più una funzione
afflittiva, la punizione non deve rieducare, ma deve consentire, in linea
con i principi criminologici dell’interazionismo simbolico e del
controllo sociale, un chiaro, non distruttivo e non manipolante confronto
fra l’individuo e la propria azione deviante, fra il soggetto e le norme
della propria cultura e della società (Poletti, 1988, pagg. 43-52; De
Leo, 1990).
La
pena, acquista una funzione di attivazione della responsabilità del
soggetto e delle risposte di responsabilizzazione da parte della giustizia
minorile e dei servizi; la pena non contiene obiettivi in sè
trattamentali e assistenziali, ma garantisce la continuità
dell’assistenza e del trattamento nel periodo in cui il soggetto rimane
nel sistema della giustizia.
In
questa prospettiva, naturalmente, il trattamento non è punizione, nè
assistenza, nè terapia, ma è un modo di organizzare risposte e risorse
complesse con l’obiettivo della responsabilizzazione giudiziaria nel
periodo ben delimitato del processo e della sanzione.
L’obiettivo,
non è quello di correggere il soggetto, di cambiare la sua personalità,
ma di fare in modo che egli possa partecipare, elaborare, utilizzare
quelle proposte di attività, quelle risorse, nella prospettiva di
attivare qualche cambiamento nell’interazione con l’istituzione e in
un secondo momento, forse anche della sua personalità.
La
tendenza attuale, sul piano della prevenzione e legislativo, sembra
configurarsi sempre più come una “restituzione al sociale” del
problema della devianza, della delinquenza minorile, soprattutto nel
meridione d’Italia, in quanto è proprio il contesto ambientale che
contiene quelle risorse, quegli spazi relazionali di cui il minorenne ha
bisogno per definire il proprio percorso.
Il
tentativo, è quello di riattivare quel contesto spesso irrigidito, di
sollecitare e stimolare quelle risorse e quegli spazi in modo da
individuare nella famiglia, nella scuola, nel quartiere nuove strategie di
contatto significativo con il minore (Patrizi, 1990; De Leo, 1990).
Verso una cultura della mediazione
Le scelte più
recenti di politica penale contemplano, a vari livelli e con intensità
diverse, il modello della c.d. restorative justice, identificata come la
terza via, la via nuova, rispetto ai tradizionali percorsi sviluppati
dalla giustizia retributiva e dalla giustizia rieducativa (Bouchard, 1992,
770; Scivoletto, 1999, 23).
L’idea di
una giustizia riparatrice, nasce e si sviluppa infatti per effetto della
insoddisfazione verso i precedenti modelli ed in concomitanza con la
nascente riconsiderazione della vittima, concentrandosi sulle sue ragioni
e bisogni: “il paradigma riparativo fa propria l’esigenza di sopperire
ai difetti del modello retributivo, basato unicamente sulla sanzione come
risposta statale al fenomeno della criminalità, e di quello
riabilitativo, che spesso confonde le reali esigenze della prevenzione con
quelle della repressione e dimostratosi inefficace” (Ciappi, Coluccia,
1997, 105; Scivoletto, 1999, 24).
In tale
modello, l’autore e la vittima del reato divengono attivi protagonisti
di una risoluzione del conflitto che il reato ha originato e
rappresentato. L’interesse dello Stato, la pretesa punitiva, passa in
secondo piano, essendo il sistema finalizzato ad individuare una soluzione
che possa “ristorare” (materialmente, ma non solo) la vittima e
responsabilizzare costruttivamente ed attivamente l’autore. In logica
conseguenza, la fisionomia classica e quella riabilitativa della pena
scompaiono per lasciare il posto ad un “accordo tra le parti”.
In
questa “ottica di riappropriazione del conflitto” si colloca la
mediazione, che è appunto uno dei linguaggi, o delle tecniche della
giustizia riparativa.
La
mediazione è invece “l’attività che un terzo neutrale svolge nei
confronti di due o più persone in conflitto; attività che ha lo scopo di
riallacciare i fili di una comunicazione interrotta”; e che “offre uno
spazio di ascolto e di parola a chi lo desidera, perciò caratterizzata da
neutralità, libera adesione e confidenzialità”(Bouchard, 1992, 770).
La
mediazione, ha come obiettivo principale la riconciliazione e non persegue
necessariamente l’obiettivo del risarcimento del danno, di conseguenza,
non necessariamente deve collocarsi all’interno della vicenda
processuale.
Infatti,
la mediazione può essere giudiziaria, cioè aver preso avvio dalla
commissione di un reato e dal procedimento che in conseguenza sia stato
aperto, oppure extragiudiziale, o sociale, quando sia nata da conflitti
interpersonali che, pur profondi e radicati, non abbiano dato origine a
condotte penalmente rilevanti ed alla commissione di reati.
In
questo nostro lavoro, la mediazione penale, “si caratterizza per essere
originata, come il conflitto che tende a gestire, dalla commissione di un
reato, per rendere possibile che due conflitti vengano affiancati” (Scivoletto,
1999, 26).
L’avvio
di forme alternative di gestione del conflitto interpersonale avviene
negli Stati Uniti, a partire dalla fine degli anni settanta, e da lì si
diffonde in Europa, per giungere solo da pochissimi anni in Italia.
L’esperienza
statunitense nasce con l’obiettivo di favorire un avvicinamento fra
parte offesa e autore del reato, limitatamente ai casi di crimini non
violenti.
Il
modello più articolato è, a tutt’oggi il cosiddetto VORP (Victim-Offender
Reconciliation Program) che, nato in Ontario alla metà degli anni
settanta, s’è trasferito negli USA nel 1978, quando nell’Indiana del
Nord, a Elkhart, fu costituito un primo vero staff, denominato PACT (Prisoner
and Community Toghether) (Umbreit, 1990, 337; Scivoletto, 1999, 26).
Alla
base dei programmi di riconciliazione vittima/aggressore, allo stato
nascente, stavano forti connotazioni religiose, di riconciliazione con il
divino.
Il
VORP deve essere utilizzato come un modo alternativo di risoluzione del
conflitto, diretto a rafforzare la responsabilità dell’autore, a
provvedere assistenza alla vittima, nonchè ad evitare ad alcuni autori già
condannati il prezzo dell’incarcerazione.
L’obiettivo
principale è e deve restare quello della riconciliazione, nonostante ad
esso si possano affiancare e subordinare anche altre esigenze e finalità,
come la restituzione o il risarcimento del danno (Zehr, 1983; Scivoletto,
1999, 27).
Volgendo
l’attenzione all’indirizzo europeo, le “Regole minime per
l’amministrazione della giustizia minorile” (1985) prevedono che “al
fine di facilitare la soluzione discrezionale dei casi di giovani che
delinquono, saranno compiuti sforzi per assicurare la restituzione dei
beni e il risarcimento delle vittime” (capo 11.4).
La
Gran Bretagna, con una legge del 1988, potenzia l’ambito applicativo del
precedente Criminal Justice Act del 1982, ed autorizza le attività
riparatrici ed il risarcimento del danno con fisionomie giuridiche
differenziate: come sanzione autonoma, come sanzione aggiuntiva o
sostitutiva di quella irrogata, come metodologia applicativa della
probation.
In
Italia, il processo penale minorile è stato individuato come luogo idoneo
ad avviare percorsi risarcitori nella prospettiva della riconciliazione.
La
dottrina prevalente ha rintracciato nel rito penale minorile la possibilità
di tre tipologie d’intervento, collocate sia all’interno del
procedimento, che nella fase della sua sospensione per effetto
dell’ordinanza ex art.28 DPR 448/88 (messa alla prova), che può infatti
contenere “prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a
promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal
reato” (art.28,c.II).
Altro
spazio apribile alla riconciliazione e riparazione è stato individuato
nella formula del perdono giudiziale (art.169 c.p.), ottenendo il
vantaggio educativo del perdono, condizionato alla prestazione di idonei
atteggiamenti riparativo/riconciliativi da parte del minore.
Ancora,
la mediazione è ritenuta inseribile nello schema giuridico dell’art.
564 c.p.p., specie in situazioni di lieve entità, per risolvere conflitti
intrafamiliari e arrivare al ritiro della denuncia (Scivoletto, 1999, 31).
I
due fronti di maggiore interesse sono dunque, da un lato, la messa alla
prova, all’interno della quale è possibile introdurre la
riconciliazione, sia con la formula indiretta, attraverso la prestazione
di lavoro socialmente utile e di attività di volontariato sociale, che
con la formula diretta, attraverso un risarcimento materiale del danno
patrimoniale o la presentazione di scuse formali.
Dall’altro
lato, la mediazione vera e propria sarebbe da avviarsi parallelamente al
processo, in seguito all’apertura di un fascicolo giudiziario.
In
merito all’applicazione di questo modello, occorre riferirsi alle
esperienze ancora sperimentali che sono attivate presso alcuni Tribunali
per i minorenni italiani, coordinate dall’apposito Ufficio per la
mediazione con sede a Torino.
Anche
a Napoli, presso L’Ufficio di Servizio Sociale per i minorenni è attivo
un Gruppo Sperimentale di Riconciliazione che, nella fase attuale è
impegnato ad aprirsi in un lavoro di coordinamento con le figure
istituzionali del territorio.
Le nuove prospettive con la legge
n.285/1997: un modello di prevenzione della devianza minorile
Appare chiaro
come le attuali tendenze legislative/preventive della devianza minorile
tendono alla rapida restituzione del minore al territorio
d’appartenenza, alla famiglia, alla scuola.
La legge del
28 agosto 1997, n.285: “Disposizioni per la promozione di diritti e di
opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, non ha il compito
tradizionale di sanzionare comportamenti scorretti o abusanti nei
confronti dei soggetti più deboli della nostra società, quanto piuttosto
quello di sviluppare, attraverso interventi innovativi, condizioni che
consentano di promuovere positivamente i diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza e di assicurare ai cittadini di minore età ed
adolescenti, quelle opportunità indispensabili per un adeguato processo
di sviluppo umano che porti alla costruzione di personalità compiute.
Questa legge,
che dà l’avvio a un ripensamento complessivo delle politiche sociali,
conferma come interlocutori privilegiati e preziosi le organizzazioni
sociali, le realtà dell’associazionismo e della cooperazione.
Inoltre,
favorisce in vario modo attività ed attenzioni educative.
Del
resto, è la crescita che richiede educatori ed i percorsi educativi
richiedono la presenza e la competenza di persone capaci di promuovere e
sostenere “l’avventura del diventare grandi”.
Nella
legge, il criterio di riparto delle risorse economiche è orientato ad
investire di più laddove sono maggiormente presenti bambini e bambine e
laddove sono più evidenti condizioni di disagio e di arretratezza dei
servizi a loro destinati.
Per
questo, molte risorse sono state destinate alle grandi realtà
metropolitane e, in misura maggiore nelle regioni meridionali.
Le
Regioni, concorrono all’applicazione della legge in misura determinante,
garantendo la programmazione di settore, armonizzando la distribuzione
delle risorse attraverso la determinazione degli Ambiti Territoriali e la
costituzione di Fondi Regionali per l’Infanzia e l’Adolescenza
attraverso proprie delibere di consiglio (Centro di documentazione ed
analisi sull’infanzia e l’adolescenza, 1998, pagg.13-18).
La
legge n. 285, favorisce la ripresa della sperimentazione nei modelli
organizzativi dei servizi oltre al consolidamento ed al rilancio dei
servizi di grande importanza.
Per questi motivi, la sua applicazione contribuisce ad individuare
una soglia quali-quantitativa minima di interventi nei casi di disagio
(assistenza economica e domiciliare, affido familiare, accoglienza in
strutture di tipo familiare, tempo libero, associazionismo, centri
aggregativi e educativi per adolescenti, centri di ascolto per famiglie ed
adolescenti).
In altri termini, come nel caso della devianza minorile e nei
contesti a rischio, favorire, attraverso un lavoro integrato di rete, la
partecipazione, l’elaborazione, l’utilizzazione, il sostegno
attraverso progetti, attività e risorse al minore che in qualsiasi modo
sia incappato nelle maglie della giustizia o sia fortemente a rischio.
Anche nella recente Legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali, n.328 dell’8 novembre 2000,
vengono ben identificati i molteplici soggetti che provvedono
all’offerta dei servizi: soggetti pubblici, associazioni di
volontariato, fondazioni, cooperative sociali, enti di patronato, tutti
soggetti attivi nella progettazione e realizzazione di interventi.
In particolare, la redazione di un piano di interventi rappresenta
il momento della verifica dell’identità e del ruolo del soggetto che
interagisce, contro il rischio di una soggettività statica, sia di
confusione di ruoli e assenza della cultura del collegamento.
Per quanto riguarda l’itinerario di costruzione di un piano di
intervento, sono privilegiati due momenti: le organizzazioni territoriali
e locali propongono propri interventi per la loro integrazione, oppure chi
assume l’iniziativa produce un piano che viene diffuso (Gigante, 2000,
pp.88-95).
In definitiva, la legge n.285/97 ha la peculiarità di destinare
finanziamenti finalizzati ad attività di prevenzione e di intervento
verso l’infanzia e l’adolescenza, con l’attivazione di servizi
mirati.
In tal senso, mentre le leggi precedenti miravano alla prevenzione
del disagio, in presenza di difficoltà e di disadattamento già
verificatisi, con la 285/97, si supera la concezione di tutela dei minori
esclusivamente legata alle emergenze che in Italia si sono manifestate
(tossicodipendenza, AIDS, microcriminalità giovanile...).
Infine, secondo Gigante “i principi ispiratori della legge
n.285/97 quando pongono l’attenzione nei confronti del minore come
persona, con le sue difficoltà ma anche con le sue potenzialità e
soprattutto con tutti i suoi diritti di cittadinanza, la correlano al
setting costruttore dell’intervento sociale. Tali diritti non si
limitano, come nel passato, a determinare i doveri degli adulti nei
confronti dei minori, ma cercano di definire con i bisogni che sono propri
del soggetto debole, le connessioni di rete che possono soddisfarli”
(Gigante, 2000, 95).
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