inserito in Diritto&Diritti nel luglio 2003

Il principio di parità di trattamento alla luce della direttiva n.2002/73

di Laura Nibi

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Le politiche in favore della non discriminazione hanno subito un’evoluzione positiva nel corso degli anni grazie soprattutto all’impulso positivo impresso dalla Comunità Europea in favore dell’ affermazione del principio di parità di trattamento e pari opportunità in tutti i Paesi membri.

Nel 1957 il Trattato istitutivo della Comunità Europea aveva introdotto esclusivamente il principio di parità retributiva, mentre oggi, grazie al Protocollo sulla politica sociale del Trattato di Maastricht[1] e al Trattato di Amsterdam[2] che lo ha incorporato, tra i compiti e le azioni della Comunità si è introdotta in maniera esplicita la parità delle opportunità tra uomini e donne.

Nel testo novellato del Trattato si afferma, infatti, che la Comunità ha il compito di “eliminare le ineguaglianze, nonché di promuovere la parità tra uomini e donne”(art. 3, par.2).

L’art. 13 consente poi al Consiglio, deliberando all’unanimità, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento Europeo, di prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso e sull’orientamento sessuale.[3]

L’attuale formulazione dell’art.141 del Trattato CE, infine, offre una base giuridica specifica all’uguaglianza di trattamento fra uomini e donne, riconoscendo come lecite eventuali discriminazioni positive dirette a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato, ovvero ad evitare svantaggi nelle carriere professionali.

La nozione di eguaglianza, dunque limitata in origine alla sola questione economica, si è progressivamente estesa per abbracciare altri aspetti non meno rilevanti quali quello dell’accesso, della formazione e promozione professionale e delle condizioni di lavoro.

Proprio a questo proposito, va sottolineato che il Consiglio Europeo ha approvato di recente la  direttiva n. 2002/73 che modifica la direttiva 76/207  relativa all’introduzione del principio di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

Ad un primo esame della direttiva emerge un dato particolarmente indicativo: il passaggio dal divieto di discriminazione al principio di parità di trattamento, da una visione in termini negativi, ad una affermazione in termini positivi di un diritto che oggi trova la sua fonte ed ispirazione nell’elaborazione normativa e giurisprudenziale. Il principio di pari opportunità, affermato già nel Trattato di Amsterdam[4] e nella Carta dei diritti approvata a Nizza[5], trova infatti nella direttiva un riconoscimento ancora più esplicito[6].

 La nuova direttiva, pur riducendo il numero degli articoli che la compongono,  (da undici a quattro), ne arricchisce la portata; l’esposizione dei 4 articoli, infatti, è preceduta  da 24 “considerando” che, ripercorrendo i precedenti interventi internazionali, comunitari e le recenti pronunzie giurisprudenziali, motivano la necessità di modificare la precedente direttiva.

La nuova direttiva in parte sostituisce la precedente, in parte prevede dei paragrafi che vanno aggiunti a quelli già elaborati nel 1976, come ad esempio l’art.1, par.1 che contiene una sorta di invito a tutti gli Stati membri a porre come obiettivo principale nel formulare leggi, regolamenti e atti amministrativi, politiche ed attività, il principio della parità tra gli uomini e le donne. In questo modo il legislatore comunitario  vuole ribadire l’impegno, già contenuto nell’art  2 e nell’art 3, paragrafo 2, del Trattato Ce, di promuovere la parità fra uomini e donne quale compito e obiettivo della Comunità.

Le definizioni contenute nell’art.2 di discriminazione diretta, indiretta, molestie e molestie sessuali, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale che si è succeduta nel corso degli anni, riprendono le definizioni contenute nelle recenti  direttive 2000/43 e 2000/78 CE[7].

A questo proposito, la discriminazione indiretta viene definita in maniera compiuta rispetto alla direttiva del 1976 come una “situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell’altro sesso”.

La valutazione dei fatti sulla base dei quali si potrà dedurre che ci sia stata una discriminazione diretta o indiretta sarà sempre una questione di competenza dell’organo giurisdizionale nazionale o di altro organo competente secondo le norme di diritto e la prassi nazionale, ma tali norme potranno anche prevedere che la discriminazione indiretta sia accertata con qualsiasi mezzo, compresa l’evidenza statistica.

A questo proposito va sottolineato che, l’oggettiva difficoltà, specie nel caso di discriminazioni indirette, di provare in giudizio la sussistenza di un comportamento discriminatorio, ha indotto il legislatore comunitario, con la direttiva n.97/80, a modificare la consueta articolazione dei carichi probatori tra attore e convenuto, alleggerendo la posizione processuale del ricorrente a scapito di quella del datore di lavoro.[8]

In deroga dunque ai principi generali che regolano l’onere della prova, alla parte attrice è sufficiente dedurre in giudizio degli “elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta”. Fornite tali indicazioni, spetta alla parte convenuta “provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento”.[9]

L’art 2 della direttiva contiene inoltre la definizione di molestia e molestia sessuale e considera come discriminazione anche l’ordine di discriminare una persona a motivo del sesso.

Il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro è stato considerato solo di recente dalle istituzioni comunitarie: solo alla fine del 1991 infatti, la Commissione è intervenuta in materia con la Raccomandazione n.92/131, del 27 novembre 1991, cui è allegato un Codice di Condotta sui provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali.

La definizione di  molestie contenuta nel Codice di Condotta[10]  è stata ripresa sostanzialmente nella direttiva 2002/73 proprio con la precisazione che le molestie rientrano a pieno titolo nella nozione di discriminazione[11].

Nel contempo la direttiva riconosce agli Stati membri la legittimità delle differenze di trattamento che abbiano la loro origine “ su una caratteristica specifica di un sesso”, solo quando questa caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè l’obiettivo sia legittimo ed il requisito proporzionato.[12]

Questo costituisce uno degli elementi di novità della direttiva: si pone infatti l’attenzione sulla legittimità dell’obiettivo e sulla proporzionalità del requisito il quale, oltre ad essere essenziale e determinante, deve esser proporzionato, ed in ogni caso l’obiettivo deve essere legittimo.

Una particolare attenzione è inoltre dedicata all’attuazione del principio di parità di trattamento con riguardo alla protezione della donna, in particolare durante lo stato di gravidanza e maternità.[13]

La Corte di Giustizia infatti ha riconosciuto la legittimità, per quanto riguarda il principio di parità di trattamento, della protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la maternità ed in questo senso ha sempre qualificato come discriminazione diretta qualsiasi trattamento sfavorevole che fosse legato alla gravidanza o alla maternità stessa.[14]

L          e disposizioni della direttiva ribadiscono il diritto proprio di ciascuna donna al ritorno dal congedo di maternità, di mantenere il proprio lavoro o un posto di lavoro equivalente,[15] nonché di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettate durante al sua assenza.[16]

Il principio delle pari opportunità, che aveva fatto il suo timido ingresso nella direttiva del 1976,[17] viene qui riformulato tenendo in considerazione le nuove disposizioni introdotte dal trattato di Amsterdam e, in particolare, l’art 141, paragrafo 4 che, come accennato, attribuisce la facoltà agli Stati membri di mantenere o adottare misure che prevedono vantaggi specifici volti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato oppure a evitare o compensare svantaggi nelle carriere.

Un’altra novità da sottolineare è rappresentata dall’estensione sia al settore pubblico che privato del principio di parità di trattamento contenuta ora nel riscritto art.3.

Il divieto di non discriminazione diretta ed indiretta si applica nei settori pubblici o privati, compresi gli enti di diritto pubblico e il suo ambito di applicazione si estende a tutto ciò che attiene alle condizioni di accesso al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; alle condizioni di accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionali, perfezionamento e riqualificazione; all’occupazione ed alle condizioni di lavoro, comprese quelle di licenziamento e di retribuzioni.

L’opera innovatrice della direttiva si è imposta anche nell’art. 7 che ha disposto la tutela contro le eventuali reazioni dei datori di lavoro, a seguito di avvio di azione legale per ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento, non solo in favore dei lavoratori, (come era previsto nel testo originario), ma anche che in favore dei rappresentanti dei lavoratori previsti da leggi e prassi nazionali.

È il concetto di protezione a dilatarsi estendendosi dal licenziamento a qualsiasi altro trattamento sfavorevole eventualmente disposto dal datore di lavoro.

La direttiva prevede poi la costituzione di organismi volti alla promozione, al controllo, all’analisi e al sostegno della  parità di trattamento; nella loro competenza dovrebbe rientrare l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni, lo svolgimento di inchieste, la pubblicazione di relazioni e la formulazione di raccomandazioni su questioni connesse con tali discriminazioni.

E’ ovviamente consentito agli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni  che siano più favorevoli di quelle fissate dalla precedente direttiva; si ribadisce comunque che l’attuazione della direttiva non può in alcun modo costituire motivo di riduzione delle misure già adottate contro la discriminazione.

La direttiva si conclude fissando nella data del 5 ottobre 2005 il termine entro il quale gli Stati membri debbono mettere in vigore le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alle prescrizioni in essa contenute.

A questo proposito, recentemente è stato approvato dalla Camera dei Deputati il Disegno di legge delega recante “Disposizioni per l’adempimento di obblighi comunitari derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Europee, legge Comunitaria 2003”.[18]

L’art 15, in particolare, prevede la  delega al Governo per l’attuazione della direttiva 2002/73 ed in questo senso, detta i principi e i criteri direttivi a cui il Governo si dovrà attenere nel darle organica  attuazione.

Nell’adottare i decreti legislativi il Governo viene, quindi, delegato ad apportare “le modifiche strettamente necessarie” alle disposizioni vigenti in materia di parità di trattamento.

Questa affermazione, contenuta nell’art 15 comma 1, manifesta indubbiamente un atteggiamento in un certo senso conservatore da parte dell’esecutivo volto ad introdurre solamente le modifiche ritenute assolutamente indispensabili.

In questo senso non è fatto alcun riferimento all’adozione di misure volte ad assicurare nella “ piena pratica” una parità di trattamento tra uomini e donne, una parità sostanziale che risenta della nuova formulazione dell’art. 141 del Trattato CE, fatta propria dalla direttiva nell’ art.2 paragrafo 6.

In realtà la giurisprudenza italiana, nonostante l’emanazione della legge 125/91[19], ha manifestato non poche resistenze nel promuovere misure volte concretamente ad affermare la parità delle opportunità tra uomini e donne nel mondo del lavoro, cercando ad esempio di giustificare molte volte la riserva agli uomini di non pochi accessi a professioni pubbliche.[20]

Va comunque sottolineato, a questo proposito, che recentemente è stata  promulgata, la legge costituzionale 30 maggio 2003, n.1 [21] contenente una integrazione all'art. 51, che nel suo primo comma, dispone: "Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini". E' questa una modifica-integrazione della Costituzione, predisposta al fine di dare copertura costituzionale a tutti quei provvedimenti legislativi ed amministrativi, con i quali si volessero garantire forme di partecipazione paritaria tra donne e uomini, in particolare per la designazione di cariche elettive. Nonostante l’art. 51 Cost. sia relativo esclusivamente all’accesso alle cariche pubbliche, l’aver introdotto anche nella Costituzione italiana il concetto di pari opportunità è espressione della consapevolezza che la nascita di una rappresentanza equilibrata tra uomo donna nel mondo del lavoro poggia sui canoni dell’uguaglianza sostanziale.

Proprio in virtù di queste considerazioni, sarebbe opportuno inserire nel disegno di legge un richiamo all’art. 2 paragrafo 8 della direttiva e ribadire dunque l’impegno dello Stato italiano ad adottare misure volte a garantire nella “piena pratica” la parità di opportunità nel mercato del lavoro.

Per quanto attiene l’ambito applicativo del principio di non discriminazione viene anche in questa sede identificato in tutto ciò che attiene alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; allo svolgimento del rapporto di lavoro e all’accesso a tutti i tipi e i livelli di orientamento, formazione, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini.

L’ inclusione dei tirocini professionali nell’ambito di applicazione del disegno di legge costituisce una novità rispetto alla direttiva che invece li aveva esclusi dalle sue previsioni.

Il legislatore delegato accoglie inoltre le definizioni di discriminazione diretta, indiretta, molestie e molestie sessuali.

Con riferimento alle discriminazioni indirette, si riconosce la legittimità delle differenze di trattamento “giustificato da ragioni oggettive” ovvero nel caso di attività di lavoro, quando “caratteristiche specifiche di sesso costituiscano requisiti essenziali al loro svolgimento”; dunque rispetto alla direttiva non si pone più tanto l’accento sulla legittimità dell’obiettivo e sulla proporzionalità dei mezzi impiegati per il suo conseguimento.

In applicazione degli artt. 8 e ss. della direttiva sono previste misure adeguate per incoraggiare il dialogo tra le parti sociali volto anche alla conclusione di accordi collettivi, codici di comportamenti, scambi di esperienze e pratiche.

L’art. 15 del disegno di legge si conclude, infine, con la previsione della creazione di organismi atti alla promozione, al controllo, all’analisi e al sostegno della parità di trattamento e il ricorso ad una tutela giurisdizionale o amministrativa che garantisca una riparazione o un equo indennizzo.

 

Note:

[1] Il Trattato di Maastricht è stato approvato dai 12 capi di governo della Comunità Europea, ora Unione Europea, (UE) nel dicembre del 1991 e firmato il 6 febbraio del 1992.

[2] Il trattato di Amsterdam, politicamente concluso il 17 giugno è stato firmato il 2 ottobre 1997 dagli Stati membri.

[3] Per una prima riflessione sulla tutela dalle discriminazioni fondate sul sesso e sull’orientamento sessuale si veda: G. DE SIMONE, “Dai principi alle regole”, Giappichelli, Torino, 2001.

 

[4] Si veda art. 2 e 3 , paragrafo 2 del trattato CE, nonché l’art.141, in particolare il paragrafo 3 che affronta la parità di trattamento e di opportunità per uomini e donne in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

[5]La Carta dei diritti è stata approvata dai Presidenti di Parlamento europeo, Consiglio e Commissione in occasione del Consiglio Europeo di Nizza il 7 dicembre 2000.

[6] Si veda in questo senso P.MORI, “ La parità tra uomo e donna nel trattato di Amsterdam, in DUE, 3/1998, pp.317-327.

[7] La direttiva 29 giugno 2000, n. 43, sancisce il divieto di discriminazioni dirette e indirette basate sulla razza e l’origine etnica con riferimento non solo alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro sia dipendente che autonomo ma anche alla protezione sociale, all’istruzione e all’acceso ai beni e ai servizi.

La direttiva 27 novembre 2000, n.78, stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro vietando le discriminazioni fondate sulla religione, le convinzioni personali, gli handicap, l’età e le tendenze sessuali.

[8] Si veda in dottrina M.L.DE CRISTOFARO, “Il riparto dell’onere della prova in caso di discriminazione sessuale di una lavoratrice”, in RGL, 1990, II, p.527.

[9] A questo proposito il legislatore italiano con l’art 4 della legge 125/91, riformulato dall’art. 8 del d.lgs. 196/00, ha introdotto: l’ammissibilità della la c.d. prova statistica, l’azione contro le discriminazioni a carattere collettivo da parte della consigliera di parità, i rimedi giudiziali e l’ordine del giudice di promuovere un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.

[10] “ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro comportamento basato sul sesso che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro, ivi inclusi atteggiamenti malaccetti di tipo fisico, verbale o non verbale”

[11] A questo proposito si veda in dottrina: M.BARBERA, “ Molestie sessuali: la tutela della dignità”, in DPL, 1992, p.1401; D.IZZI, “ Molestie sessuali e rapporti di lavoro”, in LD, 1995, p.285. A.PIZZOFERRATO, “ Molestie sessuali sul lavoro, Padova, Cedam, 2000.

[12] Ad esempio, in passato, la corte di Giustizia ha ritenuto in contrasto con la direttiva 76/207, l’esclusione generalizzata delle donne da impieghi militari comportanti l’uso di armi (Corte di Giustizia, 30 giugno 1988, causa C-285/989), mentre il sesso è stato ritenuto un requisito determinante per il servizio di talune unità combattenti speciali (Corte di Giustizia, 26 ottobre 1999, causa C-0273/97),  o per posti come quello di sorvegliante e sorvegliante capo nelle carceri  (Corte di Giustizia, 8 aprile 1976, Defrenne/Sabena).

[13] Va sottolineato che nella proposta di modifica della direttiva si faceva riferimento anche alla paternità: l’art 2 comma 3 punto b, infatti, riconosceva a tutti i lavoratori che avessero usufruito del congedo di paternità il diritto a ritornare al proprio posto di lavoro o ad un posto equivalente a termini e condizioni non meno favorevoli; veniva inoltre considerata come discriminazione diretta qualsiasi trattamento sfavorevole rivolto nei confronti di un uomo e di una donna nel caso in cui si trattasse di conciliare tempi di vita e di lavoro.

[14] La direttiva non pregiudica la direttiva 92/85/CEE del Consiglio del 19 ottobre 1992 concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere e in periodo di allattamento.

[15] Proprio in relazione alla protezione della donna durante il periodo di gravidanza e maternità, va ricordata una recente sentenza della Corte di Giustizia, 27 febbraio 2003, Causa C- 320/01, Wieblke Busch/ KliniKum Neustadt GmbH & Co. Betriebs KG ,in cui si afferma che: “ osta a che il datore di lavoro possa, ai sensi del diritto nazionale, rimettere in discussione l’accordo data al reintegro di una lavoratrice nel suo posto prima della scadenza del congedo parentale per il motivo che avrebbe versato in errore sullo stato di gravidanza dell’interessata.

[16] Viene infatti negata la possibilità di riservare ad una donna per ragioni legate alla gravidanza o al congedo per maternità, ai sensi della direttiva 92/85/Ce, un trattamento meno favorevole. Oltre alla direttiva indicata sono state fatte salve le direttive n. 96/34/Ce sui congedi parentali, nonché la n .89/391/ Ce relativa alla protezione dello stato fisico e mentale delle donne gestanti. Per quanto attiene alla direttiva sui congedi parentali va sottolineata la sua fondamentale importanza, non solo a livello comunitario, per aver introdotto il tema della conciliazione tra vita personale e vita professionale e la promozione di una più equa responsabilità familiari e di cura tra uomini e donne.

[17] Si veda art.2 paragrafo 4 della direttiva 76/207 ed inoltre per una definizione più ampia del principio di pari opportunità e del concetto di azione positiva  la Raccomandazione n.84/635 del Consiglio Europeo.

[18] Il disegno di legge è stato approvato dalla Camera dei Deputati il 13 maggio 2003 come Ddl 3618 ed è stato trasmesso dal Presidente della Camera dei Deputati alla Presidenza del Consiglio dei Ministri  il 14  maggio 2003.

[19] Legge 10 aprile 1991, n 125, “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”.

[20] Si veda in questo senso in dottrina DE SIMONE  I giudici e la discriminazione sessuale, in QL n. 7/1999, p. 109 ss; M.V. BALLESTRERO,  I giudici e la parità, in PD, 1982, p.463 ss.

[21] La legge costituzionale 30 maggio 2003, n.1, è stata pubblicata sulla G.U. del 12/06/03, n. 134.