inserito in Diritto&Diritti nel febbraio 2001

LE OPERAZIONI DI "PEACE-KEEPING"

NEL SISTEMA COMUNITARIO

A cura di:

LERDA Luisa

DI FERDINANDO Vincenzo

1. Introduzione

 

La competenza dell’Unione Europea alla costituzione ed alla gestione di missioni di pace è prevista per la prima volta, in modo espresso, dal Trattato di Amsterdam all'art. J.7.2, il quale stabilisce che, tra i compiti di politica estera e di sicurezza comune, rientrano “le missioni umanitarie e di soccorso, le attività di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento nella gestione delle crisi, ivi comprese le missioni tese al ristabilimento della pace”.

Tale previsione, sebbene possa essere considerata un importante passo in avanti per una maggiore cooperazione tra gli Stati Membri in questa materia, in realtà costituisce un risultato parziale rispetto alle aspettative suscitate dalla Conferenza intergovernativa, nell'ambito della quale era attesa, infatti, la costruzione di un vero e proprio sistema di difesa comune da realizzarsi attraverso l'integrazione dell’UEO nell’Unione Europea. Ad Amsterdam, invece, il Consiglio su questa questione ha scelto, per così dire, di non scegliere ovvero ha rinviato ogni decisione in merito ad una successiva eventuale iniziativa da parte dello stesso Consiglio: una via di mezzo, dunque, che pur non escludendo, almeno teoricamente, la futura integrazione del c.d. "braccio armato" della Comunità nel sistema comunitario, tuttavia per il momento limita l'azione comune nel settore della difesa a ben precisi compiti tra cui appunto quello della gestione delle crisi internazionali. La scelta di questo settore per avviare una prima sperimentazione è del resto comprensibile se si pensa agli avvenimenti recenti dell’ex-Jugoslavia che hanno scosso dalle fondamenta l'Europa, la sua attuale architettura di difesa, ma soprattutto hanno reso evidente la necessità che l'Unione Europea assuma finalmente un ruolo unitario nelle questioni di politica estera.

Nel presente lavoro saranno analizzate le operazioni di "peace-keeping" nel sistema comunitario sotto vari aspetti. Innanzi tutto si cercherà di ripercorrere brevemente le varie tappe che hanno condotto all'introduzione di tali operazioni nell'Unione Europea; quindi si passerà all'esame della portata politica e giuridica di tale normativa in rapporto soprattutto a quello che è il concetto di "peace-keeping" nel mondo attuale; si proseguirà con l'approfondimento degli aspetti procedurali, con particolare riguardo ai rapporti intercorrenti in materia tra UE, UEO ed altri organismi internazionali che si occupano di missioni di pace (prima fra tutti le Nazioni Unite) e si concluderà il discorso con uno sguardo ai risvolti finanziari ed ai recenti sviluppi determinati dai Consigli Europei di Colonia ed Helsinki.

 

2. Evoluzione storica delle missioni di pace nel sistema comunitario.

 

Le missioni di pace, come visto, sono state regolate per la prima volta nel sistema comunitario con il trattato di Amsterdam. Questo non significa che missioni di questo tipo non potessero essere intraprese dalla Comunità in precedenza.

Se è vero, infatti, che né il trattato istitutivo della CECA del 1951, né i trattati di Roma del 1957 istitutivi della CEE e CEEA e neppure l'Atto Unico Europeo del 1986 contenevano disposizioni in questa materia, già a partire dagli anni ’80, con l’affievolirsi del sistema bipolare di guerra fredda tra Est ed Ovest, si è cominciato a discutere sulla possibilità di attribuire compiti di gestione di crisi internazionali alla Comunità Europea. La fine, poi, della contrapposizione tra il blocco sovietico ed il blocco atlantico ha fa nascere un nuovo concetto di sicurezza internazionale non più legato al pericolo di un conflitto armato USA-URSS, ma a nuovi fattori quali il contrabbando di armi e di droga, il traffico di clandestini e l’odio etnico[1], creando spazio per altre tipologie di intervento patrocinate da nuovi attori sulla scena politica internazionale, prima fra tutti la Comunità Europea. Il dibattito comunitario in materia s’intensifica, ma è soltanto con il trattato di Maastricht nel 1992 e con l’introduzione della competenza comunitaria in materia di Politica Estera e Sicurezza Comune, che si comincia a delineare una prima regolamentazione. L'art. J.1 chiarisce, infatti, che la PESC si estende a tutti i settori di politica estera e di sicurezza ed al paragrafo due indica, tra gli obiettivi della PESC, espressamente "il mantenimento della pace ed il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite, nonché ai principi dell'Atto Finale di Helsinki e agli obiettivi della Carta di Parigi" nonché "sviluppo e consolidamento della democrazia e dello stato di diritto, nonché rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". Anche se è evidente il carattere non immediatamente vincolante sul piano giuridico di tali dichiarazioni, tuttavia esse dimostrano l'acquisizione da parte degli Stati Membri della consapevolezza di un nuovo ruolo che la Comunità Europea dovrà assumere in futuro nel sistema internazionale, di un ruolo non più limitato al settore economico ma di più ampio respiro comprendente la gestione delle crisi internazionali.

Importante è anche il successivo articolo J.4 del trattato il quale prevede, sul piano operativo, che la C.E. si potrà avvalere, per dare attuazione alle proprie decisioni ed azioni in materia di difesa comune, dell'attività dell'UEO, organizzazione che è definita parte integrante dello sviluppo dell'Unione Europea.

A seguito di queste previsioni l'UEO ha ricevuto nuovo impulso orientandosi sempre più verso compiti propriamente di mantenimento della pace. Ne è prova la successiva "Dichiarazione di Petersberg"[2] adottata dal Consiglio UEO del 19 giugno 1992 con la quale viene espressamente stabilito che l'impiego delle unità militari che gli Stati Membri metteranno a disposizione potranno essere impiegate:

- per missioni di carattere umanitario o di evacuazione dei cittadini;

- per missioni di mantenimento della pace;

- per missioni di forze di combattimento per la gestione delle crisi, ivi comprese le operazioni di ristabilimento della pace.

E' interessante vedere come la terminologia qui usata sia praticamente identica a quella utilizzata successivamente ad Amsterdam per regolare la materia. Si può dunque sostenere che il trattato ha proceduto semplicemente alla "comunitarizzazione" di operazioni che già precedentemente venivano considerate campo di intervento dell'Unione Europea. La storia della Comunità Europea del resto insegna come ogni progresso dell'integrazione è il risultato di molti piccoli passi portati avanti con grande tenacia dagli Stati Membri.

 

3.      Il concetto di peace-keeping nel mondo attuale.

 

Per comprendere la portata della normativa comunitaria in materia di peace-keeping introdotta dal trattato di Amsterdam, occorre partire col definire il concetto stesso di peace-keeping nella sua attuale accezione. A tal fine è utile fare riferimento all'esperienza maturata dalla organizzazione internazionale che più di tutte si è occupata di questa tipologia di interventi facendone uno dei suoi principali campi di azione: le Nazioni Unite.

La dottrina si è occupata largamente delle missioni di pace organizzate in seno al'O.N.U. e le ha raggruppate, a seconda del periodo storico e delle finalità cui erano destinate, in tre categorie: operazioni di "prima generazione", operazioni di "seconda generazione" ed operazioni di "terza generazione".

Tra le prime vengono comprese tutte le operazioni poste in essere nel periodo della guerra fredda e portate a compimento prima del crollo del muro di Berlino nel 1989. Sono operazioni con portata limitata, figlie di una situazione caratterizzata dall'impossibilità di rendere operativo il sistema di difesa comune previsto dal capo VII della Carta delle Nazioni Unite. Da un punto di vista giuridico esse vengono, infatti, giustificate attraverso un'applicazione estensiva (peraltro discutibile) del capo VI della Carta che in realtà si occupa soltanto della soluzione pacifica delle controversie (operazione che ha portato, secondo alcuni, alla creazione del c.d. "implicito capo VI e mezzo della Carta").

Da un punto di vista operativo tali missioni si caratterizzano essenzialmente per impiegare forze, con compiti di interposizione tra due o più parti in conflitto al fine di sorvegliare e/o garantire gli accordi di cessate il fuoco ovvero per prevenire la ripresa delle ostilità; sono forze che possono localizzarsi in un territorio soltanto previo consenso[3] dello stato ospite e fino a che questo perdura e che devono mantenersi neutrali tra le parti in conflitto. Si tratta, inoltre, di forze non abilitate all'uso delle armi salvo il caso della legittima difesa, che vengono messe a disposizione dagli Stati membri a seguito di accordi internazionali con tutte le limitazioni e difficoltà di coordinamento e di comando che ciò comporta.

Per operazioni di c.d. "seconda generazione" si intendono, invece, nuove tipologie di intervento in cui la componente militare si affievolisce e viene via via affiancata da sempre maggiori compiti di natura più squisitamente civile (rimpatrio dei rifugiati, assistenza umanitaria, controllo sull'attuazione dei diritti umani, organizzazione e controllo del regolare svolgimento delle elezioni o dei referendum). Permangono, tuttavia, le caratteristiche di neutralità delle forze impiegate e quella del consenso dello stato ospite, tipiche delle operazioni di prima generazione.

Le operazioni di "terza generazione", infine, si differenziano profondamente dalle prime due in quanto sono caratterizzate da funzioni assai più estese e soprattutto perché, per la prima volta, esse possono impiegare forze legittimate all'uso della violenza militare al fine non più solo di mantenere la pace ma di realizzarla. Rispetto alle precedenti si tratta dunque di forze non più neutrali, che possono operare anche in assenza del consenso delle parti in causa e che oltre ai tradizionali compiti di peace-keeping sommano quelli più impegnativi di peace-enforcement/peace-building. La giustificazione giuridica di tali operazioni non sta più nel capo VI della carta dell’ONU ma va viene ricondotta nell’alveo del successivo capo VII ed in particolare all’art. 42. In base a tale disposizione è compito del Consiglio di Sicurezza accertare in concreto l’esistenza di una minaccia alla pace e se del caso autorizzare gli Stati all’uso della forza al fine del suo ristabilimento. Ne consegue, dunque che il Consiglio gode di un'ampia discrezionalità sull’interpretazione della situazione di crisi, discrezionalità di cui non sempre si è servito per perseguire interessi generali. Sempre più spesso si è assistito, inoltre, in questi ultimi anni ad un’applicazione estensiva del concetto di minaccia alla pace tale da comprendere anche i casi in cui in realtà non si poteva parlare di effettiva minaccia alla pace ma l’intervento era giustificato più che altro dalla necessità di evitare catastrofi umanitarie di enormi proporzioni. L’uso della forza, in questi casi, ha dunque il fine primo di proteggere la popolazione civile dalle parti in causa e, ove possibile, di fare desistere queste ultime da operazioni molto pericolose per i civili. Si tratta, inoltre, di operazioni per così dire in divenire, che cioè originalmente partono come semplici missioni di mantenimento della pace ma che, data l’inadeguatezza rispetto alla situazione ovvero l’insorgere di situazioni impreviste, assommano via via nuove competenze più impegnative fino ad assumere quelle di vere e proprie forze di combattimento per la pace.

Quella sopra illustrata è dunque la classificazione delle operazioni di “peace keeping” secondo la dottrina tradizionale. Occorre però ricordare brevemente che ne esistono altre tra cui anche quella operata dallo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite nel 1992 con il rapporto denominato "Agenda for Peace" ancorché sia stato fatto oggetto di pesanti critiche da parte di quasi tutta la dottrina.  In tale rapporto si distingue tra "preventive diplomacy", "peacemaking", "peace-keeping" e "post-conflict peace-building" con riferimento principalmente agli obiettivi perseguiti dalle varie missioni. Tale tipo di classificazione si è rivelata, peraltro, confusa tanto che è stata ben presto oggetto di modifiche ad opera dello stesso Segretariato generale con un successivo rapporto del 3 gennaio 1995.

Queste classificazioni, peraltro, vengono ormai considerate superate dalla dottrina più recente in quanto non più idonee a descrivere una realtà profondamente cambiata che presenta profili sempre più complessi che mal si prestano ad essere catalogati in modelli pre-confenzionati.  Alcuni autori propongono tuttavia nuove classificazioni. Si può qui ricordare, tra le più interessanti, quella[4] che distingue le operazioni di "peace-keeping" con riferimento a tre situazioni fondamentali: 1) conflitto militare in atto con distinzione tra guerre internazionali, guerre civili, o conflitti interni "internazionalizzanti"; 2) situazione di tregua o di armistizio, o di conclusione di un trattato di pace, immediatamente successiva al conflitto stesso; 3) situazione di conflitto o di disordine meramente politico-sociale (non militare) all'interno di uno stato. 

Il quadro generale sopra tracciato è utile per comprendere la portata reale delle nuove previsioni del trattato di Amsterdam, dal quale emerge appunto un'ampia delega all'Unione Europea per la costituzione e gestione di operazioni di mantenimento della pace che spazia dalle classiche missioni di peace-keeping di  "prima generazione", con caratteri per lo più limitati a compiti di mera osservazione o di interposizione tra due o più parti in conflitto, a quelle più ampie ed intrusive di ristabilimento della pace anche con l'uso della forza militare (vere e proprie operazioni di peace-enforcement/ peace-building).

Con queste norme dunque l'Unione riceve un forte impulso a svolgere sul piano internazionale non più soltanto un mero ruolo diplomatico ma un vero e proprio intervento di stabilizzazione regionale. Si tratterà ora di vedere se gli strumenti di cui attualmente essa dispone siano effettivamente idonei a portare avanti un impegno di così ampie proporzioni viste e considerate le deludenti "performance" della Comunità nel tentativo improduttivo di trovare una soluzione per la crisi dei Balcani.

L'aspetto, peraltro, più importante di questa nuova disciplina è l'aver individuato in modo formale la sede competente in Europa a discutere di questi problemi e a adottare misure di intervento. Anche se allo stato attuale è forse prematuro parlare di "comunitarizzazione" della gestione delle crisi,  in quanto non esiste ancora un obbligo da parte degli Stati Membri di agire collettivamente in questa materia, tuttavia all'occorrenza ogni Stato Membro potrà legittimamente chiedere la convocazione del Consiglio Europeo o del Comitato Politico costituito ad hoc per discutere la questione. Per contro nessuno Stato Membro in questi casi potrà rifiutarsi di inserire all'ordine del giorno dei lavori del Consiglio Europeo la discussione ovvero agire, da solo o in collaborazione con altri Stati Membri e non, se l'Unione è già stata investita della questione.

 

4. Il rapporto tra UE come organizzazione regionale e ONU in relazione alle operazioni di peace-keeping dell’art. J7 del Trattato di Amsterdam.

 

Se con il nuovo art. J.7 par. 2 l’UE acquisisce compiti nella costituzione e gestione di operazioni di mantenimento della pace, si pone il problema di ridefinire, nel mutato ambiente internazionale, i compiti delle organizzazioni regionali e della loro relazione col sistema universale delle Nazioni Unite: è ciò di cui si occupa  il capo VIII della carta ONU. In esso si afferma che lo Statuto non impedisce il sorgere di organizzazioni regionali che si occupino di mantenimento e ristabilimento della pace e della sicurezza internazionali. Ecco quindi che l’art. J. 7 par.2 non contrasta con la carta ONU tanto più se si pensa che l’art. J. 1 annovera tra gli obiettivi della PESC “il mantenimento della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale conformemente ai principi della Carta ONU.” Ciò è proprio quanto richiesto dal Capo VIII art. 52 dello Statuto di S. Francisco al punto in cui afferma che le organizzazioni regionali con compiti di mantenimento della pace possono sorgere purché le loro attività siano conformi ai fini ed ai principi delle N.U.

L’UE a sua volta, in quanto unione di 15 membri non può che atteggiarsi, in relazione ai suoi nuovi compiti di peace-keeping, come organizzazione regionale di fronte all’universalità dell’ONU.

Il capo VIII dello Statuto disegna un sistema accentrato di uso della forza rispetto al quale le organizzazioni regionali hanno una funzione subordinata e caratterizzata da precise limitazioni. Il Consiglio di sicurezza, infatti, utilizza le organizzazioni regionali per azioni coercitive e le dirige. Inoltre “nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza”. Tuttavia si è consolidato nella prassi un atteggiamento delle Nazioni Unite decisamente diverso che ha valorizzato l’apporto delle organizzazioni regionali non secondo il meccanismo generale del Capo VIII, ma secondo quello del capo VII. E così l’adozione di misure implicanti l’uso della forza autorizzate dal Consiglio di sicurezza è compito degli Stati sia perché l’ONU e l’UE non hanno un esercito, sia perché il Consiglio di sicurezza si è sempre e comunque rivolto agli Stati membri, operanti individualmente o in seno alle organizzazioni regionali. Anche quando organizzazioni di rilievo regionale come l’UEO e la NATO hanno assunto la responsabilità principale dell’attuazione delle misure indicate dal Consiglio di sicurezza, come è successo a partire dalla crisi della Jugoslavia in poi, reali destinatari della risoluzioni erano gli Stati membri, mentre gli enti regionali venivano in rilievo come organizzazioni non ai sensi del capo VIII, ma semplicemente nella veste di “enti coordinatori dell’azione degli Stati membri”[5], “arene nelle quali l’azione degli Stati trova un maggiore grado di omogeneità e di efficacia rispetto ad iniziative in ordine sparso”[6].

In particolare per quanto riguarda l’UE e i suoi compiti in materia di peace-keeping, se si accetta che questa è un’organizzazione regionale di fronte all’ONU, e che tali enti si trovano ad agire non all'interno del Capo VIII dello Statuto delle nazioni unite, ma del Capo VII, dobbiamo ritenere che essa è autonoma allorché intraprende operazioni di prima e seconda generazione fondate sul consenso del destinatario. Secondo la visione classica, infatti, gli Stati potrebbero compiere collettivamente quello che possono legittimamente compiere da soli. Di conseguenza l’azione di sistemi regionali sarebbe legittimata ogni qual volta le operazioni siano intraprese con il consenso del destinatario che costituisce causa di esclusione dell’illecito internazionale. L’autorizzazione delle NU appare invece necessaria tutte le volte che l’UE intraprenda azioni coercitive, proprio come accade per gli Stati quando agiscono in relazione al Capo VII carta ONU.[7]

In questo quadro per evitare situazioni di stallo o di conflitto tra le organizzazioni, l’art. J.9 prevede che gli Stati membri all’interno di organizzazioni o conferenze difendano le posizioni comuni, tengano gli altri Stati membri non rappresentati in queste sempre informati e soprattutto che gli stati membri che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si concertino e tengano pienamente informati gli altri stati membri. Inoltre gli Stati membri che sono  membri permanenti del Consiglio di Sicurezza devono difendere le posizioni e gli interessi dell’Unione fatte salve le responsabilità che hanno in forza della carta delle NU.

L’azione dell’UE in materia di peace-keeping non incontra inoltre limiti derivanti dai Trattati istitutivi nei quali non si fa infatti riferimento a limiti geografici.

Ultimo problema è quello della capacità dell’UE di concludere in ambito PESC gli accordi necessari per la presenza sul terreno ed il funzionamento di missioni di peace-keeping. L’art. J.14  attribuisce all’Unione un limitato “treaty making power” consentendo la conclusione di accordi con Stati od Organizzazioni internazionali ai fini dell’attuazione del titolo sulla PESC. Tale articolo attribuisce al Consiglio che decide all’unanimità, il compito di autorizzare la Presidenza assistita dalla Commissione ad avviare i negoziati a tal fine necessari. Sempre il Consiglio all’unanimità conclude tali accordi. L’articolo prosegue dicendo che “nessun accordo è vincolante per uno stato membro il cui rappresentante dichiari che esso deve conformarsi alle prescrizioni della propria procedura costituzionale; gli altri membri del Consiglio possono convenire che l’accordo si applichi a titolo provvisorio nei loro confronti”. Essendo questa una materia in cui vige il principio dell’unanimità, si applica il meccanismo dell’astensione motivata prevista dall’art. J.13 e che è una novità propria della PESC. Lo Stato che si astiene motivatamente dal voto in seno al Consiglio, non prende parte alla missione, ma deve astenersi anche da comportamenti che possono contrastare o impedire l’azione dell’Unione; accetta inoltre che per gli altri Stati membri entri in vigore un accordo in base al quale essi intraprendono una missione umanitaria.

 

5. Il nuovo rapporto tra UE e UEO e ruolo di quest’ultima nell’attuazione delle operazioni di peace-keeping.

 

Se il trattato di Maastricht ha voluto instaurare un rapporto di tipo cooperativo tra UE e UEO nel settore della difesa, rapporto che non configura una piena integrazione tra le due organizzazioni, ciascuna mantenendo intatta la propria individualità e autonomia, è anche vero che le cose non sono cambiate molto con il Trattato di Amsterdam. Anche questo non ha realizzato un’integrazione dell’UEO nell’UE, ma ha sicuramente rafforzato il legame tra le due organizzazioni. Infatti l’art. J.7 par. 1 2° comma stabilisce che l’UEO è parte integrante dello sviluppo dell’Unione alla quale conferisce l’accesso ad una capacità operativa di difesa, in particolare nel quadro del paragrafo 2”. E’ proprio in materia di difesa e in  particolare in relazione alle operazioni di Petersberg che l’Unione si avvale dell’UEO. Gli orientamenti dati dal Consiglio europeo si estendono all’UEO per le questioni per le quali l’Unione ricorre a quest’ultima: quelle di difesa e le operazioni di peace-keeping. Ecco quindi che da una situazione di parità tra le due organizzazioni, si passa ad una netta subordinazione politica dell’UEO rispetto all’UE per quanto riguarda la difesa e le operazioni di Petersberg.

E’ cosi prevalsa la linea di quelli che, al Consiglio europeo di Corfù del 24 e 25 Giugno 1994, auspicavano, per realizzare un rafforzamento del legame UE/UEO, una vera e propria subordinazione della seconda alla prima limitatamente alle operazioni di Petersberg. Le altre posizioni miravano a questo obiettivo ma mantenendo la piena autonomia dell’UEO e istituendo al contempo più strette relazioni politiche e amministrative tra le due organizzazioni, l’altra proponendo una graduale integrazione dell’UEO nell’UE approfittando della possibilità di denunciare il trattato di Bruxelles a partire dal 1998.

La soluzione accolta dall’art. J.7 è chiaramente la prima, e le operazioni di peace-keeping, come nuova competenza dell’UE in comune con l’UEO, sono fondamentali per capire il futuro di quest’ultima.

Infatti, sempre l’art. J.7 al comma 2 del par. 1, afferma che tra gli obiettivi futuri dell’Unione vi è proprio quello di integrare l’UEO in essa. La decisione sarà presa dal Consiglio e dovrà poi essere ratificata dagli Stati membri, secondo le rispettive norme costituzionali. L’art. J7 introduce nel titolo V una procedura semplificata di revisione: la possibilità di limitate e specifiche modifiche al trattato senza convocare una Conferenza Intergovernativa. Se si considera inoltre che è già stata prevista la possibilità che l’UEO cessi di esistere dal ’98 in poi, se ciò accadesse la PESC assorbirebbe tutte le funzioni dell’alleanza militare (ormai defunta), comprese quelle riguardanti la legittima difesa collettiva, dando vita ad una difesa comune.

Il fatto, però, che ciò non sia mai accaduto, evidenzia la mancanza di volontà all’interno dell’Unione di dotarla di una difesa comune, consacrando l’esclusiva egemonia della NATO in questo campo. E così l’UEO, che non cessa di esistere come organizzazione autonoma sopravvive tra questi due colossi che la schiacciano uno sul lato delle operazioni umanitarie, l’altro su quello della difesa del continente europeo, atteggiandosi alla fine come ente politicamente subordinato all’UE, mero esecutore materiale delle sue decisioni in materia di peace-keeping. A conferma di ciò basti vedere la Dichiarazione adottata dall’UEO il 22 Luglio 1997 sul “Ruolo dell’UEO e le sue relazioni con l’UE e l’Alleanza Atlantica”. Essa contiene una serie di affermazioni che valgono accettazione di quelle parti dell’art. J.7 relative all’UEO e al suo rapporto con l’UE. In particolare al punto 5 della Dichiarazione L’UEO accetta:

·        Di elaborare e attuare le decisioni e le azioni della UE che hanno implicazione nel settore della difesa

·        Di agire, in questo contesto, secondo gli orientamenti definiti dal consiglio europeo

·        Di assistere l’Unione europea nella definizione degli aspetti della PESC attinenti alla difesa, così come definiti dall’art. J.7.

 

6. Il sistema europeo di gestione delle crisi.

 

Per quanto riguarda la materiale attuazione di un’operazione di peace-keeping, possiamo rinvenire dei passaggi che rendono il procedimento estremamente complesso e farraginoso in quanto si risolve in continue navette tra l’UE e l’UEO.

Nella fase di iniziale manifestazione di una crisi la Cellula di tempestivo allarme dell’UE e la Cellula di Pianificazione dell’UEO hanno il compito di monitorare gli avvenimenti e di predisporre le prime valutazioni. La Cellula di Tempestivo allarme situata presso il Segretariato, e destinata ad operare in cooperazione con la Commissione, ha il compito di colmare il gap cognitivo segnalato dalla precedente esperienza comunitaria in materia di gestione delle crisi fornendo una sede unica di elaborazione e valutazione dei dati di intelligence. Lo staff del nuovo organismo è composto da funzionari del Segretariato generale e da personale messo a disposizione dagli Stati membri e dall’UEO. Le cellule riferiranno ai rispettivi Consigli sulla possibilità di prendere in considerazione un intervento comportante l’impiego di forze militari. Se tale orientamento si forma tra i membri dell’UE il Consiglio dell’Unione chiederà al Consiglio permanente dell’UEO di verificare la possibilità sotto il profilo organizzativo e tecnico-operativo. Questo a sua volta presenterà all’UE un rapporto  circa le opportunità e le dimensioni dell’intervento umanitario o di mantenimento della pace. La parola torna al Consiglio dell’Unione che adotta la decisione definitiva e chiede all’UEO di mettere in atto tale provvedimento. La decisione del Consiglio dell’UE dovrà essere assunta all’unanimità ferma restando l’opzione dell’astensione costruttiva. E’ possibile che prima della decisione finale l’UE ricerchi l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e un dialogo con l’OSCE .

A questo punto la questione torna al Consiglio dell’UEO che all’unanimità approva la costituzione della missione e incarica la Cellula di pianificazione di presentare un contingecy-plan  definitivo.

Il Consiglio permanente, decide l’avvio della missione umanitaria, nomina il comandante dell’operazione, il comandante della forza, ed emana le direttive per la conduzione dell’operazione riferendo  su tutto ciò al Consiglio UE. Simultaneamente la Cellula di pianificazione conclude le procedure di reclutamento dei contingenti.

Siccome l’UEO non dispone di forze militari proprie, la costituzione di un’operazione avviene attraverso una procedura ad hoc, nella quale le forze conferite dagli stati membri, mediante lo strumento delle forze a disposizione dell’UEO (FAWEU), vengono assemblate e dispiegate sul teatro dell’operazione[8]. Le difficoltà poste dal reclutamento di forze multinazionali, ha spinto gli Stati a orientarsi verso forme organizzative più flessibili. Si è ricorso così al sistema della nazione “frame-work”. Questa espressione significa che si affida allo Stato con un preminente interesse ed una reale possibilità di intervenire nella crisi, il compito di organizzare il lancio di un’operazione di peace-keeping, dispiegando un contingente significativo di forze, assicurando il quartier generale e le infrastrutture necessarie. L’operazione Alba in Albania ha dimostrato come questo schema sia in realtà molto funzionale per supplire alle carenze delle strutture multilaterali, però una sua istituzionalizzazione rischierebbe di vanificare quell’effetto di socializzazione che è il motore del progresso della cooperazione tra Stati europei nel settore della politica estera. Potrebbe crearsi cioè la tendenza degli Stati a disimpegnarsi da interventi in aree geopolitiche periferiche, o a ripartire a tavolino lo scenario europeo in sfere di influenza subregionali in ciascuna delle quali uno Stato leader assume la responsabilità del mantenimento dell’ordine e della sicurezza.

La limitata prassi recente ha dimostrato però che questi meccanismi così complessi di passaggi tra UE e UEO non hanno impedito il realizzarsi di esperienze positive: si tratta del contributo fornito dall’UEO in Albania all’operazione denominata MAPE[9] e dell’operazione di bonifica dalle mine in Croazia[10]. Inoltre l’UE ha utilizzato il centro satellitare dell’UEO per il monitoraggio della situazione in Kossovo[11]. Tutto ciò indica che per gli interventi di tipo umanitario e di peace-keeping, la collaborazione UE/UEO sta cominciando a funzionare senza sollevare conflitti di competenza con la NATO. L’idea che l’UEO, secondo l’interpretazione da noi colta del Trattato di Amsterdam, possa operare per le missioni di Petersberg come agenzia operativa dell’UE, va quindi affermandosi nei fatti salvo quanto stabilito per il suo futuro dai recenti consigli di Colonia e di Helsinki.

 

7. Recenti sviluppi.

 

Importanti sviluppi  in questa  materia sono stati apportati dai recenti Consigli Europei di Colonia e di Helsinki che si sono preoccupati della realizzazione concreta delle previsioni del trattato di Amsterdam. Occorre, infatti, ricordare, che il trattato è entrato in vigore soltanto in data 1° maggio 1999,  data a partire dalla quale il dibattito su questi temi ha ripreso notevole impulso.

Il primo segno di questa svolta si coglie dalle prime righe della dichiarazione finale del vertice di Colonia del 3-4 giugno 1999 che si apre con queste parole: "Noi, membri del Consiglio Europeo, siamo determinati a far si che l'Unione europea svolga appieno il suo ruolo sulla scena internazionale. A tale scopo, intendiamo fornire all'Unione europea i mezzi e le capacità necessari perché possa assumere le proprie responsabilità per quanto riguarda una Politica Europea comune in materia di sicurezza e di difesa". Emerge, dunque, una nuova consapevolezza da parte degli S.M. circa la necessità di passare dalle parole ai fatti, di dotare cioè la Comunità degli strumenti e dei mezzi idonei a concretizzare gli obiettivi della PESC mediante lo sviluppo di una politica europea comune in materia di sicurezza e difesa e, più specificatamente, l'attuazione concreta dei c.d. "compiti di Petersberg" incorporati dal trattato di Amsterdam[12]. A tal fine  il Consiglio individua alcuni principi orientativi cui dovranno convergere  gli sforzi degli Stati Membri:

1) dotare la Comunità di forze militari credibili che le permettano di agire in modo autonomo nella gestione delle crisi internazionali;

2) istituire organi e processi decisionali appropriati ed efficaci;

3) sviluppare una reciproca ed efficace consultazione, cooperazione e trasparenza tra l'Unione europea e la NATO.

Per quanto riguarda il primo punto il Consiglio evidenzia la necessità di creare forze comuni europee più efficaci partendo con il rafforzamento di quelle esistenti a livello nazionale, binazionale o multinazionale e cercando di evitare inutili duplicazioni. Sottolinea l'esigenza che tali forze siano addestrate ed adeguate per condurre operazioni di gestione delle crisi internazionali, siano affiancate da idonei sistemi informativi, di trasporto, comando e controllo; si caratterizzino per schierabilità, sostenibilità, interoperabilità, flessibilità e mobilità e soprattutto siano dotate di sufficiente autonomia gestionale rispetto sia ai singoli S.M., sia agli altri organismi internazionali che eventualmente compartecipino all'operazione. A tal fine prevede inoltre che prima di ogni operazione venga stabilito se l'Unione agisce autonomamente con forze proprie (nazionali o multinazionali europee pre-individuate dagli S.M.) oppure  con il ricorso a mezzi e capacità messe a disposizione dalla N.A.T.O.. In questo caso ovviamente la gestione dell'operazione dovrà avvenire in collaborazione con i vertici di quest'ultima.

Passando ora al secondo punto, l'individuazione di adeguati ed efficaci processi decisionali, il Consiglio sottolinea la necessità di istituire organi di controllo politico e di direzione strategica, nonché di creare mezzi di analisi delle situazioni e sistemi propri di informazione, in modo che l'Unione possa condurre efficacemente le operazioni di peace-keeping. In particolare si sollecitano riunioni periodiche ad hoc del Consiglio "Affari Generali" che, all'occorrenza, dovrebbe essere integrato dalla partecipazione dei Ministri della Difesa di singoli S.M., ed inoltre l'istituzione dei nuovi organi con competenze politico-gestionali e più propriamente militari.

Per quanto concerne, infine, il terzo punto viene ribadito il principio, già affermato nel trattato di Amsterdam,  che lo sviluppo di una Politica estera e di sicurezza comune europea è perfettamente compatibile con gli impegni assunti dai vari S.M. nell'ambito dell'Alleanza Atlantica che continua pertanto ad essere il fondamento della difesa collettiva tra i suoi membri. Viene  peraltro precisato che ogni S.M. dell'UE ha diritto a partecipare alle iniziative assunte in materia di PESC dall'UE a prescindere dalla sua adesione o meno alla NATO, organizzazione con la quale l'UE  si impegna  ad intensificare i rapporti di collaborazione, informazione  e cooperazione reciproca.

Il Consiglio Europeo si conclude dando mandato alla Presidenza di studiare le possibili soluzioni agli orientamenti definiti dal vertice, con particolare riguardo alla ricerca delle modalità procedurali per includere nell’UE le funzioni UEO relative ai compiti di Petersberg, e di relazionare in proposito nel successivo vertice europeo di Helsinki.

Ed è proprio ad Helsinki che vengono assunte decisioni importanti per la gestione comunitaria, militare e non militare, delle crisi internazionali.

In primo luogo, viene deciso che entro il 2003, dovrà essere costituito il primo contingente di forze militari europee che dovrà essere formato da almeno 50.000/60.000 uomini, schierabili nell'arco massimo di 60 giorni e da mantenere per almeno un anno. Tali forze dovranno inoltre, in linea con quello che già era stato previsto a Colonia, essere militarmente autonome e, provviste delle opportune capacità di comando, controllo e informazione, nonché di  unità di supporto bellico comprese, in caso di necessità, di quelle aeree e navali

Altro significativo risultato conseguito ad Helsinki riguarda la formale istituzione di nuovi organi e strutture politiche e militari incaricate della gestione delle operazioni di "peace-keeping" in esecuzione delle direttive di Colonia. Organi che verranno istituiti in seno al Consiglio e che saranno formati da:

- un Comitato politico e di sicurezza (CPS) permanente, con sede a Bruxelles e composto da rappresentanti a livello di alti funzionari e/o ambasciatori dei vari S.M., cui spetterà di trattare tutte le questioni relative alla PESC compresa la politica europea comune in materia di sicurezza e difesa (PECSD), e che, in caso di operazioni militari, dovrà assicurare, sotto l'autorità del Consiglio, il controllo politico e la direzione strategica dell'operazione stessa. Avrà, infine, compiti di orientamento per il Comitato militare;

- il Comitato militare (CM), composto dai Capi di Stato maggiore della difesa rappresentati dai loro delegati militari, con compiti di consulenza militare al CPS e di direzione militare dello Stato Maggiore. Il Presidente del CM parteciperà alle riunioni del Consiglio in caso di decisioni con implicazioni nel settore della difesa;

- lo Stato Maggiore (SM), in seno alle strutture del Consiglio, con compiti di consulenza e sostegno in campo militare alla PECSD, compresa l'esecuzione delle operazioni di gestione militare delle crisi sotto la guida dell'UE. Esso, inoltre, nell'ambito dei compiti di Petersberg, dovrà assicurare il tempestivo allarme, la valutazione della situazione, la pianificazione strategica e l'identificazione delle forze europee nazionali e multinazionali da impiegare.

In attesa dell'effettiva costituzione di tali organismi, il Consiglio ha inoltre previsto l'attivazione di organi ad interim[13] e procedure transitorie che dovranno entrare in funzione a partire dal marzo 2000.

Ad Helsinki i capi di stato degli S.M. tornano a discutere sulla questione già affrontata a Colonia e riguardante la necessità di regolare i rapporti tra U.E., NATO e Stati membri dell'una, dell'altra organizzazione o di entrambe. A tal proposito si decide innanzi tutto di elaborare modalità atte a garantire la piena consultazione, cooperazione e trasparenza tra l’U.E. e la NATO sui temi riguardanti la sicurezza, la politica di difesa e la gestione delle crisi. Sul piano operativo viene prevista la possibilità di partecipare alle operazioni condotte in collaborazione tra UE e NATO anche ai membri della NATO non membri U.E; nel caso, invece, di operazioni condotte autonomamente dalla UE, sarà il Consiglio a poter decidere di invitare tali Stati a partecipare. Parimenti il Consiglio potrà invitare all'operazione anche i paesi candidati all'adesione all'U.E.

E’ fissato, inoltre, il principio per cui tutti gli Stati che prenderanno parte a siffatte operazioni (siano essi o meno membri U.E.), con il dispiego di importanti forze militari, potranno godere degli stessi diritti ed obblighi nella conduzione delle operazioni degli Stati partecipanti membri dell'UE. Un Comitato ad hoc dei c.d. contributori dovrà occuparsi della conduzione quotidiana delle operazioni e ad esso avranno il diritto di presenziare tutti gli SM dell'UE anche se non partecipanti all'operazione; soltanto i contributori, peraltro, potranno intervenire nelle questioni inerenti la conduzione delle operazioni.

Ultimo punto importante trattato ad Helsinki riguarda la necessità di creare un meccanismo di gestione non militare delle crisi da affiancare a quello militare. La Comunità si è infatti, resa conto dell'importanza di questo strumento soprattutto a seguito dei recenti avvenimenti nel Kossovo e dell'esperienza ivi maturata. A questo riguardo il Consiglio ha approvato la relazione predisposta dalla Presidenza dove sono sintetizzati i progressi già realizzati in questo campo e gli obiettivi futuri[14]

Il vertice di Helsinki si chiude anche qui dando mandato alla Presidenza di proseguire i lavori nell'ambito del Consiglio "Affari Generali" e con l’invito ad elaborare una prima relazione, sullo stato di avanzamento sul rafforzamento della politica europea comune di sicurezza e di difesa per il Consiglio europeo di Lisbona ed una relazione globale per il Consiglio europeo di Feira del prossimo giugno. Il Consiglio europeo di Lisbona, che si è occupato principalmente delle questioni occupazionali e sociali, non ha fatto registrare significativi risultati in questa materia a parte la comunicazione circa l’effettiva attivazione degli organi ad interim previsti ad Helsinki. C'è dunque grande attesa per le decisioni che verranno assunte al prossimo Consiglio Europeo del 19 e 20 giugno e per la relazione che la Presidenza sta preparando per allora.

 

8.  Il sistema di finanziamento.

 

L'analisi del sistema di finanziamento delle missioni di peace-keeping/peace-enforcing costituisce uno degli aspetti più importanti della materia. E' di tutta evidenza infatti la differenza che intercorre per uno Stato membro tra l'esprimersi a favore di una missione di pace e quello assai più impegnativo,  di assumersi gli oneri, non soltanto economici, di una missione di peace-keeping.

Al riguardo il trattato di Amsterdam, all'art. J.18, distingue tra spese amministrative, che sono poste sempre a totale carico del bilancio comunitario, e spese operative (quelle cioè connesse all'attuazione concreta delle missioni di carattere prettamente militare) che sono, invece, poste a carico degli Stati Membri salvo che il Consiglio, all'unanimità, decida altrimenti.

Questo meccanismo è sostanzialmente differente rispetto a quello che regola il finanziamento per tutte le altre spese della PESC che non rientrano nei settori militare e della difesa, per le quali è previsto in via prioritaria il ricorso al bilancio comunitario.

Per quanto concerne poi, la ripartizione delle spese operative tra gli stati membri, è stabilito che essa dovrà avvenire in base al prodotto nazionale lordo di ciascun stato, salvo che anche in questo caso il Consiglio decida diversamente.

L'aspetto forse, però, più interessante è costituito dagli effetti dell'applicazione in questo settore della procedura c.d. di "astensione costruttiva" di cui all'art. J.13 del trattato. In base ad essa gli stati che non intendano aderire alla missione, potranno venire esonerati completamente dalla partecipazione ai costi dell'operazione semplicemente astenendosi in sede di votazione e motivando tale scelta in un'apposita dichiarazione da allegarsi agli atti della seduta. Questa previsione permette da un lato alla Comunità di intraprendere missioni di pace anche in presenza di un numero limitato di Stati Membri favorevoli, ma dall'altro pone su questi ultimi il costo complessivo dell'operazione. Vi è, inoltre, un limite all'utilizzo di questa procedura ed è stabilito dal primo paragrafo del citato art. J.13.: in base ad esso il numero massimo delle astensioni motivate non può superare il terzo dei voti in seno al Consiglio secondo la ponderazione di cui all'art. 148, paragrafo 2, del trattato istituivo della Comunità. Ne consegue che non potranno comunque essere decise operazioni comunitarie in questa materia senza il concorso attivo da parte di un numero consistente di S.M..

La complessa architettura decisionale sopra individuata è il risultato di un compromesso raggiunto tra gli S.M. a seguito di animate discussioni e ripetuti contrasti tra le istituzioni della stessa Comunità.

In dottrina non si è mancato di sottolineare come questo sistema di finanziamento renda debole tutta l'impalcatura organizzativa della PESC ed in particolar modo renda difficile portare avanti con successo missioni impegnative come quelle di peace-keeping. Il ricorso al finanziamento dei singoli S.M. rischia, infatti, di causare ritardi nel reperimento delle risorse, incertezze nella definizione della loro entità e sui tempi della loro effettiva messa a disposizione; ritardi che possono rivelarsi estremamente dannosi in un settore come questo dove la rapidità dell'intervento costituisce spesso elemento essenziale per la buona riuscita dell'operazione.

Accanto al sistema di finanziamento sopra delineato va poi ricordato che, per quanto concerne le c.d. missioni civili di gestione delle crisi internazionali, l'Accordo Interistituzionale tra il Parlamento Europeo, il Consiglio e la Commissione europea sul finanziamento della PESC annesso al Trattato, pone a carico del bilancio comunitario le spese per:

- missioni di osservazione ed organizzazione di elezioni;

- partecipazioni a processi di transizione democratica;

- inviati UE;

- prevenzione di conflitti/ processi di pace e sicurezza;

- assistenza finanziaria a processi di disarmo;

- contributi a conferenze internazionali;

- missioni di assistenza umanitaria.

Questo sistema di finanziamento a doppio binario, comunitario per le operazioni civili di peace-keeping, e nazionale, per le spese connesse ad operazioni militari di mantenimento della pace, pone  problemi di coordinamento e crea incertezze soprattutto in quei casi in cui i confini tra  missione civile o militare sono difficili da tracciare (si pensi ad esempio a missioni umanitarie per la cui attuazione siano necessari dispiegamento di forze militari per garantirne l'operatività).

E' pertanto auspicabile che in sede di futura revisione dei trattati vengano precisati meglio i contorni dei due sistemi ovvero, qualora, sia possibile raggiungere un accordo in tal senso, si proceda alla costituzione di un unico fondo comunitario cui attingere per tutte le missioni di peace-keeping senza distinguere tra operazioni militari e  non.

 

9. Conclusioni

 

Esaurito l'esame dei vari aspetti delle missioni di pace nel sistema comunitario rimane ora lo spazio per alcune considerazioni finali soprattutto con riguardo ai nuovi orientamenti emersi a Colonia ed Helsinki.

L’introduzione nel sistema comunitario di una prima regolamentazione delle operazioni di “peace-keeping” operata dal Trattato di Amsterdam, pur con tutte le sue limitazioni, costituisce indubbiamente un’importante innovazione sulla via della definizione di una politica europea comune in materia di difesa. Intanto ha il merito di aver individuato la sede competente in Europa a trattare in questa materia nella quale si era registrato un forte deficit decisionale a livello comunitario. L’aver disegnato un quadro di procedure condivise da tutti gli S.M. e l’aver chiarito, per quanto possibile, i ruoli e le responsabilità tra UE e UEO, affidando alla prima la direzione politica ed alla seconda quella strategico-militare delle operazioni, ha contribuito  a far chiarezza. Questo è quanto più importante se si pensa alla complessità dei meccanismi che normalmente regolano l’architettura comunitaria.

L’aspetto tuttavia più significativo dell’innovazione, come si è già avuto modo di sottolineare in precedenza, è quello di aver assegnato alla Comunità, seppur limitatamente alla gestione delle crisi internazionali, un ruolo di “stabilizzatore regionale” con compiti impegnativi sulla scena internazionale a fianco di altre grandi potenze, come gli Stati Uniti d’America, che già da tempo giocano tale ruolo.

Accanto a queste valutazioni positive, occorre però segnalare che l’attuale normativa comunitaria sul “peace-keeping” presta il fianco anche a critiche.

La regolamentazione è debole innanzi tutto sotto il profilo decisionale perché, se è vero che sono stati chiariti efficacemente i ruoli tra UE ed UEO, la procedura di approvazione delle missioni implica un andirivieni del progetto di decisione tra gli organi dell’una e dell’altra organizzazione (le c.d. “navette”) con spreco di tempo prezioso che rischia di compromettere l’efficacia stessa dell’intervento pacificatore. Il problema verrà probabilmente risolto a breve se, come sembra, i compiti di Petersberg, attualmente affidati all’UEO, verranno integralmente trasfusi  nella struttura comunitaria. La debolezza decisionale è, peraltro, dovuta allo stesso impianto intergovernativo del settore che richiede da un lato il raggiungimento di larghe intese tra gli S.M. e dall’altro rischia di tagliare fuori i Parlamenti nazionali ed il Parlamento Europeo con conseguente grave deficit democratico.

Altro elemento di instabilità del sistema è quello finanziario. L’esclusione dalla partecipazione del bilancio comunitario ai costi delle operazioni di “peace-keeping”, che sono addossati così interamente agli S.M. partecipanti, determina inevitabili ritardi nel reperimento dei fondi necessari e incertezza sull’entità effettiva delle risorse disponibili.

Rimane ora da affrontare il discorso relativo ai profili evolutivi della materia emersi nei recenti vertici europei di Colonia ed Helsinki ed in particolare la questione inerente al futuro dell’UEO.

In questi due ultimi vertici sono state infatti assunte decisioni molto importanti che hanno determinato il passaggio dalla fase normativa a quella operativa attraverso la creazione di nuovi organi politico-militare, la regolamentazione dei rapporti con la NATO e l’individuazione dei caratteri del nuovo esercito comunitario. L’aspetto più interessante che ha già sollevato molte discussioni in dottrina, che riguarda indirettamente anche il peace-keeping europeo, attiene in realtà al destino dell’unica organizzazione europea di difesa e cioè l’UEO. In base infatti agli orientamenti che sono emersi nei due sopra indicati vertici, pare che gli S.M. siano intenzionati a lasciar decadere il trattato dell’UEO, che scade naturalmente entro il 2004, rinunciando all’inserimento integrale delle sue competenze in ambito comunitario, così come previsto nel trattato di Amsterdam, e a procedere, invece, all’inserimento selettivo, limitato ai c.d. “compiti di Petersberg” nell’UE. L’intenzione di procedere all’abolizione dell’UEO emerge chiaramente già dalla dichiarazione finale del vertice di Colonia  del 4 giugno 1999 in cui si legge testualmente: “Siamo adesso determinati a compiere un nuovo passo nella costruzione dell’Unione Europea. A tal fine incarichiamo il Consiglio “Affari Generali” di preparare i presupposti e le misure necessarie per raggiungere questi obiettivi, compresa la definizione delle modalità per l’inclusione nell’Unione di quelle funzioni dell’UEO che saranno necessarie all’UE per far fronte alle sue nuove responsabilità nell’ambito dei compiti di Petersberg. …… In tale circostanza, l’UEO in quanto organizzazione avrebbe esaurito il suo scopo. Ciò non recherà pregiudizio alle diverse posizioni degli Stati membri rispetto alle garanzie di difesa collettiva. L’Alleanza resta il fondamento della difesa collettiva dei suoi Stati membri”. Tale orientamento, anche se non viene espresso in termini così chiari, è deducibile anche dal successivo vertice di Helsinki dove sebbene si sia decisa la creazione di un contingente armato entro il 2003 poi rinviato al 2004, l’UEO non viene neppure nominato. Ed è proprio la scelta di rinviare la formazione della nuova “Armata Europea”, che avrebbe potuto essere costituita anche immediatamente con l’utilizzo delle forze multinazionale oggi riunite sotto l’egida dell’UEO, che viene interpretato come segno che i quindici vogliano attendere  la fine naturale dell’UEO prima di dare il via al nuovo strumento esecutivo.

Questa soluzione si presta a due letture. Da un primo punto di vista si potrebbe osservare che  limitare l’integrazione europea nel settore della difesa alla gestione delle situazioni di crisi, potrebbe comportare dei significativi benefici sulla via della realizzazione spedita delle strutture anche militari necessarie per rendere operativo il peace-keeping. Tuttavia da più parti si sottolinea, invece, che questa scelta sia in realtà assai miope in quanto determina la rinuncia dell’Europa a dotarsi di un sistema di difesa europeo comune e la rigetta, per così dire, sotto il controllo NATO e conseguentemente sotto il protettorato degli Stati Uniti d’America[15].

Decisioni definitive in realtà non sono ancora state prese e quel che è certo è che l’Europa dovrà valutare molto attentamente le sue scelte in questo campo per evitare di compromettere la sua futura autonomia sul piano internazionale.


[1] E’ soprattutto questa variabile che ha messo più seriamente in pericolo la pace e la sicurezza eupea creando situazioni di emergenza umanitaria tali da spingere i paesi dell’Unione (con la collaborazione degli USA) ad intervenire nelle diverse zone di crisi non solo in modo pacifico ma (si pensi al recente caso del Kosovo) anche con l’uso delle armi.

[2] Da cui nasce la terminologia "operazioni di Petersberg" per intendere operazioni di mantenimento della pace.

[3] Quello del consenso dello stato ospitante è un problema che vale la pena approfondire brevemente.  La gestione dell’assistenza umanitaria costituisce un tipico caso di “affare interno” (rientrante nella c.d. “domestic jurisdiction”) di cui gli Stati sono generalmente molto gelosi e preferiscono gestire in modo autonomo. Ne consegue che solo il consenso all’intervento da parte dello Stato ospitante può dare il via a missioni di soccorso umanitario da qualsivoglia organismo internazionale siano organizzate ed indipendentemente dal patrocinio o meno dell’ONU. Tale consenso può essere dato "una tantum ex ante" (ossia una volta per tutte prima che le situazioni di crisi richiedenti l'intervento umanitario si manifestino), "ad hoc ex post" (in questo caso il consenso viene dato in occasione della situazione di crisi e limitatamente ad essa)  oppure "ex post una tantum" (successivo cioè alla situazione di crisi ma una volta dato vale per tutte le situazioni successive nel quadro di un accordo generale di pacificazione come quelli conclusi per porre fine al conflitto in Bosnia-Erzegovina).

[4] Per un maggior approfondimento si veda Carlo Picone , "Il Peace-keeping nel mondo attuale: tra militarizzazione e amministrazione fiduciaria", RDI, 1996, pag. 17 e segg.

[5] Così Cannizzaro, Sull’attuazione di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza da parte di organizzazioni regionali, in RDI, 1993.

[6] Così Stefano Grassi, L’introduzione delle operazioni di peace-keeping nel trattato di Amsterdam, in la Comunità internazionale, 1998.

[7] Questo è a mio modesto parere un falso problema. Infatti, anche se l’UE fosse autorizzata dall’ONU all’uso della forza, non ha un esercito. Questo la costringerebbe o a ricorrere all’UEO che a sua volta non dispone di un esercito, o gli Stati membri dovrebbero mettere a disposizione dell’UE le loro forze, o ancora gli Stati membri stessi dovrebbero assumersi la responsabilità di un intervento armato.

[8] Nelle FAWEU rientrano: l’ Eurocorpo, la Multinational Division, l’Euromarfor, l’Eurofor e infine la forza anfibia anglo-olandese.

[9] Decisione 98/574/PESC del Consiglio del 22 Settembre 1998 adottata in base all’art. J.4.2 del TUE.

[10] Decisione 98/628/PESC del Consiglio del 9 Novembre 1998 adottata in base all’art. J.4.2  del TUE.

[11] Decisione 98/646/PESC del Consiglio del 13 Novembre 1998 adottata in base all’art. J.4.2 del TUE.

[12] "settore in cui maggiormente urge una capacità di agire europea e che costituisce elemento della graduale definizione di una politica comune di difesa" secondo le testuali parole riportate nella relazione della Presidenza sul rafforzamento della politica europea comune in materia di sicurezza e di difesa allegata ed approvata alla dichiarazione finale del Consiglio europeo di Colonia.

[13] Tali organi, come risulta dalle conclusioni al Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000, sono già stati istituiti e stanno cominciando a funzionare efficacemente. Essi sono costituiti da:

a) un comitato permanente politico e di sicurezza ad interim a livello di Alti funzionari/Ambasciatori volto a portare avanti, sotto la guida del Comitato politico, l'impulso dato dal Consiglio Europeo di Helsinki, attraverso raccomandazioni sul futuro funzionamento della PECSD e la gestione corrente delle questioni PESC in stretto contatto con il Segretariato generale/Alto rappresentante;

b) un organo ad interim di rappresentanti militari dei Capi di Stato maggiore della difesa degli Stati membri con compiti di consulenza militare al comitato politico e di sicurezza ad interim;

c) il Segretariato generale del Consiglio verrà rafforzato da esperti militari distaccati dagli Stati membri che forniranno assistenza nei lavori in materia di PECSD e costituiranno il nucleo del futuro Stato Maggiore.

E' previsto, inoltre, che in questa fase transitoria un importante ruolo verrà rivestito dal Segretario generale/Alto rappresentante il quale dovrà assistere il Consiglio nel rendere efficace e coerente la PESC e nello sviluppare la politica comune in materia di sicurezza e di difesa. Esso inoltre dovrà contribuire alla formulazione, preparazione ed attuazione delle decisioni politiche. In queste attività il Segretario generale potrà avvalersi a pieno titolo dei mezzi dell'UEO.

[14] In questo settore la Comunità ha cominciato con il censire le risorse disponibili da parte dei singoli S.M. e  dell'U.E.. Tale operazione ha posto in evidenza che sono tuttora già disponibili  congrui mezzi  per quanto riguarda la polizia civile, l'assistenza umanitaria, la riabilitazione amministrativa e giuridica, i servizi di ricerca e salvataggio, l'osservazione elettorale ed il monitoraggio della situazione dei diritti dell'uomo. Gli obiettivi futuri da realizzare sono dunque quello di completare tale attività di inventario in modo da avere un quadro della situazione quanto più aggiornato e quello di potenziare la capacità di risposta e l'efficacia degli strumenti e risorse impiegate in modo da intervenire rapidamente in caso di necessità. In tale prospettiva ad Helsinki è stata prevista la formazione 1) di un piano di azione nel quale dovranno essere definiti quadro e modalità di intervento ed individuati personale, mezzi e risorse finanziarie disponibili; 2) l'elaborazione di un inventario delle risorse nazionali e collettive disponibili;  e 3) la costituzione di una base dati per conservare e condividere le informazioni sui mezzi, capacità e conoscenze pre-individuate. E’ stata auspicata, infine, la individuazione di meccanismi di finanziamento rapido, quale un fondo di reazione rapida della Commissione, in modo da assicurare in caso di necessità, l'erogazione celere dei finanziamenti per operazioni autonome dell'U.E. oppure a titolo di contributo per quelle portate avanti da altre organizzazioni che operano in questo settore .

[15] Per un approfondimento su questo interessante tema si vedano i due articoli di Andrea Cagiati pubblicati recentemente sulla “Lettera diplomatica” (1° febbraio 2000 e 15 Aprile 2000) dal titolo il primo “Incerto avvenire dell’UEO”, ed il secondo “Recuperare la sostanza della CED”.