inserito in Diritto&Diritti nel gennaio 2002

Dallo status di rifugiato al diritto di asilo: la strada verso la comunitarizzazione della materia

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di Nataniele Gennari

 

INDICE

1) Alcune nozioni di base.

2) Il rapporto tra l’art. 10.3 CI e la legge n. 39/90 dopo la sentenza della Cassazione n. 4674/97.

3) L’ottica del disegno di legge n. 5381 della XIII legislatura e la sentenza 27/11/64 del Tribunale di Milano.

 4) Il “mero” diritto all’asilo politico: la sentenza 1/10/99 del Tribunale di Roma e la sentenza 8/10/99 della Corte di Cassazione.

5) Il titolo IV e l’art. 63 del Trattato di Amsterdam.

6) Il disegno di legge n. 795 della XIV legislatura e gli orientamenti dell’Unione europea in materia di asilo e migrazione.

 

 

1) Il diritto dei rifugiati occupa un’area specifica all’interno del diritto internazionale pubblico[1] ed è costituito da un complesso di norme i cui beneficiari sono, in linea di principio, coloro che fuggono dal proprio paese.[2] La fuga dal proprio paese è uno degli elementi costitutivi della fattispecie in oggetto ma come libera azione di per sé qualifica unicamente il rifugiato de facto[3]. Al contrario, essere considerati rifugiati sulla base del diritto internazionale significa soddisfare gli specifici requisiti di eleggibilità fissati dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 secondo cui questo termine si applicherà a chi: “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del paese di origine e non può o non vuole, per i motivi suddetti avvalersi della protezione di questo paese”. Quindi gli elementi costitutivi della fattispecie sono complessivamente tre: 1) fuga dal proprio paese; 2) fondato timore di persecuzione; 3) cause specifiche di persecuzione. Solo l’individuo che effettivamente verrà a trovarsi nella situazione così descritta, fatti salvi altri impedimenti, avrà accesso allo status di rifugiato.[4]

 Di fondamentale importanza sono anche altri tre articoli della stessa Convenzione. L’art. 31 che prevede la non punibilità dei rifugiati de facto per l’irregolarità della loro situazione nel paese di accoglimento purché senza indugio chiedano il riconoscimento dello status presentandosi alle autorità competenti. L’art. 32 in base al quale chi ha ottenuto lo status di rifugiato può essere espulso solo per motivi di sicurezza nazionale o ordine pubblico e ha diritto a una piena difesa. L’art. 33, il più importante, che sancisce il principio del non refoulement, cioè il divieto di espellere o respingere un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per i motivi di cui all’art.1.[5] Va infine precisato che la Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata in Italia con la Legge n. 772/54, per un lungo periodo è stata applicabile con le limitazioni temporali e geografiche (cioè per persecuzioni avvenute in Europa prima del 1951). In seguito alla ratifica del Protocollo di New York (1967) avvenuta con Legge n. 90/70 per l’Italia è venuta meno la limitazione temporale all’applicazione della Convenzione. Ma solo con la Legge n. 39/1990 (c.d. Legge Martelli ex d.l. 416/89 attuata con d.P.R. 136/90) è caduta anche la limitazione geografica e le disposizioni della Convenzione sono entrate a far parte senza riserve del nostro ordinamento.[6] Per dovere di completezza si precisa che in caso di diniego dello status di rifugiato da parte della Commissione centrale istituita presso il Ministero dell’Interno per il riconoscimento dello stesso, il richiedente si viene a ritrovare nuovamente in uno stato di irregolarità.[7] Il permesso di soggiorno provvisorio infatti, ottenuto sulla base della richiesta di riconoscimento dello status, viene ritirato in seguito al diniego dello stesso e il prefetto può immediatamente decretare l’espulsione dello straniero. Le possibilità che restano al richiedente rifugio che venga a trovarsi in tale situazione di espellibilità sono le seguenti: A) Richiesta di riesame presso la stessa Commissione centrale; B) Ricorso al tribunale in composizione monocratica contro il decreto di espulsione prefettizio entro cinque giorni dalla notifica dello stesso; C) Ricorso - non sospensivo - davanti giudice ordinario contro il mancato riconoscimento dello status di rifugiato.[8] Nel caso di ottenimento dello status  di rifugiato lo straniero ha invece diritto a restare in Italia con la possibilità di lavorare e studiare grazie a un permesso di soggiorno (rinnovabile) della durata di due anni. In pratica viene equiparato a un cittadino italiano tranne che per il diritto di voto e per il passaporto al posto del quale riceve un documento (titolo di viaggio) che gli consente di viaggiare in tutti i paesi, ma non nel suo di provenienza.[9]

 

2) Successivamente all’entrata in vigore della legge n. 39/90 una parte della giurisprudenza amministrativa ha interpretato la stessa come di attuazione dell’art. 10.3 CI e la definizione di “asilante” contenuta in questo articolo come sostanzialmente coincidente con la definizione di “rifugiato” ex art. 1 Convenzione di Ginevra.[10] Sembra invece che la definizione contenuta nell’art. 10.3 CI sia decisamente più ampia di quella di rifugiato e tale da comprenderla solo sul piano concettuale, perché nella pratica è manifesta la differente regolamentazione delle due fattispecie L’art. 10.3 CI definirebbe in altre parole una categoria più ampia di quella di rifugiato, ma diversa per contenuto, quindi di natura giuridica diversa.[11]

 La disposizione costituzionale infatti fa riferimento al diritto d’asilo riconosciuto a quanti si vedano impedito nel loro paese “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana”. In realtà già da tempo la dottrina parlava in riferimento all’asilo politico come di un diritto soggettivo costituzionalmente rilevante immediatamente azionabile in virtù della portata precettiva dell’art. 10.3 CI, anche se la questione era tutt’altro che pacifica.[12] Poi la Cassazione a sezioni unite trovandosi a decidere su un’eccezione di competenza giurisdizionale ha indirettamente fatto chiarezza sul punto. La sentenza n. 4674/97 della suprema Corte infatti recita: “[…] l’art. 10.3 CI attribuisce direttamente allo straniero il quale si trovi nella situazione descritta da tale norma un vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento […] il carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale sono da ricondurre al fatto che essa delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto d’asilo […]”. L’asilo come beneficio che dipende dalla volontà sovrana dello Stato, secondo la condivisibile ricostruzione della Cassazione va pertanto riconnesso ai seguenti requisiti: 1) impedimento dell’esercizio delle libertà democratiche; 2) effettività dell’impedimento.[13] La qualità di rifugiato è invece un status personale riconosciuto sulla base dei presupposti della Convenzione di Ginevra.

 La sentenza della Cassazione continua con un passaggio illuminante: “[…] la categoria dei rifugiati politici è meno ampia di quella degli aventi diritto all’asilo, in quanto la citata Convenzione di Ginevra prevede quale fattore determinante per la individuazione del rifugiato, se non la persecuzione in concreto, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato necessario dall’art. 10.3 CI […] In mancanza infatti di una legge di attuazione del precetto di cui all’art. 10.3 CI allo straniero il quale chiede il diritto d’asilo null’altro viene garantito se non l’ingresso nello Stato, mentre il rifugiato politico, ove riconosciuto tale, viene a godere in base alla Convenzione di Ginevra di uno status di particolare favore […]”.[14] La sentenza esclude quindi, a ragione, che la legge n. 39/90 contenga una normativa di attuazione dell’art. 10.3 CI  e che il rapporto tra le due norme sia incongruente. La prima infatti prevede per il rifugiato una soglia di accesso elevata a una tutela più intensa in virtù del verosimile rischio di persecuzione e dello stato di bisogno del perseguitato, la seconda invece una soglia di accesso più agevole a una tutela meno ampia, vista la non sussistenza di una verosimile persecuzione. La Cassazione conclude ribadendo a proposito dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra che: “[…] la norma in questione, infatti, non presuppone il godimento dello status di rifugiato ai fini della concessione del diritto di asilo, ma si limita a porre delle limitazioni alla possibilità di chiedere il riconoscimento di tale status (da parte di chi evidentemente non ne sia già in possesso), e disciplina la procedura da seguire per ottenere tale riconoscimento […] L’art 10.3 CI prevede invece un diritto soggettivo al quale non è applicabile la normativa che disciplina lo status di rifugiato e ne consegue che le controversie che riguardano il riconoscimento di tale diritto rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria”.

 

 

3) E’ interessante notare come il progetto di legge n. 5381 della XIII legislatura, tentasse di conciliare le due figure garantendo il diritto di asilo sia al rifugiato ex art. 1 convenzione di Ginevra che all’asilante ex art. 10.3.[15] L’intento, rimasto però disatteso per la mancata approvazione del disegno, era probabilmente quello di semplificare la procedura per il riconoscimento di una nuova categoria di rifugiati ex lege, uniforme quanto a regolamentazione e più estesa quanto a contenuto, evitando la quantomeno teorica duplicazione dei meccanismi di garanzia, visto che chi non ottiene lo status ben potrebbe soddisfare i requisiti ex art. 10.3 CI.[16] In realtà già da tempo una parte della giurisprudenza criticava le prassi in auge presso la magistratura amministrativa, spingendo per l’immediata applicabilità dell’art. 10.3 CI. In questo senso la sentenza 27/11/1964 della Corte d’Appello di Milano sebbene risalente è ancora attuale e per certi versi anticipatrice dei nuovi orientamenti: “ […] Trattandosi di disposizione avente forza cogente di immediata applicazione, come esattamente la più recente dottrina ha posto in luce, l’art.10.3 CI contiene una disciplina completa dell’istituto nella parte sostanziale ponendo precisi limiti ai poteri del legislatore ordinario […] La passività del legislatore ordinario che sino ad oggi ha trascurato di provvedere a disciplinare dettagliatamente, nei limiti segnati dalla Cost., il diritto d’asilo, non può essere d’ostacolo alla forza cogente della norma di cui all’art. 3 comma dell’art. 10 CI. Sembra opportuno chiarire che lo status personale di rifugiato ai termini degli art. 1-2 della Convenzione di Ginevra, concettualmente si identifica solo parzialmente con quella di straniero avente diritto di asilo nel territorio della repubblica in virtù della precitata disposizione costituzionale”. Malauguratamente l’inerzia legislativa poc’anzi lamentata ha fatto sì che nella prassi amministrativa italiana le due categorie abbiano finito col confondersi […]”. La sentenza insomma avvalora la tesi che la nozione di asilante sempre comprenda quella di rifugiato, e quindi, chi è riconosciuto rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra avrebbe comunque diritto a essere considerato asilante ex art. 10.3 CI. La prospettiva aperta dalla sentenza precorre i tempi di un trentennio: “[…] Ad avviso della Corte, il diritto di asilo nell’ordinamento giuridico italiano integra un vero e proprio diritto soggettivo, azionabile e invocabile innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria la quale è competente a pronunciarsi sulla sussistenza di tale diritto che esclude un potere discrezionale della P.A. di agire, secondo il proprio insindacabile apprezzamento, con provvedimento non motivato.” Sulla base della sentenza citata  sembra infatti che, almeno in teoria, una volta che l’accertamento dello status di rifugiato avesse avuto esito negativo, questo fatto non dovesse e non potesse ostare all’accertamento (sussidiario) della qualità di asilante. Essendo la nozione di asilante più ampia di quella di rifugiato è plausibile che chi non venga ammesso nella seconda categoria, possa però rientrare nella prima e che perciò l’autorità amministrativa italiana - la Commissione centrale in prima istanza e in seconda istanza il Tar[17]- sarebbe tenuta a prendere in considerazione l’art. 10.3. La giurisprudenza amministrativa invece considera lo status di rifugiato e quello di asilante cose diverse tra loro solo al fine di impedire l’utilizzazione dell’art. 10.3 CI quale parametro di legittimità nel caso di ricorso contro il diniego del primo interpretando riduttivamente la disposizione costituzionale; ma la scelta appare quantomeno arbitraria: “non rileva, ai fini della legittimità dei provvedimenti circa lo status di rifugiato, disciplinato oltre che dalla l. 39/90, dalle Convenzioni internazionali, l’art. 10.3 CI relativo a una situazione diversa quale è il diritto di asilo”.[18]

 

 

4) Una parte della giurisprudenza amministrativa continua a decidere sui ricorsi contro i dinieghi  dello status di rifugiato da parte della Commissione Centrale unicamente sulla base dell’art. 1 Conv. di Ginevra e ignorando del tutto la portata precettiva dell’art. 10.3 CI.[19] Ma la distinzione fatta dalla sentenza n. 4674/97 non è stato ignorata e a breve distanza di tempo si sono aggiunte altre due pronunce perfettamente in linea con la stessa.

 La prima è quella del Tribunale di Roma del 01/10/99[20] che riconosce, con una decisione senza precedenti, il “mero” diritto costituzionale di asilo ex art. 10.3 CI e consolida sotto il profilo sostanziale e applicativo il principio enucleato dalla sentenza n. 4674/97. La seconda è quella della Cassazione a Sezioni Unite Civili 08/10/99[21] che definisce con chiarezza sotto il profilo procedurale la competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria procedurale in caso di controversia riguardante il riconoscimento sia del diritto d’asilo che della qualifica di rifugiato. Il ragionamento effettuato dalla Corte di Cassazione merita di essere menzionato: “ La disposizione dell’art. 5 del d.l. n.416/89 convertito con modificazioni nella legge n. 39/90, che attribuiva al giudice amministrativo la decisione dell’impugnazione del provvedimento di diniego dello status di rifugiato, è stata abrogata, ancora prima dell’adozione del provvedimento impugnato e quindi della proposizione del ricorso innanzi al TAR del Lazio. Trattasi di abrogazione espressa, contenuta nell’art. 46 della legge n.40/98 e confermata dall’art. 47 del Testo Unico di cui al d.lgs. n. 286/98 […] La qualifica di rifugiato politico, secondo le previsioni della Convenzione di Ginevra del 1951, che garantisce a ogni rifugiato il libero e facile accesso ai Tribunali nel territorio degli Stati contraenti, con conseguente sostanziale parificazione del rifugiato al cittadino ai fini della delibazione relativa alla sussistenza della giurisdizione, costituisce, come quella di avente diritto all’asilo – dalla quale si distingue perché richiede, quale fattore determinante, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato necessario dall’art. 10.3 CI – uno status, un diritto soggettivo (situazione giuridica soggettiva, melius) con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dagli organi competenti in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, per cui le controversie riguardanti il riconoscimento del diritto di asilo o la posizione di rifugiato rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria […]”. Le implicazioni di quest’ultima decisione, potrebbero essere notevoli perché negando la competenza del TAR a decidere sui ricorsi contro le decisioni della Commissione centrale non solo si ripristina l’integrità di un precetto costituzionale disatteso dall’art. 5 legge 39/90, ma si consente anche un controllo sul merito da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria il cui sindacato deve ritenersi, vista la materia, maggiormente consapevole perché del tutto esterno alla autorità che ha emanato l’atto. Nel nuovo sistema è stato mantenuto il sindacato della giurisdizione amministrativa (TAR del Lazio) in relazione alla valutazione della sola legittimità dell’espulsione disposta dal Ministro dell’Interno per ragioni di ordine pubblico o sicurezza.[22] Il contesto è tale da profilare l’apertura da parte degli operatori giuridici all’art. 10.3 CI, quale criterio utilizzabile per la valutazione del riconoscimento dello status di rifugiato, e alla configurazione di un ricorso, contro il diniego dello stesso che sia sospensivo e quindi impedisca l’emanazione del decreto prefettizio di espulsione (come prevedeva l’art. 10 del DDL 5381 XIII legislatura). Per cui lo spiraglio aperto dalla sentenza 4674/97 in considerazione delle possibili evoluzioni potrebbe portarci molto avanti fino alla realizzazione di quello che una parte della giurisprudenza era considerato inevitabile già da molto tempo. Dichiarando infatti competente lo stesso giudice sia in caso di controversia sul riconoscimento dello status di rifugiato che sul diritto di asilo la Cassazione ribadisce, di fatto, l’esistenza di due distinti tipi di tutela, che si pongono però tra loro in rapporto genus - species, come lasciava intendere la citata sentenza del  27/11/1964 della Corte d’Appello di Milano.

 

 

5) La mancata approvazione del disegno di legge n. 5381 fa sì che l’Italia continui a essere l’unico paese europeo sprovvisto di una legge sul diritto di asilo. Il persistere di tale situazione rende opportuna una panoramica sulle politiche intraprese a livello di Unione europea che permetta di comprendere verso quale direzione l’Italia dovrebbe muoversi. L’indirizzo politico generale europeo nei confronti dei cittadini provenienti da Stati terzi è quello di promuovere il binomio integrazione – immigrazione, nel rispetto delle differenze culturali e sociali di una società pluralista. L’Unione europea si è impegnata infatti a raggiungere attraverso importanti modifiche ai Trattati istitutivi una politica comune nei campi dell’immigrazione e dell’asilo al termine di cinque anni dalla entrata in vigore del Trattato di Amsterdam.[23] Quest’ultimo ha introdotto nel Trattato CE un nuovo Titolo (Titolo IV, art. 61-69) che conferisce alla Comunità competenza a adottare misure in materia di visto,  asilo e immigrazione e nelle altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone, “comunitarizzando” così un settore fino a allora unicamente oggetto di cooperazione intergovernativa all’interno del c.d. terzo pilastro GAI (Giustizia e Affari Interni).[24] In particolare l’art. 63 del Titolo IV, attribuisce alla Comunità la competenza in materia di asilo “a norma della Convenzione di Ginevra del 1951 del relativo protocollo del 1967, nonché degli altri trattati pertinenti”. Il riferimento alla Convenzione di Ginevra lascia intendere che dovrebbe essere accolta dalla Comunità la nozione di rifugiato in essa contenuta, anche se sarebbe auspicabile l’elaborazione di un’interpretazione più ampia di quella posta dalla Convenzione la cui definizione di rifugiato appare oggi per certi aspetti superata.[25] Il Trattato di Amsterdam è stato anche l’occasione per riportare parzialmente in ambito comunitario, con apposito protocollo allegato al Trattato CE e UE, il c.d. acquis di Schengen[26] di cui le norme della Convenzione di Dublino, entrata in vigore in 01/11/97, hanno estinto le disposizioni aventi il medesimo oggetto sostituendone il Capitolo VII del Titolo II.

 L’obiettivo perseguito resta in definitiva quello di creare in Europa quello spazio di libertà, sicurezza e giustizia sulla base delle strategie poste durante il Vertice del Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 1999) che si concludeva sottolineando una precisa necessità: “la libertà, che comprende il diritto alla libera circolazione in tutta l’Unione, deve essere goduta in condizioni di sicurezza e di giustizia accessibili a tutti e sarebbe contrario alle tradizioni europee negare tale libertà a coloro che sono stati legittimamente indotti dalle circostanze a cercare accesso nel nostro territorio”. Il riferimento ai rifugiati de facto è implicito, ma inequivocabile. E’assurdo infatti che per chi sia costretto a fuggire dal proprio paese valicare i confini di un’Europa unita costituisca una svantaggio più di quanto non lo fosse stato se avesse acceduto a un’Europa disaggregata. In altre parole nello spazio comune europeo, la riduzione delle possibilità aperte al richiedente dalla Convenzione di Ginevra, in seguito alla stipula della Convenzione di Dublino che impone al richiedente rifugio di presentare la domanda nel paese di primo ingresso, dovrebbe essere compensata dall’adozione di criteri interpretativi che gli assicurino la medesima tutela alla quale egli avrebbe avuto titolo in virtù della Convenzione in assenza del processo di armonizzazione.[27] 

 Da ultimo estrapoliamo alcune parti tratte dall’aggiornamento semestrale del quadro di controllo per l’esame dei progressi compiuti nella creazione di uno spazio di “libertà, sicurezza e giustizia” nell’Unione europea, redatto in preparazione del Vertice di Laeken previsto per il dicembre 2001. Dal punto di vista della valutazione complessiva il messaggio che il quadro di controllo vuole inviare al Consiglio europeo è in generale positivo, ma nello specifico si sottolinea che: “Più deludente è stato il mancato rispetto delle scadenze fissate a Tampere per taluni settori legislativi […] I settori dell’immigrazione e dell’asilo offrono un evidente esempio di tale fenomeno. La decisione adottata a Amsterdam di trasferire tali questioni dal terzo al primo pilastro del trattato intendeva in parte consentire a tali settori di beneficiare di un processo decisionale comunitario più dinamico che prevede anche il pieno coinvolgimento del Parlamento europeo e della Corte di Giustizia. […] Sfortunatamente ciò non si è ancora avverato. Certamente si può riferire di alcuni sviluppi positivi, quali a esempio la creazione del Fondo europeo per i rifugiati, l’adozione della direttiva sulla protezione temporanea e l’istituzione del sistema Eurodac.[28] Nondimeno, le discussioni al Consiglio su diverse altre proposte indicano il persistere del fenomeno ben noto per cui uno o più Stati membri sono restii a voler adattare la loro politica nazionale al fine di permettere il conseguimento di un accordo su una politica comune: tutto ciò ricorda ancora i tempi pre-Amsterdam. In un settore in cui quasi tutele decisioni sono ancora adottate all’unanimità, manca una effettiva pressione a fare concessioni fondamentali […]”. L’invito della Commissione  ai Capi di Stato e di Governo è pertanto quello di riflettere attentamente sul grado di utilizzo delle possibilità offerte dai trattati esistenti, su come sia possibile avvalersi dei miglioramenti offerti dal trattato di Nizza, e quali modifiche istituzionali e decisionali si rendono necessarie per il futuro trattato, compresa la possibilità di eliminare la regola del voto all’unanimità in taluni settori bloccati. 

Quanto all’asilo, sono state già trasmesse al Consiglio tutte le proposte legislative necessarie ai fini dell'attuazione della prima fase, riguardanti rispettivamente la definizione di norme minime applicabili alle procedure in materia di asilo e le condizioni d'accoglienza dei richiedenti asilo, la determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo, la definizione della nozione di rifugiato e il ravvicinamento delle forme sussidiarie di protezione.[29] Inoltre, la Commissione ha presentato nel novembre 2000 una comunicazione nella quale propone al contempo degli obiettivi, delle opzioni e una metodologia per la transizione alla seconda fase del regime europeo comune in materia d'asilo, caratterizzata dall'introduzione di una procedura comune e di uno status uniforme. Per quanto riguarda l'immigrazione, la Commissione ha illustrato nella comunicazione del novembre 2000 il metodo che essa propone per contribuire allo sviluppo di una politica comune. Tale metodo prevede, da un lato, l’attuazione di un quadro normativo inteso a stabilire le condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi e, dall'altro, un meccanismo di coordinamento aperto volto a promuovere una graduale convergenza delle politiche attuate dagli Stati membri. Sono già state trasmesse al Consiglio le necessarie iniziative legislative relative al ricongiungimento famigliare, al diritto dei cittadini di paesi terzi residenti di lunga data ed all'ammissione nel territorio degli Stati membri per svolgervi attività lavorativa. Il Consiglio ha già adottato delle misure di lotta contro la discriminazione proposte dalla Commissione e ha assicurato che il tema della lotta contro l'esclusione sociale sarà discusso nell’ambito dell’Agenda sociale europea.[30]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6) Il quadro europeo appare proteso a migliorare l’accesso al diritto di asilo e la regolamentazione dello stesso. Lo scopo è quello di far sì che, in materia, le procedure istituite all’interno di ogni paese siano chiare e efficaci. In questo modo sarebbe garantito infatti, ai richiedenti asilo, uno standard minimo di equa tutela in tutta l’Unione e, ai cittadini europei, la protezione dalla immigrazione clandestina legata alla criminalità. Una gestione dei flussi della c.d. immigrazione economica volta a favorire un loro incoraggiamento completerebbe un sistema di circolazione delle persone all’interno dell’Ue socialmente sicuro e economicamente vantaggioso. Il Commissario europeo per la Giustizia e gli Affari Interni ha recentemente ricordato che l’Europa necessita di immigranti e che gli ingressi umanitari e quelli economici devono costituire, insieme, un flusso migratorio equilibrato.[31] L’immigrazione illegale va quindi combattuta, da un lato, favorendo e legalizzando quella economica, dall’altro, mantenendo l’obbligo per gli Stati membri di aiutare coloro che hanno veramente bisogno di protezione internazionale. L’azione contro l’immigrazione illegale che non si risolva in una irrazionale chiusura delle frontiere esterne ma sia volta a prevenire lo sfruttamento abusivo del regime d’asilo, svolge un ruolo fondamentale perché contribuisce a agevolare l’accettazione da parte dei consociati dell’ammissione di rifugiati per ragioni umanitarie.  Una lotta contro l’immigrazione illegale condotta con sensibilità e equilibrio non esclude pertanto che gli Stati membri consentano la presentazione di un numero più elevato di domande di asilo.[32]

 Rispetto al quadro europeo le disposizioni contenute nel nuovo disegno di legge italiano in materia di immigrazione presentato dal Governo della XIV legislatura (Atto Senato n. 795) appaiono in linea con l’intento di razionalizzare il flusso dei lavoratori non comunitari.[33] Dal Capo II del DDL però scompare ogni tentativo di definire meglio i diritti del richiedente asilo e l’accesso alle procedure, mentre il concetto di “standard minimo di tutela” viene arbitrariamente interpretato come “minor tutela possibile”. Rimane soltanto la previsione di una procedura semplificata o, per meglio dire, semplificante. Si prevede (art. 24) il rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo valido fino alla definizione della procedura di riconoscimento (come è  disposto dalla normativa attualmente in vigore in armonia con le norme internazionali)[34] che nella pratica non viene concesso mai. Infatti il trattenimento negli inumani centri di permanenza temporanea per un massimo di 30 giorni diventa praticamente la regola che appare oltretutto costituzionalmente illegittima nel momento in cui prevede che l’allontanamento non autorizzato costituisca rinuncia alla domanda (art. 25.1ter.4).[35] Tale procedura prevede che le domande presentate siano esaminate dalla Commissione territoriale competente (diretta e coordinate alle altre dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo) composta da un funzionario della polizia di Stato, un rappresentante dell’ente territoriale, un membro dell’ACNUR  e un funzionario della prefettura, che la presiede. Il diritto a opporsi al rigetto della domanda di asilo è sostanzialmente impedito perché il decreto di espulsione, conseguenza del mancato riconoscimento dello status, deve essere eseguito sempre tramite accompagnamento coattivo alla frontiera (art. 11) e il ricorso al tribunale in composizione monocratica non è sospensivo (come invece prevedeva il vecchio disegno di legge n. 5381) salvo che il prefetto, praticamente la stessa autorità che gli ha già negato il riconoscimento dello status, non gli consenta di attendere l’esito del ricorso. Infine l’art. 10.3 della Costituzione e la sua portata precettiva sembrano completamente dimenticati così come anche i suggerimenti della dottrina che auspicava, in sede di riforma della normativa sull’asilo, l’unificazione delle competenze e l’attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione per tutte le situazioni soggettive dei rifugiati, prevedendo un procedimento di volontaria giurisdizione davanti al tribunale, con l’esclusione quindi della Commissione centrale. Sarebbe questo un modo per aumentare il numero delle sedi territorialmente competenti, rispetto all’unica Commissione centrale articolata in tre sezioni, tutelando, di conseguenza, in maniera più rapida e efficace i diritti del richiedente asilo.[36]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] Insieme delle norme giuridiche che regolano le relazioni tra gli Stati e tra questi e gli altri soggetti della Comunità Internazionale.

[2] Questi sono altresì protetti dal diritto internazionale umanitario (l’insieme dalle regole che in tempo di conflitto armato proteggono le persone che non prendono parte alle ostilità, ponendo dei limiti all’impiego di mezzi e metodi di guerra) se si tratta di vittime di un conflitto armato che si trovano in potere della parte avversaria o travolti dalle ostilità nel paese di accoglienza.

[3] Così denominati dalla Raccomandazione n. 773 del 1976 adottata dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Il preambolo della raccomandazione recita: « L’assemblée, considérant que les Etats membres du Conseil de L’Europe comptent un nombre important de personnes non reconnues comme réfugiés au sens de l’article 1 de la Convention du 28 juillet 1951 relative au statut des réfugiés, amendée par le Protocole du 31 janvier 1967, et qui pour des motifs d’ordre politique, racial, religieux ou pour d’autres raisons valables, ne peuvent ou ne veulent pas retourner dans leur pays d’origine (réfugiés de facto)… ». Tra i rifugiati de facto andrebbero inclusi anche i c.d. rifugiati in orbita (coloro che dopo aver ottenuto rifugio temporaneo presso un dato paese ricercano asilo in un altro Stato che ne rifiuta l’ammissione nel proprio territorio rinviandoli al paese di primo asilo) e coloro che hanno ottenuto un permesso di soggiorno umanitario.

[4] Fuga civitatis, fumus boni vexationis, causa vexationis.

[5] L’art. 19.1 D. Lgs. 286/98 (TU sull’immigrazione) ribadisce il principio convenzionale: “In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. 

[6] Recita infatti l’art. 1 della Legge 39/90: “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto cessano nell’ordinamento interno gli effetti della dichiarazione di limitazione geografica e delle riserve di cui agli art. 17 e 18 della Convenzione di Ginevra del 28/07/51, ratificata con legge 24/07/54, poste dall’Italia all’atto della sottoscrizione della Convenzione stessa”.

[7] Quanto alla nomina della Commissione centrale l’art. 2 del D.P.R.  n. 136/90 prevede: “La Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato è nominata con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta congiunta dei Ministri dell’interno e degli affari esteri. Essa è presieduta da un prefetto ed è composta da un funzionario dirigente in servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, da un funzionario del Ministero degli affari esteri con qualifica non inferiore a consigliere di delegazione, da due funzionari del Ministero dell’interno, di cui uno appartenente al dipartimento di pubblica sicurezza e uno alla Direzione generale dei servizi civili, con qualifica non inferiore a primo dirigente o equiparata. Alle riunioni della Commissione partecipa, con funzioni consultive, un rappresentante del Delegato in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati”.  

[8] La normativa così applicabile è desunta dal combinato disposto dell’art. 1 L. 39/90 e degli art. 13 e 47 D. Lgs. n. 286/98 (che abroga l’art. 5 della Legge 39/90; per il ragionamento sul punto v. sentenza Cassazione a Sezioni Unite Civili 8/10/99 e la sentenza Cass. sez. I, 9.2.1999 n. 1082). Il ricorso al TAR del Lazio permane solo contro il decreto di espulsione emanato ai sensi dell’art. 13.1 del D. legs. n. 286/98 (espulsine dello straniero da parte del Ministro dell’Interno per motivi di ordine pubblico e sicurezza).

[9]  Fino alla pronuncia della Commissione Centrale il richiedente asilo ha invece diritto: 1) all’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale per la stessa durata del permesso di soggiorno provvisorio; 2) all’iscrizione scolastica per i figli minori; 3) al contributo di prima assistenza pari a £ 34.000 per 45 giorni per ogni membro della famiglia, se non ha mezzi di sussistenza e se non è alloggiato in un centro di accoglienza; 4) alla libertà di circolazione solo sul territorio italiano con l’obbligo di comunicare alla Questura il cambiamento di indirizzo.

[10] Cfr. Sentenza del TAR del Lazio del 12/02/92.

[11] Cfr. E. Cannizzaro, in Rivista di Diritto Internazionale, n. 1/2000, p. 157-159.

[12] Cfr. L Paladin, Diritto Costituzionale, Cedam, Padova, 1994, p. 620. 

[13]  Il primo requisito quindi è la causa di giustificazione del diritto, il secondo il criterio di accertamento della situazione ipotizzata. L’art. 10.3 CI recita: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le disposizioni stabilite dalla legge”.

[14] Chi si vede riconosciuto lo status di rifugiato ha delle garanzie in tema di trattamento assicurate dalla normativa convenzionale che sono precluse all’asilante ex art. 10.3 CI. In proposito con un corretto approccio ermeneutico il TAR del Friuli Venezia Giulia nella sentenza del 18/12/91 specifica: “Va però rilevato che lo status di rifugiato assicura particolari benefici a chi lo ottenga, laddove il diritto di asilo, ancorché non definito da una legge, presenta un contenuto tendenzialmente minore, al minimo cioè il diritto a permanere nel Paese e cioè di non essere espulso” e così in quella del 19/02/92: “l’art. 10.3 dal contenuto immediatamente precettivo condiziona l’ottenimento al diritto d’asilo (inteso quale diritto a permanere nel Paese senza però godere dei benefici di chi possiede lo status di rifugiato) alla mancanza di libertà democratiche nel paese di provenienza”.    

[15] Anche se introducendo arbitrariamente il requisito della “restrizione grave della libertà personale” per l’asilante ex art. 10.3 CI, il disegno di legge 5381 non sembrava essere del tutto esente da vizi di incostituzionalità. La sentenza della Corte di appello di Roma sul caso Ocalan a proposito dell’art. 10.3 CI recita: “[…] la norma costituzionale pone certamente un divieto, ad esempio alla limitazione del beneficio agli appartenenti a determinati paesi; ovvero alla ottemperanza di condizioni formali da parte dell’asilante ovvero, ancora, alla previsione di requisiti e situazioni soggettive diverse ed ulteriori rispetto a quanto previsto dal dettato costituzionale […]”.

[16] Cfr. E. Cannizzaro, cit.

[17] Il Tribunale ordinario per i ricorsi contro il diniego dello status di rifugiato presentati dopo il 1998 in seguito all’abrogazione da parte della legge Turco dell’art. 5 della l. 39/90.

[18] Cfr. Sentenza 19/02/92 del TAR del Friuli Venezia Giulia.

[19] In proposito la sentenza del TAR del Piemonte sez. seconda 17/11/00 n.1169 afferma: “La semplice provenienza da uno Stato ove non siano garantite le libertà democratiche non è sufficiente a comprovare l’esistenza dei requisiti per il conseguimento del riconoscimento dello status di rifugiato, occorrendo invece un quid pluris, vale a dire almeno un minimo di attendibili elementi probatori – che solo il richiedente può essere in grado di fornire – in ordine alla situazione di pericolo per la libertà o incolumità personale direttamente riferibile al richiedente, dovuta a persecuzioni di carattere etnico, politico, o religioso”. In questo senso in dottrina, cfr. S. Mustilli, Diritto di asilo: ancora sull’interpretazione dell’art. 10.3 della Costituzione, www.ssai.net/.

[20] A. Ocalan contro Presidenza del Consiglio dei ministri e Ministero dell’Interno.

[21] Boyisele Kumayo Jean contro Ministero dell’Interno, Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato - intimati -.

[22] Vedi art. 13.11 Dlgs. 286/98 (T.U. sull’immigrazione).

[23] I Trattati istitutivi delle Comunità sono tre CECA (1951), CE e CEEA (1957) e formano il c.d. primo “pilastro”. Questi nel corso tempo hanno subito numerose modifiche da parte di ulteriori Trattati che hanno aumentato le competenze delle Comunità. In ordine cronologico: l’Atto unico europeo (adottato a Bruxelles il 28/02/86, in vigore dal 01/07/87), il Trattato sull’Unione europea (adottato a Maastricht il 07/02/92, in vigore dal 01/11/93), il Trattato di Amsterdam (adottato il 27/10/97, in vigore dal 01/05/99). Cfr. Gaja, Introduzione al Diritto Comunitario, Laterza, Bari, 2000, p. 4.  

[24] Il secondo e il terzo “pilastro” dell’UE vengono disciplinati dal diritto internazionale (sul quale la Corte di Giustizia come istituzione europea non è competente a giudicare) e la loro regolamentazione non fa parte del diritto comunitario, sebbene le istituzioni politiche dell’Unione svolgano un ruolo anche rispetto ai settori ricompresse in essi. All’interno del terzo pilastro restano, ad esempio, dopo Amsterdam la cooperazione in materia di polizia e la cooperazione giudiziaria in materia penale.

[25] Non sembra tuttavia che le disposizioni del Titolo IV possano, sulla base dei criteri accolti dalla Corte di Giustizia, essere ritenute idonee a produrre effetti diretti. Non sono enunciate infatti regole dal contenuto preciso, ma è soltanto indicato l’oggetto delle misure da adottare, per cui il raggiungimento di risultati concreti è condizionato dallo svolgimento di un’attività normativa da parte delle istituzioni. Al titolo IV inoltre non sono vincolati né il Regno Unito, né, l’Irlanda, né la Danimarca (c.d. applicazione differenziata). Cfr. A. Adinolfi,, in Diritto dell’Unione Europea, Giappichelli, Torino, 2000, p. 86.

[26] Volto a regolamentare la libera circolazione delle persone comprende: l’accordo di Schengen (1985) la sua Convenzione di applicazione (1990) e varie Convenzioni successive e atti integrativi adottati. I principi fondamentali sanciti da Schengen sono: 1) i cittadini degli Stati aderenti possono liberamente attraversare i confini di uno Stato membro senza dover sottostare a alcun controllo; 2) instaurazione di una collaborazione tra le forze di polizia degli Stati aderenti, che preveda la possibilità di inseguire un ricercato entro i confini di un altro Stato; 3) uno stretto coordinamento tra gli Stati per combattere fenomeni mafiosi, spaccio di droga, immigrazione clandestina e traffico di armi; 4) creazione di un sistema di collegamento telematico - SIS, Sistema di Informazione Schengen - per assicurare la rapida diffusione tra le forze di polizia degli Stati aderenti di informazioni riguardanti persone od oggetti sospetti. L’acquis (le cui materie sono state inserite, con decisione del Consiglio 436/99, in parte nel primo, in parte nel terzo pilastro) è valido solo tra i 13 Stati membri della Convenzione. Restano pertanto non vincolate all’acquis solo l’Irlanda e Gran Bretagna. Posizione particolare è quella della Danimarca che pur essendo parte della Convenzione di Schengen resta però libera di decidere se accettare o meno un atto posto in essere per sviluppare ulteriormente la normativa quando tale atto sia fondato sul Titolo IV del Trattato CE. Qualora la Danimarca decida di accettare un atto fondato sul Titolo IV, quest’ultimo creerà un vincolo a norma del diritto internazionale e non del diritto comunitario. Tale soluzione dipende verosimilmente dalla circostanza che la Danimarca non accettale disposizioni del Titolo IV.

[27] Infatti la possibilità di presentare contemporaneamente più domande di asilo in diversi Stati (consentita di fatto dalla Convenzione di Ginevra che pone l’obbligo di esaminare la domanda a ciascuno degli Stati contraenti) aumenta le probabilità che la domanda possa essere accolta Anche sulla base dell’art. 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo è stata posta in dubbio la compatibilità della Convenzione di Dublino con quella di Ginevra e quindi la circostanza che uno solo degli Stati contraenti esamini la domanda non potrebbe in ogni caso liberare tutti gli altri da suddetto obbligo. Cfr. E. Cannizzaro, in Rivista di Diritto Internazionale, n. 2/2001, p. 443.

[28] Sistema di raccolta e confronto delle impronte digitali di quanti hanno ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, agli effetti della applicazione della Convenzione di Dublino.

[29] Si tratta infatti di una materia a competenza concorrente perché la Comunità può adottare soltanto “norme minime”.

[30] Cfr. Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 30/10/2001.

[31] Cfr. António Vitorino, Hacia una política europea común de inmigración, Seminario internacional sobre la Armonización de la política europea de inmigración, Madrid, 03/12/2001.

[32] Cfr. Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 15/112001. Al punto 3.2 della Comunicazione si suggerisce infatti agli Stati membri di permettere che un numero maggiore di domande d’asilo sia presentato all’estero o nella regione d’origine agevolando l’arrivo di rifugiati nel territorio degli Stati membri nell’ambito di un programma di reinsediamento. Sarebbe così offerto un accesso rapido alla protezione e evitato il  rischio per i rifugiati di cadere vittime delle reti dedite all’immigrazione illegale e alla tratta di essere umani. 

[33] Si vedano gli art. 4, 5, 15 e 16 del DDL  n. 795.

[34] Gli obblighi di protezione verso i cittadini di paesi terzi per gli Stati membri discendono dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 3) e dalla Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato in particolare gli art. 33 e 31. Quest’ultimo recita: “Gli Stati contraenti non applicheranno sanzioni penali per ingresso o soggiorno irregolare a quei rifugiati che, provenienti dal Paese in cui la loro vita o la loro libertà era minacciata nel senso previsto dall’articolo 1, entrano o si trovano sul loro territorio senza autorizzazione, purché si presentino senza indugio alle autorità e espongano ragioni ritenute valide per il loro ingresso o la loro presenza irregolari”. Cfr. Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 15/112001.

[35] Una norma siffatta è quantomeno incongruente rispetto all’art. 13 CI. Cfr. Sentenza Corte Cost. 10/04/2001 n. 105

[36] Cfr. Giorgio Gaja, Diritti dei rifugiati e giurisdizione ordinaria, in Rivista di Diritto Internazionale, 1997, p.791.