inserito in Diritto&Diritti nel giugno 2003

Giustizia contrattuale e poteri del giudice

Domenico Russo

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1. Il significato originario del negozio giuridico: il ruolo del giudice in ordine al controllo ed alla integrazione degli effetti negoziali - 2. Segue. Il sistema del codice Pisanelli: il principio di eguaglianza formale dei contraenti. L’assenza di un generale controllo dell’affare privato - 3. Il sistema del codice attuale. Il ruolo del giudice nella determinazione degli effetti (o del contenuto) del contratto incompleto - 4. Segue. L’art. 1374. I tentativi dottrinali volti a modificare il rapporto tra i criteri integrativi - 5. Il nuovo diritto dei contratti. L’esplosione delle clausole generali. La buona fede e l’equità nei rapporti contrattuali

1.      Il significato originario del negozio giuridico: il ruolo del giudice in ordine al controllo ed all’integrazione degli effetti negoziali

Il principio della libertà del volere, portato del giusnaturalismo, conduce alla elaborazione di un concetto di negozio, e dunque di contratto, squisitamente soggettivistico. Il negozio è inizialmente concepito come volontà idonea alla produzione di effetti sul piano del diritto il quale riconosce ai contratti la natura di “affari privati”.

In tale ottica il ruolo dell’ordinamento, e dunque del giudice in ordine al controllo del contenuto negoziale ed alla integrazione della efficacia, non assumono una particolare rilevanza. Il contratto, come la legge, appare fenomeno insuscettibile di lacune: si afferma il principio dell'autointegrazione, corollario del dogma della completezza del voluto.

Il principio d’indifferenza dell’ordine positivo in ordine ai problemi della disuguaglianza di fatto tra i contraenti e, conseguentemente, l’impossibilità per il giudice di ingerirsi nell’affare privato dando rilievo giuridico ai problemi della giustizia contrattuale risulta peraltro anche il riflesso dell’assetto economico precapitalistico. Nell’epoca precedente lo sviluppo industriale, infatti, l’abuso contrattuale non appare fenomeno “sociale” essendo piuttosto legato alla successiva contrattazione di massa conseguente alla standardizzazione della produzione.

2.      Segue. Il sistema del codice Pisanelli: il principio di eguaglianza formale dei contraenti. L’assenza di un generale controllo dell’affare privato

Il codice Pisanelli appare ispirato alla medesima filosofia liberistica connotante i sistemi europei ottocenteschi dell’area occidentale. Emerge in esso l’idea dell’eguaglianza formale dei contraenti, portato dell’individualismo e della politica del “laissez faire”.

E’ certo presente una norma (art. 1124) che opera un riferimento all’equità, dunque all’attività valutativa discrezionale del giudice, nell’integrazione del contenuto delle obbligazioni delle parti, ma tale indice normativo viene del tutto svalutato in sede applicativa sicché l’affermazione di principio non mina, di fatto, le consolidate acquisizioni in merito alla natura del contratto ed ai suoi rapporti con l’ordine positivo.

Mancano, peraltro, ad eccezione della disposizione, certo rilevante, del primo inciso dell’art. 1124, generali richiami alla buona fede (oggettiva) (ora presente, a prescindere dalla normativa extracodicistica, anche nella disciplina delle trattative, in quella dell’interpretazione), e minore risulta, in generale, l’uso di clausole generali, sicché l’esame sistematico non offre alla dottrina il verso per una deviazione dalla tradizione liberale.

Significative, a tal proposito, risultano le parole di un insigne civilista, formatosi nel vigore del codice ottocentesco, strenuo difensore della teoria soggettivistica di negozio, il quale con vigore, anche (o, “addirittura”) nel neonato sistema del codice del ’42, afferma il carattere eccezionale di ogni intervento esterno sul contratto in quanto espressione della sola libertà individuale dei paciscenti (v. G. Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, p. XXVIII).

3.      Il sistema del codice attuale. Il ruolo del giudice nella determinazione degli effetti (o del contenuto) del contratto incompleto

Il dibattito sul negozio giuridico, conducente al ripudio della sua accezione volontaristica, l’incertezza dunque sul significato dogmatico e sul valore interpretativo della categoria, hanno condotto il legislatore italiano al consapevole rifiuto dell’istituto nel sistema del codice in cui è invece disciplinato il principale atto di privata autonomia, il contratto appunto, la cui disciplina è estesa agli atti (id est negozi) unilaterali inter vivos a contenuto patrimoniale (G. Benedetti, Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, Napoli, 1997).

Dall’impianto normativo, pur sempre ispirato dalla filosofia liberale della tradizione, emerge tuttavia un istituto contrattuale assai diverso da quello ricavabile dalle norme del codice Pisanelli.

Sulla base delle teorie oggettivistiche e in particolare di quella precettiva del Betti (Teoria generale del negozio giuridico, Torino,  1955) si costruisce un contratto del tutto differente da quello della tradizione liberale. Caratterizzante il medesimo è, infatti, il limite positivo della funzionalizzazione dell’autonomia privata al perseguimento di interessi metaindividuali, meglio sociali (id est, nelle intenzioni, dei valori del sistema corporativo).

 L’apprezzamento di tale meritevolezza è affidato al giudice il quale per le contrattazioni atipiche viene deputato ad attuare il controllo della “funzione economico sociale” perseguita dai contraenti. Tale limite resisterà alla caduta del sistema corporativo e verrà utilizzato in dottrina per “funzionalizzare” l’istituto contrattuale, non più al perseguimento dei non più esistenti interessi corporativi, ma a quelli scaturenti dalla Carta Costituzionale. Il giudice è così investito della funzione di apprezzare, sulla base dei valori costituzionali, la meritevolezza degli interessi dei paciscenti (per tutti P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, p. 193 ss., e M. Costanza, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contratto e impresa, 1987, p. 423).

Autorevole dottrina ha poi proposto l’utilizzazione del predetto limite della meritevolezza nel controllo del contenuto atipico id est delle pattuizioni atipiche difformi dalle norme dispositive, soprattutto ove si sia in presenza di una deroga sistematica e diffusa mercé l’uso dei contratti standard al diritto dispositivo. In quest’ottica il giudice avrebbe il compito di accertare la non meritevolezza del contenuto contrattuale atipico, dichiararne l’inefficacia e ricostruire il contenuto negoziale con la normativa dispositiva. Tale disciplina, si afferma, è invero ispirata al perseguimento della giustizia distributiva per cui la deroga alla stessa, specialmente nei casi in cui sia generalizzata e sistematica, non può avvenire senza una giustificazione economica e dunque giuridica.

Tale teoria (per cui soprattutto P. Perlingieri, Appunti sull’inquadramento della disciplina delle c.d. condizioni generali di contratto, in Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, Milano, 1970, p. 28) va inquadrata nell’ambito della reazione di parte consistente della dottrina civilistica italiana avverso il fenomeno della contrattazione di massa, traducentesi nell’imposizione ad opera delle imprese - contraenti forti - di un contenuto contrattuale squilibrato. La stessa non ha tuttavia trovato riscontro in giurisprudenza, fedele agli antichi dogmi ed al principio della ripartizione dei poteri dello Stato.

4.      Segue. L’art. 1374. I tentativi dottrinali volti a modificare il rapporto tra i criteri integrativi

L’art. 1374 riproduce, modificandola, la formula consegnata all’art. 1124 del codice Pisanelli il cui primo capoverso corrisponde sostanzialmente all’odierna disposizione dell’art. 1375. E’ evidente l’inversione dell’ordine dei criteri di integrazione: in presenza di una lacuna del contenuto contrattuale la stessa è riempita mercé l’applicazione della disciplina legale, in mancanza con gli usi (normativi), in via del tutto subordinata con l’equità.

Qui l’equità deve intendersi come attività equitativa giudiziale id est come attività valutativa, discrezionale, non arbitraria, volta ad individuare, sulla base delle concrete circostanze del caso, degli interessi effettivamente coinvolti nella vicenda negoziale, gli effetti integrativi del contratto.

L’attività del giudice deve dunque finalizzarsi al perseguimento, nella creazione della singola regola contrattuale integrativa, del risultato che in concreto appare equo. Certo i criteri cui debba ispirarsi l’interprete in tale attività di “contemperamento degli opposti interessi” non risultano specificati, per cui resta aperto il problema se l’attività debba esplicarsi sulla base dei valori sociali, della morale, dei principi economici. Un risultato interpretativo è comunque certo: l’attività giudiziale deve produrre un risultato equilibrato alla luce della concreta economia dell’affare.

L’aver relegato il criterio equitativo all’ultimo gradino tra i canoni di integrazione degli effetti negoziali porta evidentemente ad un giudizio svalutativo della sua pratica importanza. Appare invero del tutto residuale l’ipotesi in cui la lacuna contrattuale non può essere integrata con norme di legge o col richiamo di usi normativi. Il ruolo del giudice in ordine alla costruzione degli effetti del contratto appare pertanto, in un sistema così concepito, del tutto evanescente.

Il sistema del codice del ’42 tuttavia, si è rilevato, contiene numerose norme di carattere generale che appaiono idonee a contestare il tradizionale rapporto tra autonomia privata ed ordine giuridico (sul punto v. anche A. Trabucchi, Il nuovo diritto onorario, in Riv. dir. civ., 1959, p. 495).

Oltre al limite della meritevolezza è usuale nella civilistica il riferimento alle differenti disposizioni che si occupano di buona fede (oggettiva).

In particolare, facendo leva sul disposto dell’art. 1175 (più che sull’art. 1375), un autore è pervenuto ad una “connotazione solidaristica” dell’istituto contrattuale (S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, in part. pp. 112, 115, 117, 145, 178, 180, 182). Partendo dalla critica al volontarismo, allo psicologismo dal primo scaturente e postulante l’autointegrazione del fenomeno contrattuale, l’autore perviene a negare il carattere eccezionale dell’art. 1339, a negare in sostanza che il regolamento contrattuale è il risultato di un’unica fonte: l’autonomia dei privati. La giusta rilevanza sistematica degli artt. 1339, 1175, 1176, 1374, 1375 conduce l’autore a concepire il contratto come il risultato di un sistema di fonti: quella privata e quella legale (e, conseguentemente, quella giudiziale). Non pare pertanto corretto, in quest’ottica, neppure parlare di “lacune” del contenuto contrattuale. L’intervento di integrazione invero, si afferma, non riguarda gli effetti ma il “contenuto” dell’atto; lo stesso non è perciò fenomeno eccezionale e ciò non snatura il contratto in quanto l’autonomia privata ne rimarrebbe “il motore”.

La dimostrazione compiuta conduce l’autore alla esaltazione del valore normativo dell’art. 1175.

La buona fede, in quanto di previsione legale, deve essere ricondotta nel primo criterio integrativo (del contenuto) del contratto di cui all’art. 1374.

La sua diretta discendenza dal principio costituzionale della solidarietà contrattuale, precisa Bianca, (Il contratto, Milano, 1987, p. 474), fa del canone di buona fede oggettiva il primo criterio di integrazione del contenuto. La sua natura e il suo fondamento costituzionale, giustificano la preminenza dello stesso anche sulle regole autonome. Il principio di buona fede è cioè proposto quale criterio integrativo e quale canone valutativo delle pattuizioni private che, se con esso in contrasto, subiscono il giudizio di nullità per violazione dell’ordine pubblico.

Parallelamente il canone di buona fede è proposto quale primo criterio di determinazione del contenuto del rapporto obbligatorio, con preminenza anche sulle previsioni pattizie (C.M. Bianca, L’obbligazione, Milano, 1993, p. 88).

E’ evidente che in detta prospettiva teorica il ruolo del giudice sia in posizione primaria nel controllo e nella costruzione del regolamento contrattuale.

Il giudizio di difformità della pattuizione dalla buona fede conduce alla dichiarazione di nullità del patto ed alla sua sostituzione con la “regola giusta del caso concreto” che normalmente sarà la disciplina di carattere dispositivo.

Nel caso di lacune la preminenza valorativa del canone di buona fede rispetto a tutti gli altri criteri integrativi si concretano in una vera attività creativa del giudice.

A questi tentativi dottrinali, volti a scardinare la rigidità del sistema in quanto fonte di ingiustizie nei rapporti tra soggetti tipicamente diseguali, va aggiunta la teoria del Gazzoni (Equità e autonomia privata, Milano, 1970, in part. pp. 92, 93, 192, 255, 276, 310, 336) il quale ha reinterpretato la disposizione dell’art. 1374 assegnando al criterio equitativo un rilevante spazio applicativo. Per tale autore il criterio legale andrebbe limitato ai soli contratti tipici, il criterio degli usi invece ai contratti socialmente tipici mentre il criterio equitativo a tutte le pattuizioni atipiche. Al giudice sarebbe così consentito di valutare l’equità di ogni clausola derogativa alla normativa dispositiva. Il contrasto della regola pattizia con l'equità legittimerebbe lo stesso interprete alla creazione della giusta regola per il caso concreto.

Tutte queste teorie, seppure sostenute da autorevoli civilisti, e per lo più mosse dal fine di trovare nel sistema strumenti di tutela del contraente debole più efficaci di quelli tradizionali, non hanno tuttavia trovato conforto nelle pronunce giurisprudenziali.

La costruzione costituzionalmente orientata di Rodotà e Bianca si infrange contro la struttura del codice, chiaro nell’assegnare alla buona fede, per quanto qui rileva, solo valore integrativo nella fase attuativa del contratto (così già U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1974, p. 35).

L’idea del Gazzoni appare invece arbitraria laddove opera una limitazione del criterio legale e di quello degli usi ai soli contratti (legalmente o socialmente) tipici. La stessa inoltre appare eccessiva e conduce conseguentemente l’autore, seppure a scapito della coerenza della costruzione avanzata, alla sua limitazione al solo squilibrio normativo.

5.      Il nuovo diritto dei contratti. L’esplosione delle clausole generali. La buona fede e l’equità nei rapporti contrattuali

Con l’avvento della nuova normativa, per lo più a tutela del consumatore e dell’impresa debole, e in massima parte di derivazione comunitaria, si è trascorsi ad un nuovo (rectius: rinnovato) sistema contrattuale in cui l’uso della buona fede e dell’equità, dunque il richiamo dell’attività discrezionale del giudice con funzione valutativa e di creazione normativa è sempre più diffuso.

Quanto alla buona fede si segnala il nuovo Capo XIV-bis del Titolo II del Libro IV sul contratto in generale. Nella disciplina consumeristica tale criterio assurge a canone primario di valutazione della vessatorietà delle clausole non negoziate dal consumatore.

L’equità, id est l’assenza di squilibrio nelle stesse, o all’opposto l’iniquità, lo squilibrio, dunque la vessatorietà sono risultati di un’attività valutativa del giudice che va condotta alla stregua della concreta economia dell’affare ed eventualmente tenendo conto anche di contratti collegati a quello in questione.

Il giudizio di vessatorietà, conducente all’inefficacia (rectius: nullità relativa) della clausola è dunque frutto dell’accertamento giudiziale.

Analogo discorso, sebbene manchi un esplicito riferimento al canone di buona fede, va effettuato con riguardo all’ipotesi disciplinata dall’art. 9 l. 192/98.

La ricorrenza di un abuso di dipendenza economica è accertamento rimesso all’attività giudiziale in cui l’eccessività dello squilibrio (che qui è, per diffusa opinione dottrinale, giuridico ed economico) si apprezza con il canone della buona fede id est mercé il riferimento a tutte le circostanze che compongono l’economia dell’affare.

La maggior ampiezza dei poteri giudiziali in ordine al controllo e in particolare alla costruzione della regola negoziale si apprezza tuttavia solo chiarendo il significato che il concetto di equità assume nel rinnovato diritto contrattuale.

L’interpretazione sistematica della nuova normativa generale (artt. 1469-bis e ss.; art. 1 l. 281/98 sui diritti fondamentali dei consumatori; art. 9 l. 192/98 sul divieto di abuso della dipendenza economica; art. 644 c.p.) conduce a rilevare l’esistenza di un “principio di equità” caratterizzante tutti i contratti non negoziati perché non negoziabili, id est “con contenuto imposto” (sul punto v. il nostro Sull’equità dei contratti, Napoli, 2001, p. 75 ss., ove la dimostrazione della rilevanza, nei contratti “con contenuto imposto”, anche dello squilibrio economico sopravvenuto al di là dei limiti tracciati dal tradizionale rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta).

Dalla considerazione delle discipline a carattere protettivo emerge, con riguardo ai contratti stipulati tra soggetti tipicamente diseguali cioè nei casi di squilibrio strutturale dei contraenti, un nuovo requisito di liceità del contenuto imposto: l’equità. Da intendere, come si evince da un esame complessivo delle norme in cui è fatto riferimento a tale concetto, come equilibrio normativo e/o economico.

Non solo dunque assume rilevanza lo squilibrio normativo, com’è facile desumere dalla lettura del Capo XIV-bis e dell’art. 9 della legge sulla subfornitura, ma anche lo squilibrio economico, nei casi “disfunzionali” del sistema economico, conduce alla nullità relativa e legalmente parziale del contratto postulando l’esigenza di una ricostruzione del contenuto negoziale.

L’art. 1469-ter comma 2°, che pur sembra in via generale escludere la rilevanza dello squilibrio economico, consente il sindacato di vessatorietà sulla determinazione del corrispettivo allorché questo non è determinato in modo trasparente.

La ratio della norma è quella di consentire un agevole accesso al mercato ad opera del consumatore il quale deve esser posto in grado di effettuare la scelta tra più proposte economiche alternative. La norma esclusiva presuppone dunque l’esistenza e l’operatività del mercato sicché, argomentando a contrario, il giudizio di vessatorietà può appuntarsi sulla determinazione del corrispettivo allorché il mercato manca o non può “tutelare” il consumatore offrendogli più alternative tra cui operare la scelta di consumo. Tale interpretazione risulta coerente anche con il significato normativo delle disposizioni consegnate agli artt. 81 e 82 Trattato Ce, 2 e 3 della legge antitrust (l. 287/90) laddove si sanzionano le intese e pratiche concordate che influiscono sui prezzi e l’abuso di posizione dominante consistente nell’imposizione di prezzi iniqui.

Analogo risultato può esser raggiunto raccordando sistematicamente la norma in commento con l’art. 1 l. 281/98, nel suo riferimento all’equità dei rapporti contrattuali. L’apparente genericità dell’affermazione di principio nasconde in verità una precisa regola, coerente con i principi ispiratori del rinnovato diritto contrattuale. Se l’art. 1469-ter comma 2° esclude la sindacabilità della determinazione del prezzo sul presupposto però che il mercato sia operante, tale norma (nel suo significato “negativo”) non trova applicazione nei casi in cui il mercato manca o non offre al consumatore scelte alternative sicché in tale ipotesi emerge (se non la norma a contrario ricavata sempre dall’art. 1469-ter) la disposizione dell’art. 1 l. 281/98 che in tal modo vede delineato con precisione, mercé il raccordo sistematico con la disposizione codicistica, il suo campo applicativo (i casi “disfunzionali” del mercato).

Emerge così dal nuovo sistema contrattuale, corollario di un liberismo che al contempo è anche solidaristico (v. anche A. Toffoletto, Il risarcimento del danno per violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, pp. 118 ss., 135 ss.), una maggiore attenzione per la giustizia contrattuale. E in questa fase è il giudice ad esser deputato del compito più gravoso: quello dell’accertamento delle situazioni di squilibrio strutturale, dello squilibrio del contenuto contrattuale, della assenza di una giustificazione economica del medesimo id est dell’abuso negoziale.

La valutazione dello squilibrio, della vessatorietà, dunque dell’abuso condurrà lo stesso a dichiarare il contratto “nullo”. Si tratterà di nullità relativa e legalmente o necessariamente parziale (art. 1469-quinquies; art. 9 l. 192/98; art. 117 ss. T.U.B.; art. 24 ss. T.U.F.; art. 1519-octies etc.. Sul punto v. G. Passagnoli, Le nullità speciali, Milano, 1995, in part. pp. 176 ss., 223 ss.) cui corrisponde una pronuncia dichiarativa e determinativa del contenuto negoziale.

Questa “esplosione” delle clausole generali certo amplia i poteri valutativi del giudice sollecitando conseguentemente anche un’attività di verifica, tuttavia è da apprezzare come una conquista di civiltà essendo i nuovi strumenti ed istituti funzionali ad assicurare la giustizia del contenuto contrattuale nelle ipotesi di “squilibrio strutturale” dei contraenti.

Nel reagire agli abusi della condizione di illibertà contrattuale le nuove regole appaiono pertanto, più che una rottura rispetto al passato, un coerente sviluppo dei principi e dei valori costituzionali e comunitari riflettendo il significato e la misura dell’autonomia dei privati, libertà che ha in sé, quale limite “consustanziale”, il rispetto dell’altrui libertà negoziale.

                                  

            Domenico Russo