inserito in Diritto&Diritti nel maggio 2002

Il ruolo dei Servizi Sociali nella società attuale: analisi antropologica della figura professionale "Assistente Sociale".

Di Vincenzo Stendardo

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1. Identità in bilico e Servizio Sociale

" Nel tentativo di individuare il tipo di gruppo sociale che possa essere definito società, gli antropologi generalmente sono d'accordo nel ritenere che il termine si riferisce a una sorta di unità funzionale e operativa composta da un gruppo umano relativamente indipendente e autoriproducentesi in termini demografici, che recluta la maggior parte dei suoi membri attraverso l'inculturazione" (U. Fabietti, 2001). I tipi di società formatisi lungo il corso del tempo in ogni latitudine spaziale sono i più diversi, come molteplici sono i sistemi culturali di riferimento. La società occidentale attuale, quella in cui ci troviamo a vivere, si presenta estremamente complessa. E' una società fortemente spersonalizzata, tecnologizzata, veloce, virtuale; una società in cui tutto sembra possibile, ma in cui si trova grande difficoltà a realizzare anche le cose più semplici che appartengono alla "banalità" della vita quotidiana. Una società che sembra avere una forma a sé, altra rispetto alla somma dei suoi membri e che si muove per volontà sua propria, sorda ai richiami e alle necessità degli individui. Una società come corpo molle, che tutto accoglie e tutto rigetta, permeabile a qualsiasi tipo di elemento e nello stesso tempo fortemente chiusa. Facilmente influenzabile e influenzata da qualsiasi pensiero eppure testardamente arroccata ai suoi principi. Una società ibrida e sincretica, in continuo divenire e in continuo tornare alle origini. Ambigua perché ambigui e contraddittori sono i suoi messaggi e le sue richieste, una società complicata, complessa. Nel passato la categoria del complesso prendeva forma a partire dalla sua contrapposizione alla categoria del semplice. Per molto tempo società semplici sono state definite tutte quelle organizzazioni umane che non avevano lo sviluppo tecnologico avanzato dell'Occidente, società "tradizionali" quindi, "preindustriali", "prescientifiche". Complesso era invece il mondo moderno, tecnologico.
L'analisi però delle diverse produzioni simboliche e rituali, proprie delle popolazioni altre rispetto a quelle del vecchio continente, unite alle forme di parentela, alla divisione del lavoro e agli status sociali hanno evidenziato che ciò che appariva semplice, era in realtà estremamente complesso e per alcuni aspetti addirittura indecifrabile. Oggi la dicotomia semplice/complesso è stata superata perché è maturata la consapevolezza che non esiste un concetto di "società semplice" in senso stretto e questo vale anche per ciò che in superficie può apparire banale. La società che è lo scenario su cui l'individuo-attore si muove è un luogo di frontiera e le zone di confine sono divenute oramai invisibili, inesistenti, metamorfiche. La superficialità, l'abbandono, la dispersione, la globalizzazione, le illusioni e le disillusioni, la perdita di punti di riferimento, i nuovi idoli, il mondo economico, lo sfruttamento, l'egoismo. Tutto questo unito all'ambiguità delle diverse situazioni esistenziali spinge l'individuo alla continua costruzione, decostruzione e ricostruzione della propria identità. Identità sempre diverse e sempre più flessibili che convivono e confliggono e che determinano da parte dell'attore un progressivo allontanamento da se stesso e dalle sue origini. Un individuo diverso quindi, poliforme e polimorfo. Per il prof. Remo Bodei, l'identità personale indica "la capacità degli individui di avere coscienza di permanere se stessi attraverso il tempo e attraverso tutte le fratture dell'esperienza" (www.CaffèEuropa-Attualità.mht). Per l'antropologo l'identità è un insieme di valori, simboli e modelli culturali che un individuo riconosce come propri in rapporto alla propria cultura di riferimento "identità..[…]… si tratta infatti di una sorta di progetto i cui si ritrovano simultaneamente coinvolti i singoli e le formazioni sociali. All'interno dei quadri culturali che modellano le abitudini e le memorie gli attori sociali operano infatti delle scelte di identificazione, variabili in intensità, natura e livello, attraverso cui vengono posti in gioco i rapporti con la società e le istituzioni nel loro complesso, da un lato e con i gruppi e le comunità dall'altro" (Levy-Strauss in U.Fabietti, 2001). Il concetto di identità nelle culture non occidentali si sviluppa a partire dalla relazione con le differenza: di genere, status, etniche, ecc… Il rapporto non investe solo il discorso relativo agli individui, ma implica, in special modo per le società animatistiche, tutto il microcosmo di riferimento: quindi la natura, gli animali, i minerali, i mari, gli astri. ecc.. Ad esempio "In certe storie, gli Yokuts (indigeni della California centro settentrionale) credevano che il coyote, l'aquila, il falco ed altri animali, avessero creato il mondo e avessero assegnato agli esseri allora esistenti (dalla natura non ben definita) i territori ove sistemarsi. Tali esseri erano allora animali, ma divennero uomini" (T. Tentori, 1996). Quindi un'identità questa che si definisce in rapporto ai miti ancestrali. "L'identità, in sostanza, è la forma che la cultura, intesa come patrimonio di idee, valori, norme orientamenti, assume dal momento in cui, in seguito al processo di inculturazione e socializzazione, entra a far parte del sistema culturale di riferimento del soggetto" (G. Di Cristofaro Longo, 1993).
L'identità di un attore sociale si rapporta continuamente sia al microcosmo, quindi al suo piccolo ambiente di riferimento, che al macrocosmo, ossia alla società tutta, che a sua volta si rapporta alle altre società, ad altre culture, ad altri schemi di riferimento. Quindi è anche apparato simbolico e strumentale attraverso cui l'individuo si colloca in un determinato contesto culturale caratterizzato nel tempo e nello spazio (G. Di Cristofaro Longo, 1995). Se l'identità è ciò che guida e regola l'esistenza di un individuo, quando questi non riesce più ad avere un equilibrio, una coerenza, un'unità psichica e culturale e trova una grande difficoltà ad adattarsi al mondo circostante, si avrà allora il fallimento del suo progetto esistenziale e quindi il disagio. E' ovvio che per ogni individuo, di fondamentale importanza ed esperienza, è il diverso percorso esistenziale, l'ambiente di riferimento, la cultura di appartenenza e in ultimo, ma non per questo meno importante, la sua personalità, il suo proprio carattere. Oggi poi ci troviamo di fronte ad un tipo di disagio non sempre facilmente individuabile perché sempre più spesso non può essere ricondotto e interpretato secondo le classiche dicotomie sano/malato, normale/deviante. "Mentre un numero crescente di individui fa esperienza della sofferenza psichica (depressione, anoressia, bulimia, uso e abuso di vecchie e soprattutto nuove droghe, ecc..) i sintomi sociali del disagio si fanno sempre meno visibili. Queste forme di disagio esprimono un malessere che si consuma prevalentemente all'interno delle singole esperienze individuali, senza che a tale disagio corrispondano poi sintomi sociali particolarmente significativi" (R.Buccioni, G. Manfré, 2000). Le tensioni che sono alla base della vita quotidiana producono disorientamento, ma la società se per alcuni aspetti si presenta come una cattiva matrigna, per altri è una grande madre e produce essa stessa quegli elementi che possano curare le devianze da una vita vissuta a/normalmente. Un individuo confuso e spaesato ha sicuramente dei percorsi esistenziali difficili e questo per i motivi più svariati: affetti, lavoro, patologie fisiche, disadattamento, migrazione; ma per ogni male si cerca di intervenire con una cura appropriata. I Servizi Sociali oggi intervengono la dove c'è, per qualsiasi motivo, una difficoltà nel vissuto esistenziale. La storia dei Servizi Sociali è strettamente correlata con la storia economica di ogni singolo paese: forme di pubblica assistenza si possono trovare in ogni momento nella storia dei gruppi umani, ma è solo a partire dal XVI° secolo che vengono emanate le prime leggi. Fino ad allora era stata la Chiesa ad occuparsi degli individui meno abbienti: "Le parrocchie dovevano assumersi l'onere anche finanziario dell'assistenza ai propri ammalati, invalidi, malati mentali, ecc.., che fossero senza mezzi di sostentamento o senza famiglia in caso di minori. A tali compiti provvedevano con elargizioni e prestazioni di fedeli, di opere pie e col ricavato di apposite imposte locali" (A. Ardigò, 1981). Nel 1601 viene emanata in Inghilterra la Poor Law la quale "attribuisce alla parrocchia il potere di riscuotere contributi obbligatori per il soccorso agli indigenti. La riscossione avviene sotto la sorveglianza delle autorità civili, overseers of the poor. La tassa in favore dei poveri che il giudice di pace impone per ogni parrocchia è destinata all'istituzione delle workhouses" (R. Cerami, 1979). Chiaramente siamo ancora ben lontani dal proteggere ed aiutare gli individui in difficoltà, tant'è che in questo periodo si assiste anche alla nascita di numerosi edifici che saranno poi dei veri e propri luoghi di contenzione per tutti coloro i quali presentano una esistenza alla deriva. Con l'avvento dell'Illuminismo si comincia a ragionare intorno ai diritti degli emarginati. Si cerca da una parte di contrastare la Chiesa e il potere di questa operato attraverso le fondazioni ospedaliere, ecc. dall'altra si tenta di aiutare realmente le persone in difficoltà cercando di promuovere l'assistenza e le cure mediche a carico dello Stato ma ancor più spesso a carico delle famiglie di origine. "E' così che la prima innovazione di principio nel campo socio-sanitario e assistenziale ( l'inizio almeno teorico del welfare state) consiste in una lotta contro i corpi intermedi corporativi già inalienabili delle opere pie a favore di un nuovo tipo privilegiato di rapporto diretto: quello tra il vertice dello stato nazionale con apparati esecutivi locali e la periferia dei singoli nuclei delle nascenti famiglie coniugali, modello familiare ristretto che accompagna il sorgere della borghesia a classe egemone" (A. Ardigò, 1981). Con la Rivoluzione francese, quindi con l'affermazione dei diritti dell'uomo, circola una Dichiarazione specifica riguardante l'assistenza. Tale Dichiarazione afferma: 
1. Poiché l'assistenza al povero è un debito nazionale, gli ospedali, le fondazioni e le istituzioni per i poveri, dovranno essere vendute a profitto della nazione;
2. La società deve provvedere al mantenimento dei cittadini indigenti nel luogo di loro residenza o mediante occupazione o assicurando gli inabili al lavoro i mezzi di sostentamento;
3. La cura medica per la popolazione sarà assicurata da un medico con licenza, al servizio di ogni distretto cantonale;
4. I genitori che sono finanziariamente inabili a sostenere i loro figli riceveranno un aiuto pubblico dalla nazione. (R. Sand, 1931).
Questa dichiarazione, fatta in un periodo storico fortemente caratterizzato da scontri sanguinosi, non poteva trovare applicazione. Tuttavia poneva in discussione il trattamento degli individui meno abbienti e si cercava in qualche modo di mettere in discussione i luoghi di internamento in cui andavano a finire tutti coloro i quali conducevano delle vite fortemente disagiate.
La prima legge assistenziale francese è datata 15 marzo 1793 e riguarda "L'organizzazione dei soccorsi pubblici" Con essa si stabilisce innanzitutto " che le municipalità debbano contribuire per un quarto della somma necessaria e debbano incaricarsi della distribuzione dei soccorsi per i poveri invalidi, i loro figli, i vecchi e gli ammalati, nonché all'assegnazione del lavoro per gli indigenti validi; ad essa spetta, inoltre, la nomina dei medici, dei chirurgi e delle levatrici per il servizio gratuito degli iscritti nell'elenco dei poveri" (R. Carami, 1979). Tale elenco è definito con la legge dell'11 maggio 1794. Con la legge del 28 maggio 1793 "viene assegnato un sussidio alla famiglia del lavoratore deceduto o divenuto infermo e viene disposto che i fanciulli abbandonati, fino all'età di 12 anni, debbano rimanere negli ospizi nazionali per essere poi avviati ad una casa di apprendistato" (R. Carami, 1979). Queste leggi, nel corso degli avvenimenti politici ed economici francesi, subiranno delle profonde modifiche, non sempre a reale vantaggio dei disagiati; comunque a monte di tutto c'è la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789", quindi la base storica per una discussione sui diritti umani fondamentali è stata posta una volte per tutte. 
La situazione italiana alla fine del XVIII secolo è estremamente problematica: la povertà, la malattia, la mancanza di lavoro, il disordine pubblico aveva portato all'indomani della costituzione della Repubblica Italiana, gennaio 1802, a seguito della consulta di Lione, alla legge del 20 agosto 1802 in cui si stabiliva "di sottoporre a stretta sorveglianza gli oziosi, i vagabondi, ogni mendicante abile al lavoro; di fondare in ogni dipartimento case di lavoro volontario e di ampliare quelle per il lavoro forzato" (R. Cerami, 1979). Gli anni seguenti vedranno un inasprimento delle pene nei confronti degli indigenti; sorgeranno poi un po' ovunque case di soccorso, tuttavia permarrà ancora per lungo tempo un atteggiamento forte che vedrà nell'individuo in difficoltà non un uomo da aiutare, ma una persona da eliminare. L'Italia dal punto di vista legislativo risente molto della sua divisione geopolitica e come altre nazioni vedrà sviluppare poi da un parte l'assistenza sociale e dall'altra la prevenzione sociale. La prima legge nazionale italiana risale al 1890, ed è la n. 6972 del 17 luglio, nota come legge Crispi che definisce le Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza.
"La legge può essere considerata la 'prima norma quadro' in materia di assistenza e beneficenza pubblica, infatti ha coordinato tutte le iniziative benefiche e di carità, enti morali e opere pie nelle "istituzioni pubbliche di beneficenza" amministrate dalle Congregazioni di carità, istituite in ogni Comune. La legge disciplina in particolare la contabilità e i patrimoni, la tutela degli incapaci, la vigilanza dello Stato affidandola alle Prefetture, gli statuti e le tavole di fondazione delle istituzioni di beneficenza e le modalità di apertura di nuove istituzioni ed infine regolamenta il 'domicilio di soccorso', ovvero l'obbligo di un Comune dove la persona ha dimorato per più di cinque anni, di prestare assistenza, dovunque la persona si trovi, anche attraverso il comune o le istituzioni di nuova dimora" (www.terzaeta.com) . Inoltre "Il regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2841, ha modificato le 'istituzioni pubbliche di beneficenza' in 'istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza'. La legge 3 giugno 1947 ha soppresso le Congregazioni di carità e istituito gli 'Enti Comunali di Assistenza (ECA)' " (www.terzaeta.com). 
Dopo un lungo dibattito durato 110 anni (e sei discussioni in Parlamento), finalmente in Italia è varata la legge n.328 dell'8 novembre 2001, è la Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Con essa si ridefinisce completamente il settore socio-assistenziale e soprattutto si pone al centro del discorso l'individuo come essere umano nella sua interezza che deve essere aiutato nelle condizioni di difficoltà (indipendentemente dal tipo di disagio provato), perché possa avere sempre dignità, anche nelle situazioni più estreme. Inoltre con tale legge si creano le condizioni per aiutare realmente le famiglie che hanno al loro interno congiunti disagiati. Con l'articolo 22 poi si definisce il significato di sistema integrato:. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali si realizza mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale, integrando servizi alla persona e al nucleo familiare con eventuali misure economiche, e la definizione di percorsi attivi volti ad ottimizzare l'efficacia delle risorse, impedire sovrapposizioni di competenze e settorializzazione delle risposte (Gazzetta ufficiale n.265 del 2000).
Il primo articolo della legge 328 afferma: La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezze di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione (Gazzetta ufficiale n.265 del 2000).
L'articolo 2 della Costituzione dice: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. E l'articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. E ancora l'articolo 38: Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera (www.quirinale.it/costituzione). Possiamo quindi notare come l'individuo diventi, con la legge 328, attore della propria esistenza e soprattutto garantito da una serie di diritti umani e poi civili assolutamente indiscutibili. Con l'articolo 12 della legge 328 inoltre si definiscono le figure professionali sociali che operano in questo specifico settore: tra queste, un ruolo sicuramente fondamentale lo svolge l'assistente sociale.


2. Il ruolo antropologico dell'assistente sociale

L'articolo 1 della legge n.84 del 1993 recante Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell'albo professionale, afferma: "L'assistente sociale opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio in tutte le fasi dell'intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative" (Gazzetta Ufficiale della Repubblica, 01/04/1993). La figura dell'assistente sociale è una figura cardine del sistema sociale generale e della società tutta. La posizione che occupa infatti è quella di collegamento tra l'individuo o gruppi che si trovano in stato di disagio e le strutture di riferimento accreditate alla "riabilitazione" dalle difficoltà di vivere. Inoltre la sua funzione si espleta anche nel garantire un reinserimento nella società e quindi promuove una cultura dell'accettazione delle differenze, della solidarietà, dell'accoglienza. La sua azione è meramente antropologica sia nei confronti di chi chiede aiuto, sia nei confronti di quelle strutture, cooperative, datori di lavoro pubblici o privati, ecc. che accettano di aiutare chi era in difficoltà e tra queste un lavoro importante in special modo per l'integrazione, lo svolge il Terzo Settore, che tanto è cresciuto in Italia in questi ultimi dieci anni L'assistente sociale opera nel rispetto e nell'attuazione dell'etica sociale. "Questa disciplina che appartiene all'ambito delle scienze morali - si occupa del comportamento etico nelle relazioni sociali da un lato, e del fondamento etico dell'ordinamento sociale e giuridico dall'altro" (G. Acocella, 1998). L'etica sociale è propria di una società in cui è venuta a mancare un orizzonte comune di valori, un unità di intenti e di scopi che si possono ad esempio ritrovare nell'età classica e medievale. "Cosicché nell'etica moderna si pone immediatamente il problema della ricerca della legittimità della "norma" (e con essa del potere che la emana) e dei criteri che la configurano. L'etica sociale si sviluppa in relazione alla moderna separazione di pubblico e privato e dei concetti di sovranità e di libertà che da tale articolazione promanano. La centralità dell'individualità nella società moderna impone una fondazione dell'etica pubblica precedentemente non avvertita, giacché solo il pluralismo degli ordinamenti richiede la definizione ex post di valori comuni" (G.Acocella, 1998). Nel disordine del vivere quotidiano è necessario individuare i diritti fondamentali dell'individuo per non cedere ad una idea di massificazione, di mercificazione e di uguaglianza dei disagi esistenziali. "Pertanto l'azione espletata dall'assistente sociale è ispirata precipuamente dal principio che prevede per lo Stato di diritto il fondamentale obbligo costituzionale di restituire i diritti riconosciuti dall'ordinamento al cittadino che ne fosse, per qualsiasi ragione, ingiustamente privato. La professione è dunque rivolta all'accertamento della situazione (e dunque all'acquisizione delle competenze a ciò necessarie), per poter adeguatamente procedere all'intervento di ripristino del pieno diritto secondo quanto previsto dall'ordinamento" (G. Acocella, 1998). La figura dell'assistente sociale è fondamentale quindi nel ricucire lo strappo che si è avuto tra l'individuo e la società. La sua è si un'azione concreta, materiale, ma anche fortemente simbolica. Rappresenta infatti il mezzo attraverso il quale l'uomo nella sua deriva esistenziale cerca di ritornare alla normalità. E' il limen tra il disordine e l'equilibrio, è il luogo da cui si riparte per ricomporre una situazione mentale, fisica, sociale, a volte fortemente compromessa, per riacquisire certezze. In un certo senso il suo ruolo è simile a quello svolto dagli sciamani nelle culture altre rispetto a quella occidentale. La funzione principale dello sciamano (tra le tante che svolge) è quello di curare le malattie, di qualsiasi natura esse siano, determinate dalla fuga dell'anima dal corpo. Fuga addotta dall'invasione di spiriti maligni, che possono anche impossessarsi del corpo stesso e abitarlo. Lo sciamano allora recupera l'anima attraverso una ritualità complessa che prevede a volte, l'estrazione rituale e cerimoniale dello spirito maligno dal corpo. Inoltre essendo questi l'unico uomo che nella sua finitezza fisica, ha il privilegio di comunicare con forme alte soprannaturali, è anche il conoscitore e il custode dello scibile umano e non, quindi dell'equilibrio della vita [è da notare come una corrente psichiatrica contemporanea, attribuisca allo sciamano caratteristiche tipiche che in occidente contraddistinguono lo schizofrenico. Mai come in questo caso allora sarebbe interessante parlare di relativismo culturale che ci si riserva di discutere in altro momento] . Ora chiaramente nella nostra società contemporanea l'assistente sociale non impronta i suoi incontri con chi soffre in questo modo, ma anche lui è caratterizzato da tutta una serie di ritualità, soprattutto comportamentali, visive, gestuali, di comunicazione il cui fine ultimo è quello di indurre l'individuo a dichiarare la sua posizione esistenziale e materiale, per poter poi decidere il migliore intervento possibile. Per fare questo deve superare in qualche modo la simpatia che si crea del venire a conoscenza del dolore della vita, perché inevitabilmente il disagio provoca dolore. Ogni società umana in ogni tempo ha sviluppato linguaggi, simbologie e rituali propri riguardo al dolore. "Nell'antichità si riteneva che il dolore avesse un senso sulla base di un'antropologia cosmologica; da Aristotele era considerato come "passione", nel Medioevo lo si collocò in una visione trascendente della realtà come partecipazione alla passione di Cristo, anche se Agostino metteva in guardia dal non amarlo" (D. Engelhardt, 1991). E molti furono i filosofi che si interrogarono sul senso del dolore. Il dolore è la manifestazione più immediata della sofferenza ed è il mezzo attraverso il quale l'individuo in difficoltà comunica il suo disagio. L'assistente sociale in questo senso è particolarmente esposto con la sua sensibilità, di uomo, prima che di ruolo, alle difficoltà degli altri, ma per svolgere al meglio la sua funzione deve prescindere dal coinvolgimento. La dimensione emozionale che deriva dall'incontro con l'utenza è infatti molto forte e solo la maturità e la solidità di pensiero permettono di avere una visione "più giusta" degli eventi e quindi da parte dell'assistente sociale la possibilità di trovare una risposta più adeguata. In questo l'assistente sociale è orientato dal Codice Deontologico redatto nel 1998, che definisce il comportamento da tenere: questo si basa fondamentalmente sul rispetto della dignità umana. Il primo principio del Codice Deontologio afferma: "La professione si fonda sul valore, dignità e unicità di tutte le persone, sul rispetto dei loro diritti universalmente riconosciuti e sull'affermazione delle qualità originarie delle persone di libertà, uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione" Il secondo principio: "La professione è al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle diverse aggregazioni sociali per contribuire al loro sviluppo. Ne valorizza l'autonomia, la soggettività, la capacità di assunzione di responsabilità, li sostiene nell'uso delle risorse proprie e della società nel prevenire ed affrontare situazioni di bisogno o di disagio e promuovere ogni iniziativa atta a ridurre i rischi di emarginazione". Il terzo: " L'assistente sociale considera e accoglie ogni persona portatrice di un domanda, di un bisogno, di un problema come unica e distinta da altre in analoghe situazioni e la colloca entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente, inteso sia in senso antropologico-culturale che fisico". E ancora il quarto: "L'assistente sociale svolge la sua azione professionale senza discriminazione di età, di sesso, di stato civile, di razza, di nazionalità, di religione, di condizione sociale, di ideologia politica, di minorazione mentale o fisica, o di qualsiasi altra differenza o caratteristica personale". Per finire il quinto: " Nell'esercizio delle sue funzioni l'assistente sociale non esprime giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti" (www.serviziosociale.com). Questo Codice deontologico è il primo dell'Ordine professionale degli assistenti sociali e vede la luce dopo oltre cinquanta anni di presenza della professione di assistente sociale in Italia. Si basa sull'esperienza quotidiana di questi, sulle costanti riflessioni, sulle questioni etiche e deontologiche sviluppate nel tempo, dai codici deontologici e dalle tesi, prodotti nel nostro paese e in ambito internazionale, e dalle loro sperimentazioni (www.serviziosociale.com). Inoltre vi è anche la legge 119 del 3 aprile 2001 recante Disposizioni concernenti l'obbligo del segreto professionale. Tutto questo riabilita la funzione dell'assistente sociale che per molto tempo è stato semplicemente considerata dall'opinione pubblica, come "quello che toglie i bambini alle famiglie" e/o colui che di fronte all'ascolto delle problematiche agisce poi limitando la libertà individuale rivolgendosi alle strutture di riferimento. Questo stigma che ha generato un pre-giudizio e un giudizio estremamente negativo, ha fatto sì che molti individui disagiati rifiutassero un qualsiasi tipo di contatto con chi invece avrebbe potuto aiutarli. Chiaramente l'assistente sociale ha continuamente contatti con indigenti e con famiglie cosiddette a rischio per cui in questi frangenti bisogna inevitabilmente fare gli interessi dei minori. Queste situazioni vedono attori sociali fortemente chiusi e condizionati dalla loro cultura di riferimento che li porta a considerare i bambini o come delle proprietà o come dei piccoli da difendere, ovunque e comunque; un intervento esterno non è concepito e allora l'assistente sociale è visto come il nemico, come l'uomo nero da evitare. In questo, molto ha giocato tutta una letteratura dell'ottocento e dei primi del novecento che aveva come trama piccoli bambini strappati al seno materno senza una concreta motivazione, da ufficiali giudiziari, per essere portati poi non si sa bene dove, in quale luogo, a fare cosa. Ma la realtà è sempre molto diversa dalla fantasia e sicuramente più complessa. Tale complessità la si percepisce solo se si è immessi nella sua attività e comunque sia, i piani di lettura dell'esistenza umana sono molteplici. Di fatti anche il riferirsi alle strutture accreditate al ricovero dei disagiati è il primo passo che viene fatto nel tentativo di risoluzione dei problemi: spesso dopo il primo incontro con l'utenza che espone le proprie difficoltà e durante il quale ci si richiama ai vari Enti, il disagiato comprende la necessità di rifarsi a strutture altre e ad operatori altri, rispetto all'assistente sociale. Chiaramente questi sono solo alcuni esempi che si possono addurre, tuttavia sull'attività dell'assistente sociale molto di negativo è stato detto: oggi però la sua funzione è sicuramente rivalutata e anche dal punto di vista burocratico: da ruolo tecnico è divenuto figura professionale, e dalle scuole a fini speciali, ove prima ci si diplomava, si è passati a corsi di laurea universitari. Con il d.m. n.340 del 5 agosto 1998, regolamento recante norme per la convalida titoli di assistente sociale e per la valutazione dei diplomi rilasciati oltre i termini dalle scuole autorizzate al completamento dei corsi secondo il previgente ordinamento, è stato fatto un primo passo verso il riconoscimento professionale della figura dell'assistente sociale. Una figura che ha profondamente risentito dei mutamenti culturali di questi ultimi anni, tanto caratterizzati anche dalle migrazioni. Per cui, come si è affermato il 23 aprile 2001 durante il Convegno Professione assistente sociale, dentro il futuro e verso l'Europa tenutosi a Genova, organizzato dal Diploma Universitario in Servizio Sociale dell'Università di Genova e dall'Istituto Ricerche Iniziative Sociali del S.U.N.A.S., patrocinato, tra gli altri, dal M.U.R.S.T. e dall'Ordine Assistenti Sociali della Regione Liguria, la professione di assistente sociale si sviluppa e si qualifica su due direttive: "verso" e "dentro". "E' dentro perché è ben radicata nelle molteplici manifestazioni del disagio; perché non si tira indietro anche quando resta l'unica risorsa di servizi deboli, talvolta inadeguati. E' dentro le contraddizioni ed i paradossi del nostro tempo. E' dentro il territorio. Ma, allo stesso tempo, è verso l'Europa, vale a dire verso un panorama che si allarga in termini di culture, di saperi, di modelli teorici ed operativi. La tensione tra dentro e verso è anche tensione ad una costante crescita formativa e culturale aderente ai nuovi scenari nei quali interagiamo."(www.oasp.net.articoli.htm).


Vincenzo Stendardo




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