inserito in Diritto&Diritti nel marzo 2001

Dai Diritti Umani all’Intercultura

di Rosalinda Gaudiano

 

a) Diritti umani, una conquista epocale

 

I Diritti Umani assumono, all’interno del processo storico dell’umanità, una valenza sempre più significativa e direzionale.

Significativa perché le azioni degli individui nei confronti dei propri simili devono avere lo scopo di migliorare sempre più i processi di relazione, nel rispetto e nel riconoscimento delle identità presenti all’interno del contesto sociale.

Direzionale perché devono tendere a garantire la caratteristica dell’essenza umana che, per potersi affermare, non deve essere sottoposta ad alcuna forma di potere. [1]

Il bisogno dell’essere umano di sentirsi “libero” é una condizione che é stata sempre avvertita dall’uomo grazie a ciò che lo differenzia dagli animali: il pensiero. Il dualismo umano corpo-anima ha permesso, in modo inarrestabile, che gli uomini potessero pensare alle loro condizioni, riconoscere situazioni inaccettabili, proporre continuamente soluzioni migliori, talvolta a costo anche della propria vita.

 Non a caso, in campo legislativo, ogni nuova legge indica sempre dei cambiamenti culturali nel contesto sociale per il quale la legge stessa é stata emanata. Il legislatore non fa altro che esprimere, attraverso l’emanazione delle leggi, nuovi orientamenti culturali rispetto a forme comportamentali che hanno subito, nel tempo, modificazioni laddove sono intervenuti fattori che hanno fatto maturare il bisogno, da parte di specifiche categorie sociali, di vedere legittimati i propri diritti.

 

La legittimazione effettiva dei propri diritti, diventa, se così possiamo dire, una risultante di due atti di forza: da parte di chi chiede e da parte di chi concede. Il riconoscimento di diritti fondamentali é sempre il frutto di lunghe lotte maturate in rapporto a quegli atti di pensiero che, nel tempo, hanno sempre costituito i contenuti dei nuovi bisogni, soprattutto in campo sociale.[2]

Che l’uomo fosse in grado di pensare la propria esistenza, e quindi di comprendere il bene e il male, e capire che stare bene per sé vuol dire star bene insieme agli altri, é dimostrato, nella storia, da quei movimenti di pensiero che, focalizzando l’essenza dell’uomo, hanno sollecitato le coscienze verso l’importanza del rispetto dei Diritti umani.

 

Nell’antica Grecia, Socrate considerava l’uomo “libero” perché capace di dominare l’animalità con la razionalità; Democrito, giudicando l’uomo un essere pensante, lo riteneva capace di poter accedere alla verità; Platone attribuì all’uomo la facoltà di formarsi delle idee, contenuti del pensiero umano; Cartesio, con il suo cogito ergo sum, rimette al pensiero la certezza che l’uomo esiste in quanto essere pensante; e Locke, con un discorso sull’esperienza umana, fonte delle idee di ogni essere umano, introduce, per primo, nella storia del pensiero filosofico sull’uomo, il concetto che la libertà di ognuno è sempre condizionata dal rispetto verso gli altri, dal rispetto dei diritti naturali.[3]

 

Il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà e alla difesa di questi diritti, considerati diritti naturali, sin dal tardo Medioevo diventano contenuti di progetti politici da proporre per migliorare la vita comunitaria.

Il giusnaturalismo, rifacendosi come modello al diritto romano, si afferma così a garanzia di quei diritti naturali da rispettare al di là di ogni ordinamento positivo.[4] Questa corrente di pensiero ebbe il merito di iniziare un discorso molto importante che pian piano rovesciò il rapporto tra governanti e governati, e trovò la sua espressione di maggiore rilevanza politica nelle dichiarazioni dei diritti della fine del Settecento.

 

Rousseau scrisse l’Emilio nel 1762 e il Contratto Sociale nel 1763, anticipando le linee di un discorso politico che avrebbe preso il sopravvento nel 1798 con la Rivoluzione Francese. Nelle sue due opere, scritte di proposito allo stesso tempo, il filosofo ginevrino proponeva, nel Contratto, il tipo di governo giusto, a garanzia dei diritti civili per la libertà dei cittadini, nell’Emilio, il modello del cittadino libero, che un’educazione adeguata avrebbe reso tale.

 

Gli uomini sono riusciti gradualmente a capovolgere la contrapposizione tra potere delle leggi e potere degli uomini, e ciò trova effettivo riscontro in quegli atti legislativi che hanno permesso ai cittadini stessi di proporre leggi, conquistando una prerogativa che fino ad allora spettava solo ed unicamente al sovrano. Questi mutamenti iniziano in Gran Bretagna con la Petition of Rights del 1628 che, insieme alla Magna Charta e al Bill of Rights del 1689, costituiscono il fondamento costituzionale inglese.

Il Bill of Rights, a sessant’anni di distanza dalla Petizione, introduce per la prima volta un discorso innovativo dal punto di vista dei diritti del cittadino: é al Parlamento che viene data la facoltà di controllare, almeno in parte, il potere monarchico.[5]

 

Le leggi, da allora, hanno sempre più tenuto conto dei diritti umani a loro preesistenti. Con la prima Dichiarazione dei Diritti della Virginia del 1778, nella quale si legge: “Tutti gli uomini sono da natura egualmente liberi, e hanno alcuni diritti innati, di cui, entrando nello stato di società, non possono, mediante convenzione, privare o spogliare la loro posterità”, i diritti del singolo cittadino vengono contrapposti ai diritti della collettività. L’individuo conquista un posto di potere sia nei confronti della collettività, da cui si differenzia, che dello Stato, entrambi avendo nei suoi confronti degli obblighi, che corrispondono ai suoi diritti.

Questa é l’innovazione che tutte le dichiarazioni dei Diritti dell’uomo hanno apportato! La consapevolezza, l’esperienza, il riconoscimento che esiste un rapporto morale tra uomo e uomo, prima di quello giuridico, e che quindi esiste prima un diritto e poi un dovere, sono atti che rappresentano concretamente il frutto di una lunga e laboriosa ricerca del pensiero dell’umanità volta a proporre strumenti funzionali ad una convivenza pacifica.

 

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, capovolge il concetto di potere politico: non più dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto, dove il basso sono gli uomini che si aggregano per costituirsi in una volontà generale, tesa a far rispettare i propri diritti civili garantendo l’osservanza dei propri doveri.

 

Il colonialismo e i conflitti mondiali hanno aggiunto ulteriori contenuti al pensiero umano nella ricerca di strumenti idonei a combattere quelle forme di potere che in seguito sfociarono in forme di razzismo e di abuso verso le categorie più deboli. Il patto della società delle Nazioni nel 1919 non bloccò il dilagare dei pregiudizi razziali in Europa, che trovarono la loro piena affermazione negli anni trenta e quaranta, con lo scoppio del secondo conflitto mondiale.[6]

I tribunali di Norimberga e Tokio, dopo il secondo conflitto mondiale, condannando i criminali di guerra, affermarono che i crimini commessi erano stati crimini contro l’umanità e la pace.[7]

Il processo di decolonizzazione contribuì fortemente all’affermazione dei Diritti Umani: l’atto di riconoscimento dell’indipendenza ai paesi e ai popoli colonizzati del 16 dicembre 1960 affermò che assoggettare un popolo al dominio straniero è una negazione dei diritti fondamentali dell’uomo.

 

Esiste un punto nel discorso sui Diritti Umani che deve essere accettato da tutti: i diritti dell’uomo sono valori universali.

 

 La dichiarazione del 10 dicembre 1948, é un atto concreto, non un principio oggettivo, ma un dato soggettivo accolto dall’intera comunità umana. Questa dichiarazione è una grande prova storica data dal consenso di tutti coloro che pensano al futuro con un atteggiamento pacifico. Per costruire questo futuro devono essere innanzitutto rispettati i diritti di libertà, ossia i diritti individuali che garantiscono la negazione di ogni forma di costrizione imposta dalla volontà di un altro, i diritti civili, diritti che garantiscono la negazione di ogni forma di dispotismo, e i diritti sociali, che garantiscono i poteri di autodeterminazione all’interno di ogni collettività.[8]

 

Oggi la lista dei Diritti è in crescita continua, proprio perché il sistema sociale é articolato in sottosistemi che richiedono un riconoscimento ed anche un’evoluzione di pensiero.

Il diritto di vivere una vecchiaia decorosa, il diritto alla maternità, il diritto a proteggere la natura, i diritti degli animali, il diritto ad immigrare, il diritto ad avere un lavoro, il diritto… al rispetto del diritto, é un articolarsi, senza sosta, a causa della continua e veloce trasformazione della società, di richieste ed impegni per riconoscere categorie nuove di diritti che fanno parte della sfera dei diritti sociali.

I nuovi diritti nascendo dal mutamento che la società ha subito in questi ultimi cinquanta anni, sono diritti sociali intervenuti a fianco dei diritti naturali.

A dimostrazione che il cammino verso una vera forma di democrazia a livello mondiale è inarrestabile, qualche mese fa, è stata redatta a Nizza la Carta Europea dei Diritti, che si affianca alle tre carte fondamentali: Magna Charta, Bill of Rights e Carta dei diritti francese.

Un documento, la Carta Europea dei diritti, che rappresenta una grande conquista perché ha come finalità il riconoscimento che alla persona spetta l’inviolabilità della dignità, il rispetto della propria libertà e sicurezza, avendo alla base il concetto che tutti i cittadini dell’Unione Europea sono uguali davanti alla legge, indipendentemente dalla propria appartenenza nazionale.

 La Carta Europea non è un ulteriore documento sui Diritti Umani che si limiti a dividere i Diritti secondo criteri tradizionali. Il tema è affrontato con l’inserimento di capitoli che argomentano sulla dignità, la libertà e l’uguaglianza delle persone.

Per la prima volta in un documento internazionale compaiono i diritti civili e politici, i diritti economici e sociali, insieme ai nuovi diritti, quali la bioetica, la protezione dei dati personali, e il rispetto dell’ambiente.

 

b)  Me – Altro a confronto

 

 Con la redazione della Carta dei Diritti Europea, il ventesimo secolo chiude il suo processo storico, riscattando, se così possiamo dire, un tempo vissuto nel quale sono stati violentemente disconosciuti Diritti Umani di ogni genere. Lasciando però in eredità all’umanità, che prosegue il suo cammino verso il futuro, l’assoluta necessità di adottare comportamenti che rispettino l’altro nella sua diversità identitaria.

Le voci minoritarie emergenti dalle masse, la certezza di credere nelle proprie idee da parte di chi non ha mai accettato l’omologazione a stereotipi delle culture dominanti, hanno agito come vere forze sociali in lotta per il riconoscimento del concetto che non esistono persone medesime, ma persone nella loro diversità.

Le persone, i gruppi, i popoli, nel momento storico attuale in cui la tecnologia si è inserita come fattore di sconvolgimento verso una nuova forma di qualità della vita, hanno potuto utilizzare queste tecnologie per trasmettere messaggi-chiave in tempi brevissimi e renderli noti a tutto il mondo.

Far conoscere al mondo le deprivazioni, le violazioni alle libertà fondamentali dell’uomo, nonché l’esistenza di aree geografiche dove regna miseria che priva l’uomo di ogni forma di dignità, ha permesso un atto di denuncia di quei bisogni reali di sopravvivenza e di convivenza.

L’altro, a tutti i livelli, denuncia il bisogno di un riconoscimento da parte di chi persevera nel culturicentrismo, nell’etnocentrismo e nell’osservanza di modelli culturali stereotipati.

Non può esistere oggi convivenza che non riconosca le alterità, sia a livello micro che a livello macro. Relazionarsi, oggi significa inter-relazionarsi, tra relativismi e universalismi culturali.

Essere in grado, da parte degli uomini, di gestire le relazioni secondo schemi culturali in cui l’altro viene automaticamente rispettato nella sua diversità sarà la sola garanzia per un futuro pacifico, frutto di acquisizione di comportamenti trasmessi e appresi continuamente nel quotidiano.[9]

È così che il terzo millennio si prospetta come il tempo della globalizzazione, dell’avvicinamento dei grandi e piccoli spazi, dove però l’educazione permanente all’interazione inter-culturale sarà lo strumento prediletto per la comprensione dell’agire e valutare propri, e dell’agire e valutare dell’altro.

 

c) L’intercultura nell’educazione e nella didattica

 

L’integrazione, come coordinamento degli obiettivi di ogni gruppo culturale, è il fine dell’educazione interculturale.

L’Istituzione scolastica, a livello internazionale, in primis è stata chiamata a ridefinire i suoi compiti e quindi elaborare strategie d’intervento didattico per affrontare i mutamenti epocali del tempo che stiamo vivendo.

In Italia si concretizzano le direttive a livello istituzionale per adottare nella didattica l’intercultura con la C.M. 205 del 26 luglio 1990, in cui,in particolare, si definisce la posizione centrale del tema dell’educazione interculturale, e della sua trasversalità.[10]

 I progetti pilota per un’educazione interculturale, che prevedono anche collaborazioni a livello inter-istituzionale (tra Scuola, Enti e Organismi che operano a livello locale), sono stati elaborati grazie alle azioni per la diffusione dell’educazione ai Diritti Umani, iniziate sin dalla metà degli anni settanta.

Nel 1978, il Consiglio d’Europa, nominando un Comitato di esperti per l’educazione ai diritti, adotta, tramite il suo Consiglio dei Ministri, una importante Risoluzione sull’Insegnamento dei diritti umani, nella quale chiaramente viene specificato che tale insegnamento deve essere diretto anche ai livelli superiori dell’istruzione e in età adulta.

Sempre il Consiglio d’Europa, nel 1985 intraprende un’altra iniziativa sull’adozione di una Raccomandazione sull’insegnamento e l’apprendimento dei diritti umani nelle scuole, e raccomanda di procedere alla verifica di tale apprendimento.

Nello stesso periodo anche l’Unesco promuove numerose iniziative sempre dirette alla formazione. La Raccomandazione sull’educazione alla comprensione, alla cooperazione e alla pace internazionale e all’educazione relativa ai diritti dell’uomo e alle libertà fondamentali, è un’iniziativa del 1974.

Dagli inizi degli anni novanta, da parte degli organismi internazionali vi è un forte incitamento all’educazione ai diritti. Atteggiamento che sottolineerà nel corso degli anni successivi la connessione diritti umani-convivenza democratica, per un’educazione alla cittadinanza democratica, in un clima politico-internazionale fragile a causa dei numerosi conflitti sorti nell’area europea e orientale.

Vi sono due tappe significative che hanno definito la dinamica educazione-attuazione dei diritti umani : il Programma d’azione, una Dichiarazione e una Risoluzione relative ad un Progetto quadro d’azione integrato che riguarda l’educazione alla pace, ai diritti umani e alla democrazia, che vengono approvati a Ginevra, nella 44a sessione della Conferenza internazionale dell’educazione nel 1994, e la proclamazione del Decennio per l’educazione ai diritti umani che va dal 1995 a tutto il 2004.

L’Unione Europea, ha ulteriormente intensificato la promozione di un’educazione alla cittadinanza europea, nel rispetto dei diritti umani, sottolineando così il ruolo che ha l’educazione di insegnare a vivere secondo certi principi.

Ma, educare adottando nei programmi didattici l’intercultura, vuole anche dire fornire quegli strumenti che permettano di affrontare la realtà con una certa criticità, trovandoci di fronte ad una pluralità culturale, in presenza di valori non condivisi da tutti.

Questo problema può diventare critico quando ci troviamo di fronte a casi di persone, appartenenti a comunità, le quali non desiderano che ai loro figli siano presentate pluralità di punti di vista.[11]

Se analizziamo il terzo comma dell’art. 26 della dichiarazione del 48 che recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli” ci accorgiamo che potremmo trovarci in presenza di contraddizioni quando parliamo di diritto all’educazione, di educazione ai diritti ed educazione che rispetti i diritti. [12]

In effetti si sono verificati casi in ambito scolastico (ma anche nella comune vita di relazione fra persone di culture differenti), che denunciano una scarsa o assente propensione ad essere critici per costruire una società multiculturale, restando ancorati a proprie originarie certezze.

L’educazione interculturale, ormai riconosciuta come l’unica forma di educazione possibile nella società attuale, rischia, in effetti, di mettere in situazioni contraddittorie sia l’educando, che deve essere formato al meglio con il diritto a dissentire nel rispetto della propria identità, e sia l’educatore che agendo in buona fede potrebbe essere tacciato di condurre l’ allievo verso subordinazioni culturali.

Detto questo, sia il rapporto educando-educatore, nell’ambito dell’istruzione-educazione, sia il rapporto me-altro, nei comuni rapporti di relazione, riflettono nuovi atteggiamenti umani di apertura verso il “diverso”, spostando la sede del valore che fino a poco tempo fa era stata attribuita ad una classe, ad una razza, ad una cultura, ad un genere, verso soggetti culturali, focalizzando l’Essere come portatore di emozioni, valori e certezze.

 

d) Il diritto alla “diversità”

 

Il riconoscimento della persona unica diventa l’atteggiamento motore dell’attuazione della democrazia e della globalizzazione.[13]

Nell’atto del riconoscimento ogni uomo diventa mediatore tra se stesso e l’altro e viceversa, permettendo una situazione di confronto oggettiva in cui ad entrambi viene concessa la facoltà di conoscere il nuovo e di scegliere ciò che del nuovo può essere fonte di arricchimento.

 

Il riconoscimento, come ha evidenziato Hannerz[14], è legato alle relazioni tra alcune cornici del flusso culturale che avvengono sia tra le comuni persone (e qui l’educazione assume una valenza insostituibile), sia tra le istituzioni e i cittadini, cosi come attraverso processi di scambio economico e movimenti di pensiero che hanno la capacita’ di influenzare gli orientamenti di valore delle culture.

È l’intreccio di queste relazioni, subordinato ad interessi e bisogni differenziati nei vari campi della vita sociale e di relazione ad affermare o negare i diritti richiesti da specifiche categorie sociali.

 Un esempio, nel contesto italiano, è proprio l’aver riconosciuto all’immigrato condizioni di parità con i cittadini italiani ed alcuni diritti fondamentali, quali l’accesso al lavoro, all’abitazione, ai servizi sociali e alle istituzioni scolastiche.

Questo atteggiamento legato alle politiche sull’immigrazione, si deve all’attuazione della legge 40 del 1998 che favorisce le politiche d’integrazione.

L’immigrazione riguarda sia l’Italia che tutta l’Europa, ed è quindi destinata ad inserirsi in un quadro di politica comune dell’Unione Europea.

Infatti è interesse dell’Unione Europea controllare i flussi di entrata con misure restrittive al fine di tenere sotto controllo il fenomeno migratorio per meglio favorire il processo di integrazione per coloro che di fatto sono diventati cittadini di un territorio che li ospita.

La legge 40/1998 sull’immigrazione è finalizzata, nella sua piena attuazione, ad una corretta integrazione e crescita personale della persona immigrata, rimuovendo ogni forma di discriminazione nei confronti dello straniero in riferimento alla razza, al colore della pelle, all’appartenenza nazionale, etnica o religiosa, nonché alla tutela dell’identità culturale, religiosa e linguistica, fino a consentire un positivo reinserimento nel paese di origine.

Gli obiettivi della legge 40/1998 non fanno altro che affermare la presa di coscienza della presenza del fenomeno migratorio nel contesto italiano da parte di quegli organismi che definiscono le operazioni nella struttura sociale come le istituzioni, il mercato del lavoro ed economico.

 

Ogni forma di rivendicazione riferita al riconoscimento di emergenti diversità va sempre ad intaccare interessi multipli in ogni struttura sociale, e quasi sempre il tentativo, da parte di chi detiene il potere, è di non riconoscere affinché le diversità non si inglobino nel comune flusso culturale.

La storia, però, ci insegna che il processo del riconoscimento delle diversità non é arrestabile, come dimostrano le lotte dei movimenti femministi, operai, religiosi, culturali ed etnici.

Questo processo è legato all’uomo, alla sua evoluzione sociale, biologica, e principalmente alla evoluzione positiva del suo pensiero, evoluzione che ha permesso lo sviluppo delle coscienze, trasformando rigidi e inconfutabili sistemi di significato, in azioni di apertura verso il nuovo, sostenendo sempre più l’affermazione di diritto ad ogni liberta’ individuale e identitaria.


[1] Si consulti: W. R. Bian, Trasformazioni, Armando, Roma, 1973

[2] Vedi N. Elias, Pianeta dei diritti, Rinascita, 1, n. 17, 1990

[3] Su questi aspetti : “L’infinito nel pensiero dell’antichità classica”, La Nuova Italia, Firenze, 1956

[4] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, Giuffrè, 1999

[5] In : I. Brownlie, Documents and Human Rights, Oxford, 1983

[6] Vedi R. Villari, Storia contemporanea, Laterza 1990

[7] ibidem, Villari, 1990

[8] N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi contemporanea, 1992, pag.25-28

[9] Si veda: J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, pag. 33-34

[10] “L’educazione interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri”, in Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, Le Monnier, n. 71, 1995

[11] Le riserve di partecipazione a culture altre negli Stati Uniti vengono argomentate da S. Macedo in: Multiculturalism for the Religious Right? Defending Liberal Civic Education

 

[12] D. Palomba, N. Bertin (a cura di), Insegnare in Europa, comparazione di sistemi formativi e pedagogia degli scambi interculturali, Franco Angeli, Milano, 1993

[13] A questo proposito si consulti l’interessante saggio di A. Honnet: “Riconoscimento e Disprezzo, Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, Rubbertino, 1993

[14] U. Hannerz, La complessità culturale, L’organizzazione sociale del significato, Il Mulino, 1998