inserito in Diritto&Diritti nel ottobre 2001

L’antropologia del diritto e la gestione del conflitto

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di Barbara Faedda

 

 

a)     I compiti dell’antropologia del diritto oggi

 

Fuori dall’Italia esistono università le cui facoltà giuridiche, dopo aver proposto per anni corsi opzionali di antropologia del diritto, hanno attualmente deciso di introdurre tali corsi come “effettivi”. Ci si è resi conto che tale disciplina pone al centro dei suoi studi la sostanza e la funzione delle istituzioni giuridiche analizzate entro il contesto delle varie culture e tradizioni. Sovente il punto di partenza è la comparazione del moderno diritto occidentale con altre culture giuridiche anch’esse moderne. Lo studio dell’incontro/scontro tra queste due - o più - tradizioni risulta interessante, sia dal punto di vista teorico che, ovviamente, dal punto di vista pratico. Ecco, al riguardo, una osservazione di M.R. Ferrarese[1]: “I soggetti, cambiando luoghi, possono, a dispetto di uno statuto di cittadinanza che ancora li contrassegna, entrare in contatto con universi normativi diversi dal proprio”

La disciplina tratta diversi ambiti, tutti piuttosto pregnanti ed estremamente attuali: esaminando i conflitti tra cultura e diritti umani, essa approfondisce il dibattito sul significato del concetto stesso di diritti umani, concetto che si è sviluppato in un contesto specificamente occidentale, sovente criticato perché visto come ennesimo strumento di imperialismo occidentale. L’antropologia del diritto, come campo di studio e ricerca, analizza questa complessa tensione che circonda il concetto di diritti umani, arricchendo il dibattito con un dialogo decisamente e chiaramente interculturale.

Tale disciplina focalizza l’attenzione sul nuovo rapporto tra diritto e cultura risultante dal riconoscimento delle differenze culturali da parte del diritto stesso. Il riconoscimento dell’autonomia e del diritto di autodeterminazione di gruppi di minoranze rende necessario un bilanciamento tra i poteri di legittimazione di regimi autonomi con altri diritti fondamentali. Il riconoscimento del pluralismo è un fattore fondamentale in tali processi: non a caso una parte importante di tale disciplina è rappresentata proprio dallo studio dei diritti dei popoli indigeni.

Tali diritti, infatti, sono un esempio rilevante del cammino e della dinamicità dei meccanismi di pluralismo giuridico: molti popoli indigeni vivono in paesi con un sistema giuridico unificato, standardizzato, basato sulla tradizione giuridica occidentale o, comunque, almeno ispirato ad essa. Nella tendenza generale ad un pieno riconoscimento dei diritti collettivi dei popoli indigeni si scorge un orientamento riguardante, oramai, quasi tutti i “sottogruppi” del diritto: basati sulla questione dell’autodeterminazione e di un nuovo tipo di diritto “interculturale”, i diritti dei popoli indigeni toccano campi come il diritto di famiglia, il diritto di proprietà, la proprietà intellettuale, la gestione delle risorse naturali, il diritto alla salute, il patrimonio culturale, la libertà religiosa.

Focalizzando su tali questioni, l’antropologia del diritto evidenzia alcune questioni chiave: come si possono proteggere la tradizionale conoscenza ecologica e le pratiche dei gruppi locali al fine di facilitare la protezione ambientale e lo sviluppo sostenibile? Come è possibile che i diritti culturali collettivi rappresentino un reale contrappeso all’illimitato processo di globalizzazione determinato dalle cosiddette “forze di mercato”? In che modo riescono, infine, le strutture di autogoverno indigene ad offire un modello di gestione pacifica delle tensioni e dei conflitti etnici in tutto il mondo?

Lo studio dei diritti dei popoli indigeni conduce, inoltre, ad approfondire le note questioni legali riguardanti gli immigrati di cultura non occidentale; estremamente importante, ad esempio, la questione dello status legale degli aderenti alla religione islamica e ad altre religioni orientali, così come la situazione dei Sinti e dei Rom che, per certi versi rappresentano, da una prospettiva di diritti umani, un parallelo con i popoli indigeni. 

Il pluralismo giuridico è studiato soprattutto lì dove il diritto statale e il diritto locale (sarebbe più corretto dire “i diritti locali”[2]) offrono interessanti alternative per la rivendicazione dei diritti. Non a caso oggi si parla del nuovo influsso offerto dai cosiddetti “diritti di frontiera”: attraverso la cooperazione allo sviluppo, il commercio e le organizzazioni internazionali e le nuove istituzioni transnazionali di gestione delle dispute, forme e procedure giuridiche “diverse” entrano direttamente nelle arene nazionali, non filtrate né probabilmente ancora introiettate dalle istituzioni e dalle legislazioni nazional-statali. Le organizzazioni internazionali e transnazionali, infatti, introducono nuove nozioni legali e specialmente nuove modalità di “decision making” e di gestione del conflitto.

All’interno di una società multiculturale e pluralistica convivono, quindi, molte forme istituzionalizzate di risoluzione del conflitto basate su valori e soluzioni culturali diversi, considerati da diversi punti di vista. Talvolta alcuni metodi di risoluzione del conflitto che una volta risultavano non ufficiali o addirittura illegali oggi hanno ricevuto un riconoscimento formale; anche per questo l’antropologia del diritto si prefigge il compito di sviluppare criteri pratici per rendere i sistemi alternativi di risoluzione del conflitto compatibili con un più ampio sistema giuridico statale. In tale impegno l’antropologia del diritto esamina con estrema attenzione alcuni settori in continua evoluzione, molti dei quali in collegamento diretto con la “mediation issue”.

Gli anni sessanta del XX secolo, soprattutto negli Stati Uniti, hanno privilegiato gli studi e le analisi dei processi di composizione delle dispute: il conflitto è risultato particolarmente interessante perché probabilmente proprio nei momenti di rottura e riparazione si possono cogliere maggiormente il senso e il ruolo del diritto in rapporto al cosiddetto “ordine sociale”. Naturale, quindi, che nel passato così come nel presente l’antropologia del diritto si sia incontrata sovente anche con le scienze politiche e gli studi economici: oggi, ancor di più, la ricerca in senso interdisciplinare caratterizza tali aree di ricerca, in particolare gli studi statunitensi[3].

In tale studio del conflitto rientrano, ovviamente, gli studi antropologici sulla guerra, ricerche che anche in questo caso coinvolgono, più del solito, interventi di tipo interdisciplinare: scienziati di ogni settore alimentano, infatti, dibattiti che vedono da una parte i sostenitori dell’innata aggressività umana e dall’altra coloro che, invece, la confutano, riconducendo gli atteggiamenti aggressivi e guerreschi del genere umano a coscienti scelte culturali[4].

Sebbene l’antropologia non sia di certo la presuntuosa scienza dell’assoluta certezza, con un certo margine di sicurezza si può comunque affermare che il conflitto - più che la guerra - sia un comune denominatore delle varie culture del globo. Al conflitto ogni gruppo sociale, ogni comunità, oppone una soluzione particolare, peculiare della sua propria cultura. Esistono, in ogni modo, società che riescono a gestire il conflitto con modalità che ignorano l’aggressività e l’azione bellica; non si parla quindi di violenza organizzata né tantomeno di “cultura della guerra”. Così come esistono anche le cosiddette “guerre cerimoniali”, che non contemplano né spargimento di sangue né aggressività e danno. Si tratta in questi casi, più che altro, di modalità e di strumenti di rafforzamento dell’identità di gruppo, ulteriore e necessaria esternazione della rete interna di solidarietà comunitaria.

L’antropologia ha un suo preciso ruolo e “dovere deontologico” sociale: essa è uno strumento critico che nasce sulla volontà e curiosità di conoscenza dell’alterità, sul confronto – anche quando ai suoi albori è stato evoluzionismo ed etnocentrismo – tra culture ed universi simbolici. L’antropologia ha sempre tentato di “tradurre” le culture altre, così come da tempo intende interpretare la propria: U. Fabietti parla espressamente di “sapere ironico”, affermando che proprio in questo continuo dubitare delle proprie certezze e delle proprie teorie di riferimento risiede la vera forza della disciplina[5].

La cultura occidentale per tanto tempo non ha saputo cosa volesse dire rispetto per le altre culture: oggi si presenta la grande occasione di poter invertire la marcia ed iniziare un nuovo cammino. Si tratta, comunque, di una occasione piuttosto “obbligata”, visti soprattutto i sempre più numerosi e acuti conflitti vivi in ogni parte del globo, che la grande e onnipotente civiltà occidentale, bianca, democratica e ipertecnologizzata non sempre riesce a gestire nel migliore dei modi.

La teoria del relativismo culturale ha rappresentato, senza dubbio, un grosso passo avanti nella lotta agli atteggiamenti etnocentrici e razzisti, sebbene ancora a volte non sia ben chiaro se l’occidente abbia saputo trovare un vero equilibrio in tal senso. Ecco una riflessione di V. Matera al riguardo[6]: “Non essere etnocentrici – applicare, in una certa misura, il relativismo culturale – non significa, però, diventare “altri”. Ciò che non dovrebbe essere consentito è l’ignoranza delle differenze, da cui derivano tutti gli atteggiamenti di stupidità, prevaricazione, razzismo che caratterizzano le dinamiche del contatto fra individui appartenenti a tradizioni culturali diverse (Signorini 1992). Anzi, una certa dose di attaccamento ai propri valori culturali può essere creativa, favorire la dinamica dei processi culturali, ostacolare l’omologazione culturale”.

 

 

 

b)     La gestione del conflitto

 

Il conflitto, così come la violenza[7], rappresenta un fenomeno piuttosto naturale e comune nelle relazioni umane, ad ogni livello, sia interpersonale che globale: in tal senso esso presenta delle caratteristiche e delle dinamiche piuttosto ricorrenti. Di norma si considera che un conflitto nasca sulla base di uno slittamento per così dire “valoriale”: sono cambiati gli interessi e i valori ed alcune necessità non vengono più soddisfatte. Le modalità di risoluzione sono piuttosto numerose: violenza e guerra, rinuncia e capitolazione, temporanea deintensificazione delle asperità, etc. in questi modi il conflitto non finisce né esaurisce la sua forza e ragion d’essere: perde, solo momentaneamente, la sua intensità.

Mentre si considera piuttosto agevole la gestione di un conflitto basato su uno scontro di interessi, si reputa assolutamente più difficile affrontare invece lo scontro di valori. E’ estremamente complicato per le parti in conflitto, e questo succede anche con l’assistenza di una parte esterna, trovare un modo, una soluzione che possa soddisfare i bisogni di tutti e in egual misura. Assurdamente, spesso è proprio l’intensificazione del conflitto stesso che procura una risposta più soddisfacente ad una delle parti in disputa o ad entrambe. Il mediatore, l’intermediario, la terza parte non rappresenta certamente il deus ex machina del conflitto: queste figure non possono risolvere il conflitto, hanno la possibilità solamente di “facilitare” l’iter percorso dalle parti nel loro sforzo e tentativo di risolvere la disputa[8].

In ogni modo, esistono dei conflitti che senza la terza parte sarebbero probabilmente realmente irrisolvibili: le percezioni reciproche e le questioni stesse del conflitto sono talmente parziali, talmente limitate, che non possono portare ad una soddisfazione reciproca, ad un mutuo beneficio o ad opzioni integrative, anche quando si registrasse un desiderio di “sistemazione” e “canalizzazione” di tali differenze. E’ proprio in tali casi che le terze parti possono essere di maggior ausilio, apportando al conflitto la loro conoscenza ed esperienza, la loro prospettiva e ovviamente anche potere e forza: esse possono proporre opzioni fino a quel momento probabilmente non considerate, non ipotizzabili né attuabili. Il mediatore può aiutare a comprendere cosa rende ogni parte nemica dell’altra, quali sono le particolari condizioni sociali, politiche ed economiche, quali le dinamiche, le idee, le ideologie, le errate interpretazioni (le misunderstandings) che conducono al conflitto.

Quindi, laddove non sia possibile una negoziazione bilaterale, ossia un accomodamento del conflitto grazie all’intervento delle sole parti in causa, si individuano - tra le modalità non giurisdizionali di risoluzione pacifica dei conflitti - essenzialmente due categorie: la mediazione e l’arbitrato[9]. Nella prima il mediatore aiuta le parti in conflitto a trovare insieme la soluzione ai loro problemi, non propone una soluzione né tantomeno ne impone una. La seconda prevede un arbitro che, invece, personalmente formula la soluzione stessa, proponendola alle parti che, però, in questo caso – continuiamo a parlare di modi non giurisdizionali - non sono inevitabilmente costrette ad accettarla. Si entra, invece, nelle modalità giurisdizionali quando si parla di una terza parte che interviene “come giudice di un litigio[10]”. In questi casi la decisione viene imposta alle parti in conflitto.

Rimandando a futuro dibattito l’analisi delle numerose teorie e delle varie scuole di pensiero in tal senso, si intendono in questa sede sottolineare alcune interessanti peculiarità dei processi di mediazione e risoluzione pacifica dei conflitti.

Sebbene si faccia un gran parlare di mediazione e gestione pacifica dei conflitti, si può, in un certo senso, affermare che tali strumenti siano, ancora oggi, piuttosto “sottoutilizzati”. Probabilmente la ragione non risiede nel fatto che tali meccanismi non siano abbastanza conosciuti e i loro effetti benefici poco divulgati, ma piuttosto nel fatto che l’alternativa ad essi - e in questo senso si parla propriamente di scontro aperto così come di contenzioso - viene considerata, in un certo qual modo, assai più rassicurante, allettante e gratificante.

La risoluzione pacifica e la mediazione vengono vissute quasi come una privazione di quei benefìci psichici che paiono scaturire invece dal contenzioso, da un regolamento pubblico gestito dall’autorità istituzionale. Una osservazione piuttosto divertente, ma non per questo poco probabile, di uno studioso è quella secondo cui per alcuni avvocati, soprattutto se spinti dal desiderio di crearsi una buona reputazione come “leoni del foro”, il contenzioso risulta più utile e di certo canale privilegiato per riuscire ad esprimere, utilizzare e pubblicizzare proprio le loro competenze retoriche .

Alcuni teorici del conflitto affermano che i bisogni soddisfatti dal contenzioso sono fondamentalmente tre: 1) il bisogno di infliggere la pena al nemico; 2) il bisogno di assicurare la vendetta pubblica; 3) il bisogno di trovare “rifugio” nel ruolo della legge. Gli individui (soprattutto poi quando ritengono di avere ragione in un conflitto o in una disputa, e questo avviene sovente) hanno bisogno di una attestazione, una legittimazione, insomma una affermazione sociale della loro ragione e della loro assoluta innocenza all’interno del conflitto, e il foro pubblico dei tribunali provvede ad offrire tale garanzia, tale opportunità di risultare nel giusto agli occhi dell’intera cittadinanza, dei propri simili. Accade, così, che per alcuni un giudizio favorevole di un tribunale risulti essere una affermazione personale di incalcolabile valore.

Anche il bisogno di protezione che tutti noi sentiamo, soprattutto dalle brutture del mondo e quindi anche dai mali provocati dai nostri simili, trova nelle istituzioni giuridiche – soprattutto in quelle più “formalizzate” - una protezione maggiore rispetto ai “semplici” interventi umani non istituzionali, quelli cioè informali. I più alti livelli della giustizia appaiono, quindi, i principali garanti nel correggere gli errori della corruzione e della fallibilità umane.

A questi bisogni la mediazione appare offrire perciò una ben limitata risposta: essa per sua natura non è autoritaria, evita sempre che vi sia una pubblica vendetta, è privata ed “officiata” senza le costrizioni formali, i riti e i ruoli “sacri” del ricorso istituzionale.

Sembrerebbe, a questo punto, che la “missione” dei mediatori possa risultare praticamente impossibile. Ma a ben riflettere, si nota che le vie alla risoluzione alternativa - a dispetto di questi bisogni così forti – non sono poi totalmente ostruite. In realtà, il bisogno di infliggere la pena all’avversario si indebolisce velocemente dopo che la fiamma del fuoco del contenzioso si è spenta. La preoccupazione, a volte il genuino dispiacere, per il contenzioso in atto può far scemare il piacere di infliggere la pena all’avversario. Non pochi affermano, infatti, che ciò che rimane dopo qualche tempo dall’inizio dell’iter giudiziario è spesso niente di più che un genuino e serio bisogno di sfogarsi.

Si può ragionare anche in termini di linguistica[11]: il verbo mediare vuol dire “in un contrasto, arrivare ad un’intesa, a un accordo, a un accomodamento con la mediazione di qualcuno”, e mediatamente significa quindi, essendo avverbio, “in modo mediato”. L’aggettivo immediato vuol dire “che è in relazione con qualcuno o qualcosa senza interposizione” e tra i vari altri significati si legge anche “non meditato, impulsivo, incontrollato”. Agire immediatamente vuol dire, quindi, “senza nessuna frapposizione o interruzione”, ossia senza alcun intervento mediatore e sulla scorta di scelte non ragionate e poco razionali. Non sarà superfluo aggiungere che il verbo meditare - così simile al verbo mediare ed anche al verbo medicare - voglia dire “considerare a lungo e attentamente, fare oggetto di riflessione”. Il conflitto “immediato” è, quindi, quello che si vive sull’onda delle emozioni, della rabbia e della frustrazione. Il conflitto “mediato” è quello ragionato a tavolino, mitigato da una atmosfera di serenità e buona disposizione, caratterizzato dalla volontà generale di giungere ad un nuovo risultato, costruttivo e positivo per tutti, grazie all’intervento di una terza parte.

Gli approcci di mediazione e conciliazione comprendono, quindi, inevitabilmente, il dialogo tra le parti, per parlare e ragionare intorno ad un tavolo di negoziazione e con atmosfera serena e costruttiva circa ciò che è successo, perché è successo e soprattutto cosa si intende fare per il futuro. Del resto lo “stress da conflitto” non risparmia proprio nessuno: gli stessi menager passano un lasso di tempo piuttosto rilevante a dirimere controversie e gestire i conflitti interni alle aziende. Se non si intendono, perciò, avanzare considerazioni dal punto di vista umano si deve almeno valutare l’enorme dispendio di energie e di denaro che il conflitto inter-aziendale comporta.

Nell’opera di mediazione, in realtà, si cerca innanzitutto di trovare elementi in comune alle parti in conflitto: nella loro diversità si “scoverà” senza dubbio un valore, un atteggiamento, una norma, una consuetudine che risulterà condivisa, o comunque apprezzata, e quindi accettata, da ambedue le parti in disputa. È ciò che avviene anche nell’ambito del commercio internazionale, lì dove oramai i paesi che contraggono accordi si basano su principi generali del diritto e soprattutto su principi “comuni” ai loro rispettivi diritti.

Di certo, ciò che maggiormente è da evitare nella gestione dei conflitti è ogni atteggiamento etnocentrico, il considerare cioè i comportamenti e i valori delle altre culture unicamente sulla base dei propri valori di riferimento e quindi della propria cultura. Esso, infatti, conduce a non pochi problemi e conseguenze e la sfera del diritto non ne è di certo esente: reputare la propria cultura giuridica “normale”, “naturale” e “universale” comporta, ovviamente, la valutazione di culture giuridiche altre - soprattutto quando sono piuttosto lontane dai propri stili di vita e dalle proprie consuetudini - “anormali”, “primitive” o “barbare”. Essere etnocentrici in una società sempre più multiculturale diventa, quindi, fonte ulteriore di conflitto, alimentato soprattutto da fallaci interpretazioni delle culture e dei diritti altri. Già una buona e corretta interpretazione dei comportamenti degli altri facilita una visione maggiormente chiara e nitida, e di conseguenza – soprattutto nei momenti di conflitto – aiuta a lavorare con maggiore serenità e correttezza sulle probabili soluzioni o quantomeno su “tappe di progresso” del conflitto stesso. Estremamente significative, in tal senso, le parole di M.I. Macioti in rapporto soprattutto all’immigrazione[12]: “I tempi richiedono la ricerca di punti di convergenza e di equilibrio fra differenti universi di significato, valori e norme che si rifanno a vari modi di pensiero, a credenze religiose diverse. Se l’equilibrio non verrà raggiunto, saranno inevitabili conflitti e forme più o meno gravi di anomia, con grave danno non solo degli immigrati ma anche delle società meta della immigrazione”.

Particolarmente utile, soprattutto per i professionisti del diritto, risulta essere anche la valutazione dei termini usati nelle specifiche situazioni giuridiche e verificare innanzitutto se termini simili – o che si percepiscono ed arguiscono come tali - comprendano realmente la medesima ampiezza di situazioni e comportamenti, la stessa gradualità, la stessa intensità. Un ulteriore ausilio è, inoltre, rappresentato dalla individuazione e successiva analisi dei propri pregiudizi. Questo, senza dubbio, è stato – ed è tuttora –uno dei maggiori contributi delle discipline etnoantropologiche.

 

 

c)      Conflitto etnico, cultura, mediazione

 

Molti reputano che siano proprio i conflitti etnici, soprattutto quelli tra minoranze e maggioranze etniche, ad essere i meno gestibili: possono essere momentaneamente “accomodati”, ma raramente risolti in maniera definitiva. Le parti in causa, generalmente, rappresentano un impedimento reciproco alla soddisfazione dei bisogni umani basilari altrui: una identità non riconosciuta, minori opportunità di sviluppo, la propria cultura minacciata. Particolarmente interessanti sono le parole di F. Remotti a questo riguardo[13]: “Vi è tensione tra identità e alterità: l’identità [...] si costruisce a scapito dell’alterità, riducendo drasticamente le potenzialità alternative; è interesse perciò dell’identità schiacciare, far scomparire dall’orizzonte l’alterità. La tesi che si vuole sostenere è che questo gesto di separazione, di allontanamento, di rifiuto e persino di negazione dell’alterità non giunge mai a un suo totale compimento o realizzazione. L’identità respinge; ma l’alterità riaffiora. [...] Vi è da chiedersi se l’emarginazione e la negazione dell’alterità non siano gesti dovuti al fatto che l’alterità si annida nel cuore stesso dell’identità [...]”

Le percezioni culturali sono – come già precedentemente accennato - un fattore determinante nei conflitti, soprattutto nelle situazioni di conflitto etnico. I punti di vista, le norme, le consuetudini, i principi, i valori attraverso i quali le parti in disputa interpretano il mondo, sono fattori cruciali per comprendere, analizzare e gestire il conflitto. Gli esperti sanno con certezza – ma oramai qualsiasi individuo mediamente informato sugli eventi del globo ne ha percezione – che, spesso, quelle che vengono considerate da più parti risposte razionali e ragionevoli al conflitto etnico nella realtà, invece, hanno poca applicabilità e quindi poco successo, perché ogni minima componente di tali risposte è ideata e “programmata” secondo i propri modelli culturali e mentali e le proprie percezioni di cosa dovrebbe essere una “risposta razionale”.

Per i professionisti della mediazione e della risoluzione pacifica dei conflitti alcune domande cruciali riguardano la modalità attraverso la quale uno specifico conflitto è percepito dalle parti in disputa, l’identità del gruppo etnico e la focalizzazione dei fattori specifici che definiscono per il gruppo stesso il concetto di inclusione o esclusione. È inevitabile quindi oramai - più che necessario - incoraggiare la creazione di un punto di vista mondiale, globale e di una identità, per così dire, “espansa”. Il ruolo della comunità internazionale acquista, in tal senso, una piena e reale legittimità proprio nel momento in cui il gruppo etnico inizia a volgere lo sguardo oltre se stesso e ad identificarsi anche come membro della stessa comunità internazionale. Estremamente significative, in tal senso, le parole di Arjun Appadurai[14]: “Abbiamo bisogno di pensarci al di là della nazione. Dico questo non perché io creda che il pensiero da solo ci condurrà oltre la nazione, o che la nazione sia soprattutto un pensiero o un oggetto immaginato, ma piuttosto per suggerire che il compito del nostro lavoro intellettuale sia quello di riconoscere l’attuale crisi della nazione e fornire quindi gli strumenti per individuare forme sociali postnazionali”.

Il concetto di cultura va, quindi, inteso come centrale all’etnicità e al conflitto etnico, soprattutto per i peacemakers, i negoziatori e i mediatori. È necessario comprendere a fondo come ciascun gruppo culturale concepisce, interpreta e crea immagini del conflitto e della pace. Importante è il passaggio dalla riflessione personale ed individuale alla individuazione e visualizzazione di gruppo delle immagini collettive.  È doveroso un primo chiarimento: il conflitto etnico fuoriesce dalle righe di un “classico” conflitto tra stati sovrani e si focalizza più sulla interazione di unità culturalmente definite. Da questa prospettiva, come si è appena visto, il conflitto tra tali unità è una normale conseguenza di percezioni differenti, di diversi sistemi di valori. Scrive J. Angstrom[15]: “The usage of “ethnic conflict” thus reflects a different organizing priciple that only rarely coincides with the traditional division of the world into states”.

Con la fine della guerra fredda ci si è auspicati un nuovo ordine mondiale basato su principi di pace ed imparzialità sopranazionale, soprattutto per l’opera delle Nazioni Unite; questo sogno o, più correttamente, questo programma si è, però, più volte infranto contro le asperità del moderno conflitto etnico: le battaglie tribali in Somalia, il problema dell’Iraq con la minoranza curda, il genocidio in Rwanda e Burundi, la situazione yugoslava hanno mostrato al mondo che proprio i conflitti etnici possono vanificare e cancellare ogni speranza di un nuovo ordine mondiale e di una nuova “cordiale” stabilità internazionale.

Innegabile che la stessa comunità internazionale abbia lavorato per trovare metodi di risoluzione a tali conflitti, ma indubbio anche che si sono evidenziati alcuni punti deboli, alcune “fragilità”: spesso i politici si basano su valori, principi e assunzioni basate sulla cultura e sulla forma mentis tipiche del vecchio mondo. Essi trattano perciò questi conflitti allo stesso modo in cui trattarono il tradizionale conflitto interstatale, ignorando cioè la natura unica del moderno conflitto etnico. I conflitti “tradizionali” della guerra fredda si basavano su politiche di guerra e di bilanciamento di potere interstatale; il moderno conflitto etnico sorge non tanto dalle politiche interstatali quanto da una psicologia di gruppo e da odi reciproci.

La guerra etnica esiste probabilmente da tempi lontani, ma la storia del ventesimo secolo ne ha trasformato la natura. Al termine del secondo conflitto mondiale le nazioni vittoriose, con molta retorica circa il fatidico nuovo ordine mondiale, hanno stabilito che le Nazioni Unite gestissero e governassero questo nuovo ordine. La Carta delle NU si basò su due principi che oggi possono apparire non di rado teoreticamente opposti: l’integrità territoriale e l’autodeterminazione. Questi principi poggiano fondamentalmente su una falsa assunzione: che il mondo è composto da stati-nazioni, che i confini delle nazioni e degli stati coincidano perfettamente. Ma sappiamo che così non è. La prima inconfutabile prova di ciò scaturì appena i capi dei paesi vittime della colonizzazione colsero il principio di autodeterminazione per sostenere la loro stessa decolonizzazione. Non appena le colonie insorsero per l’indipendenza alla quale loro, come nazioni, credevano di aver diritto, scoprirono che entro i loro stessi confini esistevano minoranze nazionali che desideravano lo stesso identico diritto.

Alcuni studiosi e teorici della gestione e risoluzione pacifica del conflitto ritengono che esistano delle soluzioni - o comunque delle modalità per far progredire positivamente le dispute - ma che per fare questo sia assolutamente necessario riconoscere che i metodi tradizionali di risoluzione del conflitto internazionale falliscono perché questi metodi non furono ideati per i moderni conflitti ma per i tradizionali conflitti interstatali. Il moderno conflitto, come già accennato, è differente nella natura e nelle dinamiche e quindi il metodo di risoluzione deve tenere conto di queste differenze. Un metodo effettivo di risoluzione del conflitto deve essere basato, quindi, su intuizioni ottenute attraverso una più ampia prospettiva specificamente culturale.

Hugh Miall afferma che “la maggior parte dei conflitti etnici coinvolge i diritti di gruppi a mantenere la loro identità per avere uguale status rispetto agli altri gruppi e avere uguale accesso al potere decisionale”. Il moderno conflitto etnico è sovente violenza tra due gruppi entro uno stesso stato che vive al suo interno una grave questione legata ai concetti di etnicità ed identità. Non è combattuto tra due stati differenti, ma tra uno stato governato da un gruppo dominante e un altro gruppo che si sente oppresso o discriminato. Alcuni ritengono che tali conflitti nascano dalla competizione per risorse scarse o quando intervengono difficoltà economiche, ma più di uno studio ha dimostrato che alcuni conflitti non sono affatto nati sulle difficoltà economiche. Le tensioni etniche non sorgono necessariamente in tempi di transizione economica quanto, invece, in tempi di transizione politica, quando a spostarsi è il potere di un gruppo relativamente ad un altro, causando quindi una perdita di equilibrio. Quando tale transizione è accompagnata dalla trasformazione di istituzioni politiche, spesso l’etnonazionalismo (e la conseguente tensione etnica) viene anche usato dalla elite politica per distanziare se stessa dal regime precedente. In tempi di transizione, quando le istituzioni politiche che normalmente canalizzano il conflitto sociale non esistono o non riescono ad assolvere il loro compito, il conflitto non trova strade pacifiche da percorrere e diviene violento. Le istituzioni e le ideologie usate in passato per mobilitare le “masse” risultano, quindi, delegittimate e i politici emergenti si rivolgono all’unico mezzo efficace per la mobilitazione politica: l’etnicità[16]. È un normale atteggiamento umano formare gruppi per combattere i sentimenti di insicurezza ed aumentare quelli di sicurezza. Una volta formatisi tali gruppi, il favoritismo per il “noi” contro il “loro” si pone automaticamente.

Alcuni ritengono che il conflitto etnico sia il più forte e “sentito” perché con esso si ragiona in termini di “mortalità”: l’etnicità è una eredità trasmessa biologicamente e, così facendo, essa rappresenta una sorta di garanzia di immortalità. I legami etnici sono biologici e quindi immutabili, mentre tutti gli altri legami sono teorici e possono, per questo, essere cambiati o completamente abbandonati in qualsiasi momento. I legami etnici vengono percepiti come l’unità sociale più attendibile, una estensione della famiglia; essi diventano l’unica costante, l’unica certezza. E la stabilità acquisita può riflettere ovviamente la sua controparte negativa su tutto ciò che non rientri in tale affiliazione. Spesso tale affiliazione, che può divenire con una certa facilità etnonazionalismo, offre anche un capro espiatorio nei momenti di crisi: è per questo che molti critici e storici affermano oggi che Hitler riuscì ad usarlo per indirizzare tutti i problemi e le carenze della Germania sugli Ebrei.

Il conflitto ha ovviamente una o più cause, ma non è scoprendo queste che si riesce a sradicare il problema. Una volta avviato, il procedimento conflittuale non morirà solo perché è scomparsa la sua causa. Bisogna studiare, analizzare e trattare, infatti, la natura stessa del conflitto, la struttura e l’organizzazione, non solo le sue cause. Ogni conflitto è principalmente basato su identità e su simboli. Il conflitto etnico poggia essenzialmente sul diritto di avere una identità, il diritto di reclamare certi simboli come propri, il diritto di essere uguali agli altri, e spesso anche il diritto di esistere. Ciò vuol dire che qualsiasi figura di mediazione deve prestare molta attenzione alla natura simbolica di tutte le azioni, rendendosi conto che, il più delle volte, le questioni chiave interne al conflitto non saranno materiali, bensì simboliche. Il punto cruciale di molti conflitti rimane essenzialmente, ancora, lo stato-nazione e le parole di M. Walzer scelte per chiudere questa trattazione spiegano forse meglio di ogni ulteriore concetto la situazione in esame[17]: “Lo stato nazionale non è affatto neutrale nei confronti della molteplicità delle storie e delle culture. Il suo apparato politico è un motore di riproduzione nazionale. I gruppi nazionali mirano a costituirsi in stato proprio per controllare i mezzi di riproduzione [...] Nemmeno assetti di tipo corporativo sono molto comuni: lo stato nazionale è in se stesso una specie di corporazione culturale e al proprio interno pretende di avere il monopolio su tali assetti”.

 

 

Barbara Faedda

 

 

 


[1] Ferrarese M.R., Le istituzioni della globalizzazione, Mulino, 2000.

[2] M. Chiba afferma al riguardo: “Il significato letterale di pluralismo giuridico e le sue realtà nel mondo richiedono di andare oltre la duplice struttura per intravedere più forme. A noi non occidentali, ad esempio, rincresce l’indifferenza generale degli studiosi occidentali nei confronti dei propri esempi di pluralismo giuridico, fatta eccezione, in tempi recenti, per un crescente interesse nei confronti delle loro culture giuridiche. {...} L’intera struttura operativa del diritto di ciascuna entità sociogiuridica è una forma di pluralismo giuridico, con tratti diversi da entità a entità. Le differenze tra le stesse non sono altro che la presentazione dei tratti culturali del diritto delle entità individuali, comparabili tra loro come cultura giuridica”, estratto da: Una definizione operativa di cultura giuridica nella prospettiva occidentale e non occidentale, in Concetti e norme. Teorie e ricerche di antropologia giuridica, a cura di A. Facchi e M.P. Mittica, Franco Angeli, 2000.

[3] Valga per tutti l’esempio di una rivista americana specializzata, “The journal of conflict resolution”, che raccoglie gli studi, le ricerche e gli approfondimenti di esperti di antropologia, storia, scienze politiche, psicologia, studi internazionali, economia, sociologia, etc.

[4] In tal senso si rimanda alla nota Dichiarazione di Siviglia sulla violenza, in Diritti umani. Riflessioni e prospettive antropologiche, a cura di A. Santiemma, Euroma, 1998.

[5] Fabietti U., Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Laterza, 1999.

[6] Fabietti U. – Malighetti R. – Matera V., Dal tribale al globale. Introduzione all’antropologia, Bruno Mondadori, 2000.

[7] Tra i molti antropologi che hanno studiato l’origine e le espressioni della violenza, P. Clastres sostenne, ad esempio, che le società cosiddette primitive, poiché non ignorano il potere dello stato, usano proprio la guerra per opporvisi (Clastres P., Archeologia della violenza, Meltemi, 1998).

[8] N. Rouland al riguardo afferma: “Contrariamente ad un pregiudizio diffuso, il regolamento di un conflitto non è sinonimo della sua soluzione: il conflitto può proseguire o cambiar forma anche dopo che è stata presa una decisione che si reputa idonea a porvi fine”, in Antropologia giuridica, Giuffré, 1992.

[9] Rouland N., Antropologia giuridica, Giuffré, 1992, pag. 296 e segg

[10] Rouland N., op. cit.

[11] Tutte le voci in esame sono tratte da Il nuovo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, XI edizione, Zanichelli.

[12] Macioti M.I. – Pugliese E., Gli immigrati in Italia, Laterza, 1998.

[13] Remotti F., Contro l’identità, Laterza, 2001.

[14] Appadurai A., Modernità in polvere, Meltemi, 2001.

[15] Angstrom J., The international dimension of ethnic conflict, in “Studies in Conflict & Terrorism”, volume 24, no. 1, 2001.

[16] Gellner E., Antropologia e politica, Editori Riuniti, 1999; Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, 1985.

[17] Walzer M., Sulla tolleranza, Laterza, 2000