*** Il nostro ordinamento giuridico,
essendo ispirato al principio d’eguaglianza di tutti i cittadini davanti
alla legge, sancisce l’obbligatorietà della norma penale. Di
conseguenza, all'interno dei confini dello Stato, essa deve essere
applicata a prescindere dalla nazionalità e dalle condizioni personali
del reo a tutti coloro che si vengano a trovare al suo interno.
Detto principio, sancito dall'art. 3
del codice penale, al primo comma, include tra i destinatari del precetto,
sia i cittadini, sia gli stranieri e fa salve "le eccezioni stabilite
dal diritto pubblico interno o internazionale". L'applicazione della
legge penale allo straniero è motivata dall'intrinseca natura delle norme
penali che, mirando essenzialmente al soddisfacimento di finalità
pubbliche, devono presidiare il territorio dello Stato, tanto più se si
considera che il ricorso, in ambito penalistico, a norme straniere
finirebbe con il tradursi in un inammissibile vulnus alla sovranità
statale.
L'art. 3 c.p. è ispirato, secondo la
dottrina maggioritaria, al principio di territorialità, che àncora ad un
dato ambito spaziale la sovranità e l'indipendenza dello Stato. Tale
principio è tuttavia temperato dalla maggiore estensione data
all'obbligatorietà della legge penale che, per espressa previsione del
capoverso dell'art. 3, vincola, limitatamente ai casi stabiliti dalla
legge medesima o dal diritto internazionale, anche i cittadini o gli
stranieri che si trovino all'estero.
Pur avendo il principio di
obbligatorietà, carattere assoluto (chiunque, è tenuto all'osservanza
della legge penale), non sono marginali i casi di sottrazione del reo
all'applicazione della sanzione, accomunati nell'ampia categoria delle
immunità, nella quale sono state inserite situazioni distinte,
disomogenee per ratio, contenuto e fonte, ma generalmente contraddistinte
dall'effetto finale della rinunzia dello Stato all'esercizio del potere di
coercizione.
Fisiologicamente, è stata avvertita,
in questo contesto, l'esigenza di classificare le varie ipotesi di immunità,
sistemandole sulla base dei parametri ad esse comuni, e ciò sulla base
delle difficoltà terminologiche e di quelle connesse al numero, assai
elevato, degli organi che ne usufruiscono: la dottrina ha così provato a
distinguere, ad esempio, le immunità assolute, che si estendono a tutti i
reati, da quelle relative, che concernono, invece, solo una quota dei
crimini commessi dal soggetto titolare, in altre parole a sceverare
l'immunità funzionale da quella extrafunzionale, solo la prima protraendo
i suoi effetti dopo la cessazione della carica, e l'immunità sostanziale,
in forza della quale il fatto posto in essere non costituisce reato, da
quella processuale, che determina la frapposizione di ostacoli, limiti o
impedimenti all'esercizio del potere giurisdizionale nei confronti dei
soggetti immuni.
Chiarito che il carattere
“eccezionale” delle immunità, espressamente indicato dall'art. 3 c.p.,
preclude l'adozione, in questo campo, di criteri di interpretazione
analogica (in tal senso si è espressa, ancora di recente, la
giurisprudenza di legittimità), va detto che fonte di immunità può
essere sia l'ordinamento interno che il diritto internazionale: nell'un
caso, la previsione normativa mira a garantire e proteggere la libertà di
espletamento di determinate funzioni o uffici di particolare importanza
per il corretto funzionamento del nostro sistema politico, laddove
nell'altro viene in gioco l'esigenza di preservare, a presidio della
pacifica convivenza tra i popoli, lo stato delle relazioni internazionali,
l'interesse pubblico sovranazionale cui sono preordinate determinate
cariche ovvero la neutralità del ruolo svolto dall'agente.
La disciplina regolatrice dei casi
d’immunità di diritto interno si rinviene nella Carta Costituzionale ed
in successive leggi costituzionali, laddove quelli di diritto
internazionale trovano, invece, riconoscimento negli artt. 10 e 11 Cost. e
puntuale descrizione in Trattati, Convenzioni e Protocolli internazionali,
spesso resi esecutivi in Italia attraverso leggi ordinarie.
Quanto alla natura giuridica delle
prerogative, variegato è il panorama delle posizioni assunte dalla
moderna scienza giuridica: un autorevole studioso, in specie, ha sostenuto
che esse costituirebbero altrettante eccezioni al principio di
obbligatorietà della legge penale - al quale, dunque, dovrebbe essere
riconosciuta valenza relativa e non assoluta -, connesse alla condizione
dei titolari, che dovrebbero essere perciò considerati "legibus
soluti". Detta tesi è stata, però, oggetto di severe critiche,
essendosi osservato che un fenomeno di vera e propria "legibus
solutio" si ravvisa per i soli Capi di Stato esteri, che godono
contemporaneamente di immunità funzionale ad efficacia sostanziale ed
extrafunzionale ad efficacia processuale, non dovendosi peraltro
dimenticare che la Convenzione di Vienna del 1961 prevede, all'art. 41,
che anche i soggetti che usufruiscono delle immunità di diritto
internazionale, sono tenuti a rispettare le leggi e i regolamenti dello
stato accreditatario.
Un certo successo ha conosciuto,
alcuni decenni or sono, la costruzione dogmatica che, partendo dalla
nozione di capacità giuridico-penale, intesa quale capacità di essere
soggetto di diritto penale, ne ravvisa gli elementi costituitivi
nell'imputabilità o capacità di intendere e di volere e, in negativo,
nell'assenza di cause di immunità. A fronte di tale tentativo, si è
obiettato come arbitraria appaia la sovrapposizione tra istituti affatto
differenti, riguardanti, l'uno (l'imputabilità), al piano naturalistico
della condizione psichica del soggetto e, l'altro (l'immunità), a quello
delle scelte istituzionali di politica legislativa, e come l'effetto
esclusivo della capacità giuridico-penale non sia caratteristica
indefettibile di ogni ipotesi di immunità, restando esso circoscritto, in
buona sostanza, ai casi di immunità funzionali ad efficacia sostanziale.
L'inidoneità a ricomprendere le
fattispecie di immunità ad efficacia processuale è limite proprio anche
della teoria, pure suggestiva, che accomuna le immunità con le cause di
giustificazione qualificando, in particolare, le condotte poste in essere
dal soggetto immune nell'esercizio delle sue funzioni alla stregua di
fatti leciti ab origine poiché, costituente esercizio di un diritto e
perciò scriminate ex art. 51 c.p. e sostenendo, perciò, che il
legislatore avrebbe operato il bilanciamento degli interessi in conflitto
riconoscendo la prevalenza di quello sotteso all'esercizio delle funzioni
pubbliche.
Parte della dottrina, tuttavia, nel
riconoscere i pregi della teoria summenzionata, ne ha rimarcato i limiti
consistenti, in primo luogo, nel portare essa a non marginali incongruenze
sul piano applicativo: così, in punto di conseguenze civili del reato e,
precipuamente, di risarcimento del danno, all'inclusione di tutte le
immunità nel novero delle cause di esclusione della punibilità -
incidenti solo sugli aspetti di natura penalistica - dovrebbe conseguire
la risarcibilità dei pregiudizi patrimoniali e morali, peraltro esclusa,
nel recente passato, dalla Corte Costituzionale con riguardo ai soggetti
dotati di immunità funzionale ad efficacia sostanziale.
In questa prospettiva, si è
autorevolmente sostenuto che la natura giuridica delle immunità non
sarebbe unitaria, dovendosi di volta in volta individuare l'effetto tipico
della situazione esaminata ed il contesto nel quale essa interviene:
l'immunità, allora, può risolversi in una causa di giustificazione (se
conseguenza dell'esercizio delle funzioni svolte dall'agente), in un caso
di incapacità penale o processuale oppure in una forma di sottrazione
alla potestà di coercizione penale mentre, con specifico riferimento alle
immunità funzionali, se quelle di diritto interno sono ispirate al
bilanciamento tra interessi di segno opposto, quelle di diritto
internazionale sono espressione di altrettanti limiti all'esercizio del
potere giurisdizionale.
Primario rilievo, tra le prerogative
di diritto interno, assume la c.d. "immunità parlamentare",
riconosciuta dall'art. 68 Cost. ai membri delle Camere al fine di
tutelare, dal punto di vista della separazione dei poteri, l'indipendenza
del Parlamento e dei singoli deputati, garantendo a costoro la possibilità
di evitare di subire procedimenti dal carattere obiettivamente
persecutorio.
Nel testo originario, l'art. 68
prevedeva, tra l'altro, al primo comma che "i membri del Parlamento
non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati
nell'esercizio delle loro funzioni" e condizionava la sottoposizione
del parlamentare al procedimento penale all'autorizzazione della Camera di
appartenenza; la norma è stata, poi modificata per effetto della legge
costituzionale 23 ottobre 1993 n. 3, che, nell'abrogare l'istituto
dell'autorizzazione a procedere in giudizio, ha contestualmente
sostituito, in tema di insindacabilità, l'espressione "non possono
essere perseguiti" con quella "non possono essere chiamati a
rispondere", in tal modo formalmente ribadendo che la prerogativa si
estende ad ogni tipo di responsabilità penale, civile, amministrativa e
disciplinare.
Il venir meno dell'immunità
processuale - che, largamente concessa dal Parlamento, aveva determinato,
di fatto, una sorta di "insindacabilità indiretta" (per effetto
della quale il problema della determinazione dell'ambito di applicazione
del primo comma dell'art. 68 Cost. veniva il più delle volte aggirato
mediante il reiterato diniego dell'autorizzazione a procedere) - ha reso
ancor più attuale la necessità di individuare con precisione il modus
operandi dell'istituto dell'insindacabilità: di ciò si è fatto carico,
in prima battuta, il legislatore che, a seguito dell'innovazione
costituzionale, è intervenuto, in una materia tradizionalmente riservata
alla competenza parlamentare, emanando un decreto-legge contenente misure
attuative del disposto dell'art. 68, reiterato per ben 18 volte ed infine
lasciato decadere in virtù della sentenza della Corte Costituzionale,
risalente al 1996, che ha inteso porre un freno alla diffusa prassi della
pedissequa reiterazione di decreti-legge emananti in via d'urgenza e non
convertiti nel termine indicato dall'art. 77 Cost..
La mancanza di un univoco punto di
riferimento normativo (un progetto di legge contenente disposizioni dal
tenore analogo a quelle inserite nei decreti-legge decaduti è stato
frattanto approvato da un ramo del Parlamento) ha stimolato, una
esponenziale crescita, sul piano statistico, dei casi in cui è stata
invocata l'insindacabilità ex art. 68 Cost., il vivace dibattito
sull'argomento, che si è concentrato sugli aspetti inerenti
all'individuazione dell'autorità competente a decidere circa
l'applicazione della prerogativa e dell'estensione da riconoscere alla
nozione di "opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni".
Sotto il primo profilo, va detto che
la Corte Costituzionale, in una fondamentale sentenza risalente al 1988 (inauguratrice
di un filone ermeneutico che, nonostante le perplessità di parte della
dottrina, è a tutt'oggi incontrastato), ha affermato che la competenza a
pronunziarsi sull'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati
dai membri del Parlamento spetta alla Camera di appartenenza del soggetto:
ciò giacché le immunità parlamentari, per loro stessa natura, implicano
necessariamente un potere da parte dell'organo a tutela del quale sono
disposte. Il giudice delle leggi, nella medesima occasione, ha aggiunto
che l'intervento della decisione delle Camere preclude all'autorità
giudiziaria la possibilità di adottare una pronunzia difforme (mentre, in
una successiva sentenza, la Corte ha statuito che, in caso di carenza di
pronunzia parlamentare, spetta al giudice ordinario delibare
l'applicabilità della norma costituzionale), non senza precisare che la
pronunzia parlamentare è sottoposta al controllo della Corte
Costituzionale la quale, se adita in sede di conflitto di attribuzione, è
chiamata a verificare l'assenza di vizi in procedendo e la sua eventuale
arbitrarietà, senza per questo addentrarsi in un non consentito riesame
nel merito della correttezza della valutazione sottesa alla decisione.
Per ciò che concerne la questione
inerente alla delimitazione, in presenza di una previsione normativa
alquanto generica, della categoria di atti che costituiscono
estrinsecazione della funzione parlamentare e che danno, perciò, vita ad
altrettante fattispecie di insindacabilità, si registra la
contrapposizione tra più correnti interpretative di segno opposto. Si
sostiene, infatti, da un lato, che l'art. 68 avrebbe ad oggetto, oltre
alle opinioni espresse nell'esercizio della funzione tipicamente
parlamentare (interpellanze, interrogazioni, ecc.), anche quelle esternate
nello svolgimento di attività lato sensu politica in contesti
extraparlamentari (comizi, riunioni di partito, incontri con la stampa o
con gli elettori, ecc.): alla base di tale concezione vi è l'idea,
fondata sulla lettura coordinata e sistematica degli artt. 67 e 68 Cost.
ed incentrata sulla esaltazione della qualifica soggettiva, che la
guarentigia dell'insindacabilità serva a liberare il deputato o il
senatore da eccessive preoccupazioni circa la sua condotta politica e che
la manifestazione di opinioni anche al di fuori delle Camere costituisca
momento essenziale dell'adempimento del mandato.
Per altro verso, si è detto,
l'estensione dell'insindacabilità agli atti compiuti in sede
extraparlamentare non soddisfa l'esigenza di tutelare il corretto
funzionamento della Camere e si presta ad abusi e strumentalizzazioni; né
l'assenza di vincolo di mandato sancito dall'art. 67 Cost. può
legittimare l'equiparazione tra mandato parlamentare e mandato politico.
Di gran lunga più restrittiva è la
tesi che ricomprende nell'alveo dell'art. 68 solo gli specifici atti
tipici inerenti all'ufficio, frutto della valorizzazione, insieme
all'elemento soggettivo-funzionale, di quello spaziale per il quale
l'espressione di una determinata opinione, ipoteticamente integrante una
fattispecie criminosa, in tanto può essere coperta da insindacabilità
poiché si sia verificata in occasione dell'assolvimento delle tipiche
funzioni connesse alla carica; e ciò, nell'ambito del Parlamento ovvero
extra moenia, in relazione al compimento di atti (missioni, inchieste,
ecc.) che, seppure posti in essere fuori delle Camere, si connettono
all'adempimento di funzioni inerenti all'incarico.
In questo senso sembra orientato il
prevalente indirizzo della Corte di Cassazione che, ancora di recente, ha
ribadito che la prerogativa ex art. 68 Cost. va limitata all'esercizio
delle funzioni proprie di membro del Parlamento, sia come singolo sia come
componente del Collegio, e si esaurisce nel compimento, in sede
parlamentare o para-parlamentare, degli atti tipici del mandato, ma non al
di fuori di essi, con esclusione di quelle attività che, pur velatamente
connesse con essi, ne sono tuttavia estranee, quale l'attività politica
extra-parlamentare esplicata all'interno dei partiti.
I detrattori di tale costruzione hanno
obiettato che la diffusione e la moltiplicazione delle tecniche di
comunicazione e, in ultima analisi, dei canali grazie ai quali il
parlamentare può rivolgersi al proprio elettorato e veicolare all'esterno
le iniziative da lui assunte all'interno dell'istituzione - fenomeni che
hanno incisivamente condizionato l'evoluzione delle modalità di
svolgimento del confronto dialettico connaturato ai moderni sistemi
democratici - hanno reso ormai vetusta la costrizione delle funzioni del
parlamentare nella cornice di una serie tassativa di atti tipici, sicché
sarebbe inaccettabile l'esclusione dell'insindacabilità nell'evenienza,
ad esempio, che un deputato esprima, magari a fini esplicativi, nel corso
di una conferenza-stampa considerazioni astrattamente diffamatorie già
manifestate, mediante il compimento di atti tipici, nell'espletamento del
mandato parlamentare.
Carattere intermedio tra le opposte
concezioni assume un’ulteriore teoria che, profetizzata negli anni '50,
ha trovato spazio in dottrina e nella giurisprudenza parlamentare dalla
metà degli anni '70; essa, trascurando il dato relativo al legame
intercorrente tra atto e luogo, fa leva sulla relazione atto-funzione allo
scopo di ricomprendere nel novero delle condotte insindacabili quelle che,
pur estranee al nucleo degli atti tipici, presentino un nesso con la
funzione demandata al membro della Camera.
La tesi del c.d. "nesso
funzionale" è stata recepita dalla Corte Costituzionale che, dopo
l'abrogazione dell'istituto dell'autorizzazione a procedere, è stata più
volte chiamata a pronunziarsi sulla ricorrenza dei presupposti per
l'applicazione del primo comma dell'art. 68 Cost. in sede di conflitto
d’attribuzione tra Parlamento e magistratura ordinaria.
In un primo momento la Corte,
preoccupata di non indulgere verso indebite intromissioni nelle
attribuzioni dei poteri dello Stato, ha costantemente curato di precisare
che il proprio ambito di decisione è circoscritto alla verifica esterna
della legittimità della statuizione parlamentare e non si estende, alla
stregua di giudizio d'appello, al suo riesame e, nel merito, ha definito i
presupposti per il riconoscimento dell'insindacabilità, propendendo per
un’interpretazione piuttosto ampia della norma costituzionale, che
parifica alle opinioni espresse nell'ambito delle attività funzionali
quelle scaturite da attività che delle prime costituiscono antecedente
necessario o divulgazione esterna.
L'insindacabilità, pertanto,
prescinderebbe dalla formale identità delle espressioni utilizzate,
rispettivamente, nell'ambito degli atti funzionali e dell'attività
divulgativa, oltre che dalla maggiore o minore continenza del frasario del
parlamentare, e sarebbe vincolata al solo nesso di collegamento tra
l'attività parlamentare e quella divulgativa; fuori della portata della
norma resterebbero, invece, gli atti che, concretizzazione dell'attività
politica del parlamentare, non evidenziano alcun nesso di collegamento con
le funzioni istituzionali a lui demandate.
L'orientamento seguito dalla Corte
Costituzionale è stato oggetto di un acceso dibattito dottrinale, nel cui
contesto è stato eccepito che, se ineccepibili appaiono le premesse
concettuali, non altrettanto può dirsi delle conclusioni raggiunte,
rimproverandosi da parte di taluno alla Corte un eccessivo tasso di
cautela, palesatasi, da un canto, nell’inveterata resistenza a sancire,
in parecchi casi in cui il collegamento tra atto e funzione era di
difficile percezione, la non correttezza dell'operato del ramo del
Parlamento (ciò è accaduto soprattutto in relazione a decisioni di
insindacabilità adottate dalla Camera di Deputati) e, dall'altro, nella
ritrosia ad indicare, sul piano concreto, gli indici da utilizzare per
ravvisare la dedotta sussistenza del nesso funzionale.
Di recente, peraltro, la Corte ha dato
il via ad un revirement applicativo, (aperto dalle sentenze nn. 10 e 11
del gennaio 2000) e relativamente consolidatosi con il deposito, nei mesi
successivi, d’altri provvedimenti d’analogo tenore, mutuando
un'interpretazione più rigorosa nell'individuazione dell'area entro cui
deputati e senatori possono essere chiamati a rispondere per le opinioni
da loro espresse.
L'immunità, in questa prospettiva,
riguarda l'opinione espressa nell'esercizio della funzione anche se
riprodotta in sede diversa, atteso che il nucleo della tutela non concerne
l'occasione specifica in cui l'opinione è manifestata in ambito
parlamentare, ma il suo contenuto storico, anche se diffuso pubblicamente;
ciò, aggiunge la Corte, è tanto più vero se si tiene a mente il fatto
che, se la naturale destinazione alla collettività dei rappresentati
dell'attività e degli atti del Parlamento è funzionale ad assicurare la
massima espansione della libera dialettica politica, è giusto che
l'immunità si estenda a tutte le altre sedi ed occasioni in cui quella
data opinione è riprodotta al di fuori dell'agone parlamentare.
Altrettanto logico è, specularmente, che la garanzia d’immunità sia
circoscritta a quel contenuto storico, per questo, in caso di riproduzione
all'esterno della sede parlamentare, deve essere positivamente
riscontrata, in vista del riconoscimento dell'insindacabilità, l'identità
sostanziale di contenuto tra l'opinione espressa in sede parlamentare e
quella manifestata extra moenia.
La correzione di rotta della Corte
Costituzionale ha trovato concordi i primi commentatori, che vi hanno
visto una salutare, incisiva applicazione del principio della divisione
dei poteri, in controtendenza rispetto alla tradizionale prudenza della
Corte: in un ordinamento democratico che regola i rapporti tra i poteri
attraverso un articolato sistema di pesi e contrappesi, si è detto, non
deve sorprendere che, di tanto in tanto, un potere cerchi di invadere la
competenza di un altro, evento che, tuttavia, deve essere tempestivamente
ed efficacemente stigmatizzato.
Dal punto di vista strettamente
tecnico, è stato, per contro, osservato che i parametri da utilizzare,
stando all'insegnamento della Corte, per la ricerca del nesso tra
espressioni incriminate e attività parlamentare sono ispirati a canoni di
automatismo talora esasperato, che danno adito alla possibilità,
tutt'altro che teorica, di effetti distorsivi a livello applicativo: così,
ad esempio, sembra eccessivo lasciar fuori dell’ambito di applicabilità
dell'art. 68 alcune manifestazioni di pensiero per il solo fatto che esse
non hanno trovato ancora riscontro in un formale atto parlamentare e
riconoscere, invece, l'insindacabilità ad espressioni particolarmente
offensive che, speciosamente inserite in atti parlamentari al precipuo
fine di precostituirsi un'immunità, siano poi ripetute al di fuori delle
aule parlamentari.
Appare condivisibile, infine,
auspicare, visti i risultati raggiunti dall'elaborazione dogmatica e
giurisprudenziale, il superamento dei principi attualmente seguiti in
ordine all'individuazione dell'autorità competente a decidere circa
l'applicazione della prerogativa e demandare direttamente al giudice la
valutazione dell'esistenza del nesso funzionale, consentendo al contempo
alle Camere di sollevare conflitto nel caso ritengano che l'autorità
giudiziaria non abbia fatto corretto uso del potere attribuitole.
PROF. AVV. VINCENZO MUSACCHIO
DOCENTE DI DIRITTO PENALE COMMERCIALE
FACOLTA’ DI ECONOMIA –
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL MOLISE
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