inserito in Diritto&Diritti nel giugno 2003

Brevi cenni sull’immunita’ parlamentare nel sistema penale italiano

di Vincenzo Musacchio

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Il nostro ordinamento giuridico, essendo ispirato al principio d’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, sancisce l’obbligatorietà della norma penale. Di conseguenza, all'interno dei confini dello Stato, essa deve essere applicata a prescindere dalla nazionalità e dalle condizioni personali del reo a tutti coloro che si vengano a trovare al suo interno.

Detto principio, sancito dall'art. 3 del codice penale, al primo comma, include tra i destinatari del precetto, sia i cittadini, sia gli stranieri e fa salve "le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o internazionale". L'applicazione della legge penale allo straniero è motivata dall'intrinseca natura delle norme penali che, mirando essenzialmente al soddisfacimento di finalità pubbliche, devono presidiare il territorio dello Stato, tanto più se si considera che il ricorso, in ambito penalistico, a norme straniere finirebbe con il tradursi in un inammissibile vulnus alla sovranità statale.

L'art. 3 c.p. è ispirato, secondo la dottrina maggioritaria, al principio di territorialità, che àncora ad un dato ambito spaziale la sovranità e l'indipendenza dello Stato. Tale principio è tuttavia temperato dalla maggiore estensione data all'obbligatorietà della legge penale che, per espressa previsione del capoverso dell'art. 3, vincola, limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale, anche i cittadini o gli stranieri che si trovino all'estero.

Pur avendo il principio di obbligatorietà, carattere assoluto (chiunque, è tenuto all'osservanza della legge penale), non sono marginali i casi di sottrazione del reo all'applicazione della sanzione, accomunati nell'ampia categoria delle immunità, nella quale sono state inserite situazioni distinte, disomogenee per ratio, contenuto e fonte, ma generalmente contraddistinte dall'effetto finale della rinunzia dello Stato all'esercizio del potere di coercizione.

Fisiologicamente, è stata avvertita, in questo contesto, l'esigenza di classificare le varie ipotesi di immunità, sistemandole sulla base dei parametri ad esse comuni, e ciò sulla base delle difficoltà terminologiche e di quelle connesse al numero, assai elevato, degli organi che ne usufruiscono: la dottrina ha così provato a distinguere, ad esempio, le immunità assolute, che si estendono a tutti i reati, da quelle relative, che concernono, invece, solo una quota dei crimini commessi dal soggetto titolare, in altre parole a sceverare l'immunità funzionale da quella extrafunzionale, solo la prima protraendo i suoi effetti dopo la cessazione della carica, e l'immunità sostanziale, in forza della quale il fatto posto in essere non costituisce reato, da quella processuale, che determina la frapposizione di ostacoli, limiti o impedimenti all'esercizio del potere giurisdizionale nei confronti dei soggetti immuni.

Chiarito che il carattere “eccezionale” delle immunità, espressamente indicato dall'art. 3 c.p., preclude l'adozione, in questo campo, di criteri di interpretazione analogica (in tal senso si è espressa, ancora di recente, la giurisprudenza di legittimità), va detto che fonte di immunità può essere sia l'ordinamento interno che il diritto internazionale: nell'un caso, la previsione normativa mira a garantire e proteggere la libertà di espletamento di determinate funzioni o uffici di particolare importanza per il corretto funzionamento del nostro sistema politico, laddove nell'altro viene in gioco l'esigenza di preservare, a presidio della pacifica convivenza tra i popoli, lo stato delle relazioni internazionali, l'interesse pubblico sovranazionale cui sono preordinate determinate cariche ovvero la neutralità del ruolo svolto dall'agente.

La disciplina regolatrice dei casi d’immunità di diritto interno si rinviene nella Carta Costituzionale ed in successive leggi costituzionali, laddove quelli di diritto internazionale trovano, invece, riconoscimento negli artt. 10 e 11 Cost. e puntuale descrizione in Trattati, Convenzioni e Protocolli internazionali, spesso resi esecutivi in Italia attraverso leggi ordinarie.

Quanto alla natura giuridica delle prerogative, variegato è il panorama delle posizioni assunte dalla moderna scienza giuridica: un autorevole studioso, in specie, ha sostenuto che esse costituirebbero altrettante eccezioni al principio di obbligatorietà della legge penale - al quale, dunque, dovrebbe essere riconosciuta valenza relativa e non assoluta -, connesse alla condizione dei titolari, che dovrebbero essere perciò considerati "legibus soluti". Detta tesi è stata, però, oggetto di severe critiche, essendosi osservato che un fenomeno di vera e propria "legibus solutio" si ravvisa per i soli Capi di Stato esteri, che godono contemporaneamente di immunità funzionale ad efficacia sostanziale ed extrafunzionale ad efficacia processuale, non dovendosi peraltro dimenticare che la Convenzione di Vienna del 1961 prevede, all'art. 41, che anche i soggetti che usufruiscono delle immunità di diritto internazionale, sono tenuti a rispettare le leggi e i regolamenti dello stato accreditatario.

Un certo successo ha conosciuto, alcuni decenni or sono, la costruzione dogmatica che, partendo dalla nozione di capacità giuridico-penale, intesa quale capacità di essere soggetto di diritto penale, ne ravvisa gli elementi costituitivi nell'imputabilità o capacità di intendere e di volere e, in negativo, nell'assenza di cause di immunità. A fronte di tale tentativo, si è obiettato come arbitraria appaia la sovrapposizione tra istituti affatto differenti, riguardanti, l'uno (l'imputabilità), al piano naturalistico della condizione psichica del soggetto e, l'altro (l'immunità), a quello delle scelte istituzionali di politica legislativa, e come l'effetto esclusivo della capacità giuridico-penale non sia caratteristica indefettibile di ogni ipotesi di immunità, restando esso circoscritto, in buona sostanza, ai casi di immunità funzionali ad efficacia sostanziale.

L'inidoneità a ricomprendere le fattispecie di immunità ad efficacia processuale è limite proprio anche della teoria, pure suggestiva, che accomuna le immunità con le cause di giustificazione qualificando, in particolare, le condotte poste in essere dal soggetto immune nell'esercizio delle sue funzioni alla stregua di fatti leciti ab origine poiché, costituente esercizio di un diritto e perciò scriminate ex art. 51 c.p. e sostenendo, perciò, che il legislatore avrebbe operato il bilanciamento degli interessi in conflitto riconoscendo la prevalenza di quello sotteso all'esercizio delle funzioni pubbliche.
Dominante, in dottrina, è l'opinione che riconduce tutti i fenomeni immunitari alla generale categoria delle cause di esclusione della pena, situazioni esterne al fatto tipico che non escludono il reato ma alle quali consegue, ciò nonostante, la non applicabilità delle conseguenze penali: essa soddisfa l'esigenza di comprendere all'interno della medesima definizione tutte le immunità, di diritto sia interno sia internazionale, ad efficacia processuale come sostanziale, e valorizza, al contempo, il profilo oggettivo legato al rapporto tra immunità, soggetto che ne fruisce e funzione svolta, profilo che prescinde, in ultimo, dalla peculiarità delle fonti normative.

Parte della dottrina, tuttavia, nel riconoscere i pregi della teoria summenzionata, ne ha rimarcato i limiti consistenti, in primo luogo, nel portare essa a non marginali incongruenze sul piano applicativo: così, in punto di conseguenze civili del reato e, precipuamente, di risarcimento del danno, all'inclusione di tutte le immunità nel novero delle cause di esclusione della punibilità - incidenti solo sugli aspetti di natura penalistica - dovrebbe conseguire la risarcibilità dei pregiudizi patrimoniali e morali, peraltro esclusa, nel recente passato, dalla Corte Costituzionale con riguardo ai soggetti dotati di immunità funzionale ad efficacia sostanziale.

In questa prospettiva, si è autorevolmente sostenuto che la natura giuridica delle immunità non sarebbe unitaria, dovendosi di volta in volta individuare l'effetto tipico della situazione esaminata ed il contesto nel quale essa interviene: l'immunità, allora, può risolversi in una causa di giustificazione (se conseguenza dell'esercizio delle funzioni svolte dall'agente), in un caso di incapacità penale o processuale oppure in una forma di sottrazione alla potestà di coercizione penale mentre, con specifico riferimento alle immunità funzionali, se quelle di diritto interno sono ispirate al bilanciamento tra interessi di segno opposto, quelle di diritto internazionale sono espressione di altrettanti limiti all'esercizio del potere giurisdizionale.

Primario rilievo, tra le prerogative di diritto interno, assume la c.d. "immunità parlamentare", riconosciuta dall'art. 68 Cost. ai membri delle Camere al fine di tutelare, dal punto di vista della separazione dei poteri, l'indipendenza del Parlamento e dei singoli deputati, garantendo a costoro la possibilità di evitare di subire procedimenti dal carattere obiettivamente persecutorio.

Nel testo originario, l'art. 68 prevedeva, tra l'altro, al primo comma che "i membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni" e condizionava la sottoposizione del parlamentare al procedimento penale all'autorizzazione della Camera di appartenenza; la norma è stata, poi modificata per effetto della legge costituzionale 23 ottobre 1993 n. 3, che, nell'abrogare l'istituto dell'autorizzazione a procedere in giudizio, ha contestualmente sostituito, in tema di insindacabilità, l'espressione "non possono essere perseguiti" con quella "non possono essere chiamati a rispondere", in tal modo formalmente ribadendo che la prerogativa si estende ad ogni tipo di responsabilità penale, civile, amministrativa e disciplinare.

Il venir meno dell'immunità processuale - che, largamente concessa dal Parlamento, aveva determinato, di fatto, una sorta di "insindacabilità indiretta" (per effetto della quale il problema della determinazione dell'ambito di applicazione del primo comma dell'art. 68 Cost. veniva il più delle volte aggirato mediante il reiterato diniego dell'autorizzazione a procedere) - ha reso ancor più attuale la necessità di individuare con precisione il modus operandi dell'istituto dell'insindacabilità: di ciò si è fatto carico, in prima battuta, il legislatore che, a seguito dell'innovazione costituzionale, è intervenuto, in una materia tradizionalmente riservata alla competenza parlamentare, emanando un decreto-legge contenente misure attuative del disposto dell'art. 68, reiterato per ben 18 volte ed infine lasciato decadere in virtù della sentenza della Corte Costituzionale, risalente al 1996, che ha inteso porre un freno alla diffusa prassi della pedissequa reiterazione di decreti-legge emananti in via d'urgenza e non convertiti nel termine indicato dall'art. 77 Cost..

La mancanza di un univoco punto di riferimento normativo (un progetto di legge contenente disposizioni dal tenore analogo a quelle inserite nei decreti-legge decaduti è stato frattanto approvato da un ramo del Parlamento) ha stimolato, una esponenziale crescita, sul piano statistico, dei casi in cui è stata invocata l'insindacabilità ex art. 68 Cost., il vivace dibattito sull'argomento, che si è concentrato sugli aspetti inerenti all'individuazione dell'autorità competente a decidere circa l'applicazione della prerogativa e dell'estensione da riconoscere alla nozione di "opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni".

Sotto il primo profilo, va detto che la Corte Costituzionale, in una fondamentale sentenza risalente al 1988 (inauguratrice di un filone ermeneutico che, nonostante le perplessità di parte della dottrina, è a tutt'oggi incontrastato), ha affermato che la competenza a pronunziarsi sull'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai membri del Parlamento spetta alla Camera di appartenenza del soggetto: ciò giacché le immunità parlamentari, per loro stessa natura, implicano necessariamente un potere da parte dell'organo a tutela del quale sono disposte. Il giudice delle leggi, nella medesima occasione, ha aggiunto che l'intervento della decisione delle Camere preclude all'autorità giudiziaria la possibilità di adottare una pronunzia difforme (mentre, in una successiva sentenza, la Corte ha statuito che, in caso di carenza di pronunzia parlamentare, spetta al giudice ordinario delibare l'applicabilità della norma costituzionale), non senza precisare che la pronunzia parlamentare è sottoposta al controllo della Corte Costituzionale la quale, se adita in sede di conflitto di attribuzione, è chiamata a verificare l'assenza di vizi in procedendo e la sua eventuale arbitrarietà, senza per questo addentrarsi in un non consentito riesame nel merito della correttezza della valutazione sottesa alla decisione.

Per ciò che concerne la questione inerente alla delimitazione, in presenza di una previsione normativa alquanto generica, della categoria di atti che costituiscono estrinsecazione della funzione parlamentare e che danno, perciò, vita ad altrettante fattispecie di insindacabilità, si registra la contrapposizione tra più correnti interpretative di segno opposto. Si sostiene, infatti, da un lato, che l'art. 68 avrebbe ad oggetto, oltre alle opinioni espresse nell'esercizio della funzione tipicamente parlamentare (interpellanze, interrogazioni, ecc.), anche quelle esternate nello svolgimento di attività lato sensu politica in contesti extraparlamentari (comizi, riunioni di partito, incontri con la stampa o con gli elettori, ecc.): alla base di tale concezione vi è l'idea, fondata sulla lettura coordinata e sistematica degli artt. 67 e 68 Cost. ed incentrata sulla esaltazione della qualifica soggettiva, che la guarentigia dell'insindacabilità serva a liberare il deputato o il senatore da eccessive preoccupazioni circa la sua condotta politica e che la manifestazione di opinioni anche al di fuori delle Camere costituisca momento essenziale dell'adempimento del mandato.
Detta tesi - che, minoritaria in dottrina e nella giurisprudenza di merito, sembra ispirare una certa prassi parlamentare che si ispira, al fine di riconoscere la prerogativa dell'insindacabilità, a criteri che, al di là delle affermazioni di principio, escludono ogni riferimento al luogo fisico nel quale le espressioni (delle quali si contesta, in prevalenza, il carattere diffamatorio o ingiurioso) sono state profferite ed agganciano la tutela al collegamento contenutistico con l'attività propriamente parlamentare o al vago concetto di "contesto politico" che finisce con il ricomprendere, in molti casi, l'intera attività politica del parlamentare - è criticata da chi rileva come, eliminando il legame tra l'atto compiuto e la funzione parlamentare, si riconosca, in spregio ai principi, essi pure consacrati a livello di norma superprimaria, di uguaglianza e di diritto alla difesa, un’ingiustificata condizione di privilegio al deputato o senatore rispetto al resto dei cittadini.

Per altro verso, si è detto, l'estensione dell'insindacabilità agli atti compiuti in sede extraparlamentare non soddisfa l'esigenza di tutelare il corretto funzionamento della Camere e si presta ad abusi e strumentalizzazioni; né l'assenza di vincolo di mandato sancito dall'art. 67 Cost. può legittimare l'equiparazione tra mandato parlamentare e mandato politico.

Di gran lunga più restrittiva è la tesi che ricomprende nell'alveo dell'art. 68 solo gli specifici atti tipici inerenti all'ufficio, frutto della valorizzazione, insieme all'elemento soggettivo-funzionale, di quello spaziale per il quale l'espressione di una determinata opinione, ipoteticamente integrante una fattispecie criminosa, in tanto può essere coperta da insindacabilità poiché si sia verificata in occasione dell'assolvimento delle tipiche funzioni connesse alla carica; e ciò, nell'ambito del Parlamento ovvero extra moenia, in relazione al compimento di atti (missioni, inchieste, ecc.) che, seppure posti in essere fuori delle Camere, si connettono all'adempimento di funzioni inerenti all'incarico.

In questo senso sembra orientato il prevalente indirizzo della Corte di Cassazione che, ancora di recente, ha ribadito che la prerogativa ex art. 68 Cost. va limitata all'esercizio delle funzioni proprie di membro del Parlamento, sia come singolo sia come componente del Collegio, e si esaurisce nel compimento, in sede parlamentare o para-parlamentare, degli atti tipici del mandato, ma non al di fuori di essi, con esclusione di quelle attività che, pur velatamente connesse con essi, ne sono tuttavia estranee, quale l'attività politica extra-parlamentare esplicata all'interno dei partiti.

I detrattori di tale costruzione hanno obiettato che la diffusione e la moltiplicazione delle tecniche di comunicazione e, in ultima analisi, dei canali grazie ai quali il parlamentare può rivolgersi al proprio elettorato e veicolare all'esterno le iniziative da lui assunte all'interno dell'istituzione - fenomeni che hanno incisivamente condizionato l'evoluzione delle modalità di svolgimento del confronto dialettico connaturato ai moderni sistemi democratici - hanno reso ormai vetusta la costrizione delle funzioni del parlamentare nella cornice di una serie tassativa di atti tipici, sicché sarebbe inaccettabile l'esclusione dell'insindacabilità nell'evenienza, ad esempio, che un deputato esprima, magari a fini esplicativi, nel corso di una conferenza-stampa considerazioni astrattamente diffamatorie già manifestate, mediante il compimento di atti tipici, nell'espletamento del mandato parlamentare.

Carattere intermedio tra le opposte concezioni assume un’ulteriore teoria che, profetizzata negli anni '50, ha trovato spazio in dottrina e nella giurisprudenza parlamentare dalla metà degli anni '70; essa, trascurando il dato relativo al legame intercorrente tra atto e luogo, fa leva sulla relazione atto-funzione allo scopo di ricomprendere nel novero delle condotte insindacabili quelle che, pur estranee al nucleo degli atti tipici, presentino un nesso con la funzione demandata al membro della Camera.

La tesi del c.d. "nesso funzionale" è stata recepita dalla Corte Costituzionale che, dopo l'abrogazione dell'istituto dell'autorizzazione a procedere, è stata più volte chiamata a pronunziarsi sulla ricorrenza dei presupposti per l'applicazione del primo comma dell'art. 68 Cost. in sede di conflitto d’attribuzione tra Parlamento e magistratura ordinaria.

In un primo momento la Corte, preoccupata di non indulgere verso indebite intromissioni nelle attribuzioni dei poteri dello Stato, ha costantemente curato di precisare che il proprio ambito di decisione è circoscritto alla verifica esterna della legittimità della statuizione parlamentare e non si estende, alla stregua di giudizio d'appello, al suo riesame e, nel merito, ha definito i presupposti per il riconoscimento dell'insindacabilità, propendendo per un’interpretazione piuttosto ampia della norma costituzionale, che parifica alle opinioni espresse nell'ambito delle attività funzionali quelle scaturite da attività che delle prime costituiscono antecedente necessario o divulgazione esterna.

L'insindacabilità, pertanto, prescinderebbe dalla formale identità delle espressioni utilizzate, rispettivamente, nell'ambito degli atti funzionali e dell'attività divulgativa, oltre che dalla maggiore o minore continenza del frasario del parlamentare, e sarebbe vincolata al solo nesso di collegamento tra l'attività parlamentare e quella divulgativa; fuori della portata della norma resterebbero, invece, gli atti che, concretizzazione dell'attività politica del parlamentare, non evidenziano alcun nesso di collegamento con le funzioni istituzionali a lui demandate.

L'orientamento seguito dalla Corte Costituzionale è stato oggetto di un acceso dibattito dottrinale, nel cui contesto è stato eccepito che, se ineccepibili appaiono le premesse concettuali, non altrettanto può dirsi delle conclusioni raggiunte, rimproverandosi da parte di taluno alla Corte un eccessivo tasso di cautela, palesatasi, da un canto, nell’inveterata resistenza a sancire, in parecchi casi in cui il collegamento tra atto e funzione era di difficile percezione, la non correttezza dell'operato del ramo del Parlamento (ciò è accaduto soprattutto in relazione a decisioni di insindacabilità adottate dalla Camera di Deputati) e, dall'altro, nella ritrosia ad indicare, sul piano concreto, gli indici da utilizzare per ravvisare la dedotta sussistenza del nesso funzionale.

Di recente, peraltro, la Corte ha dato il via ad un revirement applicativo, (aperto dalle sentenze nn. 10 e 11 del gennaio 2000) e relativamente consolidatosi con il deposito, nei mesi successivi, d’altri provvedimenti d’analogo tenore, mutuando un'interpretazione più rigorosa nell'individuazione dell'area entro cui deputati e senatori possono essere chiamati a rispondere per le opinioni da loro espresse.
La carica di novità dell'indirizzo in discorso s’incentra essenzialmente nello spostamento sul piano concreto della verifica della correttezza costituzionale della pronuncia d’insindacabilità (verifica che, seppure demandata ad un organo posto in posizione di terzietà istituzionale, va ad investire, nella sostanza, il merito della singola controversia costituzionale) e, soprattutto, nella più netta indicazione dei requisiti del nesso funzionale, che, rileva adesso la Corte, potrà dirsi riscontrato solo ove la dichiarazione incriminata sia, per sostanziale corrispondenza di contenuti con l'atto parlamentare, espressione dell'attività parlamentare, non potendosi, al contrario, ritenere sufficiente la mera comunanza di tematiche ovvero il collegamento di argomento o di contesto tra le dichiarazioni e la medesima attività.

L'immunità, in questa prospettiva, riguarda l'opinione espressa nell'esercizio della funzione anche se riprodotta in sede diversa, atteso che il nucleo della tutela non concerne l'occasione specifica in cui l'opinione è manifestata in ambito parlamentare, ma il suo contenuto storico, anche se diffuso pubblicamente; ciò, aggiunge la Corte, è tanto più vero se si tiene a mente il fatto che, se la naturale destinazione alla collettività dei rappresentati dell'attività e degli atti del Parlamento è funzionale ad assicurare la massima espansione della libera dialettica politica, è giusto che l'immunità si estenda a tutte le altre sedi ed occasioni in cui quella data opinione è riprodotta al di fuori dell'agone parlamentare. Altrettanto logico è, specularmente, che la garanzia d’immunità sia circoscritta a quel contenuto storico, per questo, in caso di riproduzione all'esterno della sede parlamentare, deve essere positivamente riscontrata, in vista del riconoscimento dell'insindacabilità, l'identità sostanziale di contenuto tra l'opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata extra moenia.

La correzione di rotta della Corte Costituzionale ha trovato concordi i primi commentatori, che vi hanno visto una salutare, incisiva applicazione del principio della divisione dei poteri, in controtendenza rispetto alla tradizionale prudenza della Corte: in un ordinamento democratico che regola i rapporti tra i poteri attraverso un articolato sistema di pesi e contrappesi, si è detto, non deve sorprendere che, di tanto in tanto, un potere cerchi di invadere la competenza di un altro, evento che, tuttavia, deve essere tempestivamente ed efficacemente stigmatizzato.

Dal punto di vista strettamente tecnico, è stato, per contro, osservato che i parametri da utilizzare, stando all'insegnamento della Corte, per la ricerca del nesso tra espressioni incriminate e attività parlamentare sono ispirati a canoni di automatismo talora esasperato, che danno adito alla possibilità, tutt'altro che teorica, di effetti distorsivi a livello applicativo: così, ad esempio, sembra eccessivo lasciar fuori dell’ambito di applicabilità dell'art. 68 alcune manifestazioni di pensiero per il solo fatto che esse non hanno trovato ancora riscontro in un formale atto parlamentare e riconoscere, invece, l'insindacabilità ad espressioni particolarmente offensive che, speciosamente inserite in atti parlamentari al precipuo fine di precostituirsi un'immunità, siano poi ripetute al di fuori delle aule parlamentari.

Appare condivisibile, infine, auspicare, visti i risultati raggiunti dall'elaborazione dogmatica e giurisprudenziale, il superamento dei principi attualmente seguiti in ordine all'individuazione dell'autorità competente a decidere circa l'applicazione della prerogativa e demandare direttamente al giudice la valutazione dell'esistenza del nesso funzionale, consentendo al contempo alle Camere di sollevare conflitto nel caso ritengano che l'autorità giudiziaria non abbia fatto corretto uso del potere attribuitole.

 

PROF. AVV. VINCENZO MUSACCHIO

DOCENTE DI DIRITTO PENALE COMMERCIALE

FACOLTA’ DI ECONOMIA – UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL MOLISE