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Ho sempre pensato che per un magistrato-donna non è facile affrontare argomenti come quelli di questo
convegno, che riguardano il mondo femminile in Magistratura, poiché si corre
inevitabilmente il rischio di attribuire all'essere giudice-donna, anziché
magistrato tout court, una connotazione di "minorità femminile",
generando così forti diffidenze proprio tra le donne, soprattutto tra le più
giovani, e rafforzando il pregiudizio che sul piano culturale si vuole invece
contrastare. E' diffusa, infatti, in Magistratura la sensazione che le
valutazioni fondate sulla distinzione dei magistrati in base all'appartenenza
all'uno o all'altro sesso siano inutili ed irrilevanti se non addirittura
fuorvianti, perché generano l'idea di un giudice-donna contrapposto al
giudice-uomo e, come tale, diseguale.
Per la verità, la recente costituzionalizzazione del
principio delle "pari opportunità tra donne e uomini" con riferimento
all'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive dovrebbe aver
sgombrato il campo da queste diffidenze. E' evidente, infatti, che l'intervenuta
riforma dell'art. 51 Cost. è stata dettata dalla constatazione di un problema
reale e pressante - la scarsa partecipazione femminile alla vita pubblica ed
istituzionale del Paese - e dalla conseguente necessità di individuare una
risposta idonea a risolvere il problema stesso: risposta che è stata
individuata in una modifica della Costituzione volta a favorire e stimolare i
processi culturali e politici in atto, dando copertura costituzionale alle
"azioni positive" tese a correggere gli
squilibri nella rappresentanza e demandando alle libere scelte del Legislatore
l'individuazione dei mezzi e la modulazione in concreto degli interventi
ritenuti a tal fine necessari.
Se questa è la realtà sociale che ci circonda, il rischio denunciato in
premessa deve, quindi, farci riflettere soltanto sul modo di affrontare
l'argomento delle pari opportunità in Magistratura, ma non può certamente
esimerci dal prestare attenzione al mondo femminile in Magistratura, nella
consapevolezza che l'adoperarsi per il riconoscimento generalizzato dei meriti
e delle caratteristiche peculiari dell'essere "donne-magistrato" non può e non deve in alcun modo essere percepito come uno
svilimento della funzione femminile e del ruolo svolto.
Ciò è tanto più vero ove gli argomenti di riflessione siano fondati su elementi
di fatto e su parametri di valutazione certi e rigorosi, come quelli che di
seguito andrò ad esporre e che sono ancorati a dati statistici non opinabili.
Orbene, costituisce un dato di fatto incontestabile l'insufficiente
rappresentanza femminile nei più rilevanti settori della Magistratura, come del
resto nella vita pubblica ed istituzionale in genere. E non vi è dubbio che
tale situazione determina un difetto di rappresentatività della parte femminile
della popolazione, in genere, e dei magistrati-donne nello specifico: in
effetti, sia nella società che nel mondo giudiziario vi è una sfaldatura tra
una realtà che è composta da più donne che uomini e
una rappresentanza quasi esclusivamente maschile e, come tale, "non rappresentativa".
Non si vuole con ciò dire che tale situazione determina all'interno della
Magistratura un deficit democratico, ma è pur vero che l'insufficiente
rappresentanza femminile è sintomo di un distacco tra la Magistratura nel suo
complesso e le sue Istituzioni e, dunque, un male per
la stessa Magistratura.
Del resto, la Magistratura riproduce al suo interno ciò che avviene nel Paese,
dove assistiamo ad una frattura tra la partecipazione femminile alla vita
professionale, sociale e culturale in genere e la partecipazione femminile alla
vita politica e istituzionale. Ed infatti, in
contrasto con il dato numerico e con il livello culturale e professionale
raggiunto dalle donne-magistrato in ogni campo della giurisdizione, vi sono
settori della Magistratura caratterizzati da una composizione quasi
esclusivamente maschile, come confermano i dati statistici che si vanno ad
illustrare.
Va innanzitutto osservato che la presenza femminile in Magistratura è cresciuta
negli anni in maniera costante: se al momento del loro ingresso - 1965 - le
donne rappresentavano appena lo 0,14 %, oggi sono 3.468 su 9.082 pari al 38 %
(all. A) e la loro presenza appare destinata a crescere ulteriormente,
superando quella maschile, ove si consideri che, secondo dati aggiornati al 30
settembre 2003, tra i magistrati aventi età non superiore ai quaranta anni le
donne sono numericamente più degli uomini (cfr. all. B, dal quale risulta che in tale fascia d'età sono
comprese 1.682 donne a fronte di 1.375 uomini, mentre la fascia di età
superiore ai 50 anni vede ancora fortemente massiccia la presenza maschile con
una differenza percentuale piuttosto elevata, pari al 25%).
Al dato della crescente presenza femminile non fa, però, riscontro una pari
dislocazione in tutti i settori giurisdizionali.
Come si evince dai dati numerici di cui all'allegato C, anch'essi aggiornati al
30 settembre 2003, mentre nel settore della sorveglianza e negli uffici
minorili attualmente le donne risultano essere in maggioranza - su 142
magistrati di sorveglianza 81 sono donne; così pure su 147 giudici del
Tribunale per i minorenni 90 sono donne e su 70 sostituti procuratori presso il
Tribunale per i minorenni vi sono 39 donne - nelle funzioni giudicanti e
requirenti di primo grado la presenza delle donne risulta più equilibrata
poiché riproduce, ed anzi supera, la percentuale di presenze femminili in
magistratura pari, come già detto, al 38%: ed infatti, su 3.782 giudici di
primo grado 1.806 sono donne e 1976 uomini, per una percentuale, rispettivamente,
del 48% e del 52%, mentre su 1.506 sostituti procuratori 611 sono donne e 895
uomini, per una percentuale, rispettivamente, del 41% e del 59% (discorso
a parte merita, però, nel settore requirente l'ufficio della Direzione
Nazionale Antimafia, nel cui organico non figura nessuna donna).
Senonchè i numeri e le percentuali cambiano
notevolmente quando si rivolge l'attenzione agli incarichi direttivi e
semidirettivi ed alle funzioni di legittimità, ove la presenza femminile è
veramente irrisoria. La invisibilità che da sempre
accompagna le donne, non solo nell'area della rappresentanza politica ma anche
degli incarichi con poteri decisionali, tocca anche le donne-magistrato. A
dimostrarlo basta considerare:
- l'assenza totale di
presenza femminile nei posti direttivi e semidirettivi di Cassazione (all. C);
- l'assenza totale di
presenza femminile tra i dirigenti delle Corti di
Appello, sia nel settore giudicante che requirente(all. C);
- lo scarsissimo numero
di donne che svolge funzioni di legittimità: in Procura Generale la presenza
femminile è rappresentata da una sola unità; mentre sono 16 le donne che
svolgono funzioni di consigliere di Cassazione - 6% - a fronte di 244
uomini - 94% - (all. C);
- la ridottissima
presenza di donne negli uffici direttivi del settore requirente - solo 4 donne
su 149 posti, per una percentuale del 3%, rivestono l'incarico di Procuratore
della Repubblica (a Lecco, Vigevano, Aosta e Saluzzo),
e altrettante donne, a fronte di 25 uomini, rivestono l'incarico di Procuratore
della Repubblica per i Minorenni (a Bologna, Caltanissetta,
Napoli e Palermo), per una percentuale leggermente più alta pari al 14%; assai
limitata è altresì la presenza femminile negli uffici semidirettivi del
medesimo settore - solo 6 donne, rispetto a 85 uomini, nella misura
percentuale, quindi, del 7%, rivestono l'incarico di Procuratore Aggiunto della
Repubblica (a Foggia, Milano, Palermo, Perugia, Roma
e Trapani), mentre solo 1 donna riveste (a Milano) l'incarico di Avvocato
Generale di Corte d'Appello (all. C);
- l'altrettanto ridotta
presenza di donne negli uffici direttivi del settore giudicante - solo 2 donne,
pari all'1%, svolgono la funzione di Presidente di Tribunale (a Matera e a
Novara), a fronte di 157 uomini; del pari sono 2, a fronte però di 29 posti,
per una percentuale, quindi, del 7%, le donne che esercitano l'incarico di
Presidente del Tribunale di Sorveglianza (a Napoli e Sassari); mentre la
percentuale migliora sensibilmente con riferimento al settore minorile, dove le
donne che rivestono il ruolo di Presidente del Tribunale per i Minori sono 11,
a fronte di 18 uomini, per una percentuale pari al 38%; (all. C);
- la limitata presenza
femminile anche negli uffici giudicanti semidirettivi (cfr.
all. C) dove - a fronte di 40 donne che rivestono
l'incarico di Presidente di sezione di Tribunale, pari ad una percentuale del
12% (gli uomini che svolgono le medesime funzioni sono 295) - nessuna donna,
però, svolge le funzioni di Presidente della sezione Lavoro di Corte d'Appello
e di Presidente della sezione GIP; 2 soltanto sono, poi, le donne che
rivestono l'incarico di Presidente aggiunto sezione GIP (a Milano e a Napoli),
mentre 1 sola donna esercita le funzioni di Presidente di sezione di Corte
d'Appello (a Milano) e di Presidente della sezione Lavoro (a Venezia).
In definitiva, a fronte di 444 incarichi direttivi soltanto 23 sono ricoperti
dalle donne, per una percentuale del 5%; mentre solo 51 donne, a fronte di 665
uomini, ricoprono posti semidirettivi, per una percentuale pari al 7% (all. D).
Orbene, in presenza di tali dati, è necessario tentare
di fornire una spiegazione, che non può essere quella semplicistica derivante
dalla considerazione che le donne hanno minore anzianità di servizio.
E' pur vero che, come risulta dall'allegato B, le
donne che in magistratura hanno un'età superiore ai 50 e ai 60 anni - ritenendo
questa l'età media per ricoprire incarichi semidirettivi e direttivi - sono 461
(359 di età compresa tra i 50 e i 60 anni e 102 di età superiore ai 60 anni) e
rappresentano il 5% dell'intera magistratura, a fronte di 2.685 uomini della
stessa età (di cui 1.186 di età compresa tra i 50 e i 60 anni e 1.499 di età
superiore ai 60 anni), pari ad una ben più elevata percentuale del 30%, ma è
altrettanto vero che tra gli uomini aventi titolo per rivestire incarichi
direttivi il 13,4% ne riveste effettivamente mentre le donne con la medesima
anzianità rivestono tali incarichi nella misura dello 0,7% (all. D1). Il
calcolo della percentuale degli incarichi direttivi rispetto agli aventi titolo dimostra quindi, inequivocabilmente, lo
squilibrio esistente tra donne e uomini magistrati negli uffici con poteri
decisionali.
Né la situazione migliora ove si ponga attenzione agli incarichi semidirettivi:
tra gli aventi titolo, individuati come sopra (magistrati aventi un'età
superiore ai 50 anni), solo l'1,6% delle donne svolge funzioni semidirettive, a
fronte di una ben maggiore percentuale maschile del 21,1% (all. D1). Tale dato
appare particolarmente preoccupante perché le funzioni semidirettive sono,
nella gran parte dei casi, propedeutiche al conferimento degli incarichi
direttivi, il che induce a ritenere che anche nel prossimo futuro non sarà
agevole per le donne il raggiungimento di funzioni di
vertice.
Del resto, che il problema della scarsa presenza femminile negli incarichi di
vertice non sia esclusivamente legato alla minore anzianità di servizio delle
donne in Magistratura è dimostrato dall'esclusione delle donne-magistrato anche
da altri settori rilevanti e da altre aree di interesse nelle quali la
rappresentanza non è ancorata al requisito della maggiore anzianità.
Si pensi, innanzitutto, alla rappresentanza nell'organo di autogoverno
della magistratura: fino al 1990 solo 1 donna magistrato vi era stata eletta ed
anche nel quadriennio in corso 1 sola donna magistrato ne fa parte, a
differenza peraltro che nello scorso quadriennio in cui la presenza femminile è
stata leggermente superiore (in numero di 3).
La situazione non migliora in ambito associativo, considerato che la presenza
femminile negli incarichi di vertice dell'ANM è assolutamente irrisoria.
Ed anche nel settore assai rilevante della formazione professionale non si
registra una significativa presenza femminile ove si consideri che, se
attualmente nell'ambito del Comitato Scientifico presso il CSM vi è una
buona percentuale di donne (3 su 12), nei distretti di corte d'appello
su 85 "formatori decentrati" le donne sono solo 19.
La spiegazione va, dunque, ricercata altrove.
Non vi è dubbio che il più rilevante fattore di "diversità" per le
donne è rappresentato dalla maternità e dagli obblighi che da essa derivano:
del resto, storicamente il modello di lavoratore al quale ogni datore di lavoro
guarda con maggiore interesse è rappresentato da colui che non ha obblighi
sociali "di cura" (nei confronti dei minori, degli anziani etc.). E'
evidente, pertanto, che di fronte a tale peculiarità femminile l'organizzazione
del lavoro diventa elemento di fondamentale rilevanza, poiché incide
pesantemente nei confronti delle donne e sul loro modo di porsi di fronte
all'esercizio della giurisdizione.
Di qui l'importanza di avviare una riflessione sui modelli culturali sottesi
all'organizzazione del lavoro che, tradizionalmente, risentono
di un modo di pensare tipicamente "maschile". Come giustamente
rilevato dalla Commissione per le Pari Opportunità in Magistratura istituita
presso il Consiglio Superiore della Magistratura, v'è da chiedersi <<se
l'esistenza di determinati criteri di scelta tra magistrati e una certa
struttura organizzativa del lavoro - intrinsecamente maschili, quantomeno
perché pensati da un Parlamento legislatore a composizione prevalentemente
maschile e regolamentato da un CSM pressochè
esclusivamente maschile - non siano essi stessi la
causa, tra gli altri fattori, di scelte di autoesclusione
apparentemente libere>>.
Alcuni esempi costituiscono la riprova della fondatezza di questa
considerazione.
Si pensi, innanzitutto, all'incompatibilità distrettuale prevista per il
passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti, e viceversa, dal
progetto di riforma dell'ordinamento giudiziario: è, questa, una disposizione
che, se rende difficile per tutti i magistrati il cambio delle funzioni, di
fatto scoraggiandolo, sicuramente penalizza in modo particolare le donne che
nella gran parte dei casi, per motivi familiari, si vedranno costrette a
rinunciare allo svolgimento di funzioni plurime, con inevitabili ripercussioni
anche sulle attitudini alla dirigenza, la cui valutazione è in parte ancorata
proprio allo svolgimento di una pluralità di "mestieri" giudiziari.
Appare evidente, quindi, come la cultura sottesa al progetto di riforma risenta
di un modo di pensare "maschile", quantomeno perché non sembra
affrontare con la dovuta consapevolezza il problema della "ricaduta" di alcuni aspetti riformatori nei confronti del mondo
femminile in Magistratura.
Del pari, le modifiche introdotte dalla recente legge 44/2002 in tema di
composizione del CSM tendono ad aggravare il problema della
sotto-rappresentanza delle donne nell'organo di autogoverno
della Magistratura. Ed infatti il nuovo sistema
elettorale, che nell'intento di superare le divisioni in correnti ha introdotto
il collegio unico nazionale e la preferenza unica, ha in realtà favorito, come
la recente esperienza ha già dimostrato, collegamenti ed accordi "di
vertice" , ai quali le donne sono solitamente estranee sia per tradizione
culturale sia a causa della loro pressoché totale assenza nei ruoli apicali
dell'ANM.
Ed ancora, in tema di riforma dell'ordinamento giudiziario, la prevista
istituzione di sezioni specializzate per la famiglia e per i minori presso i
tribunali ordinari e le corti di appello, in sostituzione dei tribunali per i
minorenni, tocca un'area che si è andata caratterizzando al femminile -
evidentemente perché le donne magistrato riescono a cogliere meglio, rispetto
ai colleghi maschi, le esigenze che il mondo minorile esprime, fornendo
risposte più adeguate e più vicine ai bisogni dei minori - e rischia così di
disperdere, per effetto del decentramento connesso a tale riforma e della
prevedibile difficoltà dei giudici minorili donne di trasferirsi in tribunali
decentrati (attualmente, infatti, i tribunali per i minorenni sono istituiti
nelle città sedi di corte d'appello), un patrimonio culturale e di
specializzazione difficilmente riproducibile in tempi ragionevoli.
Se queste sono le ragioni che rendono necessario in Magistratura un mutamento
culturale nel senso sopra indicato, v'è da dire che oggi l'avvio di una seria
riflessione sul punto appare ancor più ineludibile:
lo richiede, infatti, la costituzionalizzazione del
principio delle pari opportunità che, come già detto, impone al Legislatore di
adottare tutte quelle "azioni positive" che tendano a correggere le
discriminazioni esistenti, al fine di tradurre su un piano concreto il
principio dell'uguaglianza formale in uguaglianza sostanziale.
Del resto, in Magistratura l'esigenza di un rinnovamento culturale è ormai
diffusa, come dimostra chiaramente la normazione secondaria del CSM che negli
ultimi anni si è andata caratterizzando per una progressiva e sempre maggiore
attenzione al mondo femminile: si pensi, in particolare, alla circolare n.
160/96 del 10 aprile 1996 contenente significative previsioni tabellari relative alle donne incinte o con prole di età
inferiore ai tre anni (in base a dette disposizioni il Capo dell'Ufficio dovrà
tenere conto della condizione delle donne-magistrato incinte o con figli in tenera
età, al fine di prevedere un'organizzazione del lavoro interna tale da
consentire alle stesse di rimanere il più a lungo possibile in servizio o
comunque di farvi rientro quanto prima, svolgendo attività compatibili, per
modi e tempi, con la loro situazione personale); alle modifiche di circolare in
tema di tramutamento di funzioni e di assegnazione della prima sede agli
uditori, con la previsione di punteggi aggiuntivi in caso di figli in tenera
età e di accertata gravidanza dell'uditrice giudiziaria o della moglie
dell'uditore giudiziario; alla delibera 11 gennaio 2001 relativa alla
partecipazione delle donne magistrato agli incontri di studio organizzati dal
CSM (che ha previsto una quota di posti riservati alle donne, destinati al
recupero di mancate partecipazioni ad incontri di studio per ragioni connesse
ad astensione obbligatoria e/o facoltativa per maternità o a congedi
parentali). Significativa è anche la recentissima
iniziativa del CSM e del Comitato per le pari opportunità in Magistratura relativa
all'organizzazione di un incontro di studio internazionale, in parte finanziato
dalla Commissione Europea, avente ad oggetto la tematica della
"equilibrata partecipazione tra uomini e donne nel processo
decisionale".
Vorrei chiudere con una notazione di convinto ottimismo.
Non vi è dubbio che negli ultimi anni molte cose sono cambiate in Magistratura
e molte altre cambieranno, probabilmente non in meglio: siamo soliti, in questi
ultimi mesi, lamentare, a ragion veduta, l'irrazionalità del progetto di
riforma dell'ordinamento giudiziario che, così come congegnato, non risolverà
alcuno dei reali problemi che oggi ostacolano il diritto dei cittadini ad avere
una giustizia rapida, efficace ed effettiva, indipendente ed imparziale, uguale
per tutti.
Sicuramente però gli ultimi anni sono andati caratterizzandosi in positivo per
un'accresciuta consapevolezza del ruolo delle donne in Magistratura e per una
loro più accentuata presenza in settori di rilievo. Consentitemi un esempio
personale: oggi 6 donne-magistrato lavorano al CSM presso la Segreteria del
Consiglio e l'Ufficio-Studi (a fronte di 12 uomini), mentre nel 1995, e per
svariati anni, la presenza femminile è stata limitata alla sottoscritta,
peraltro prima donna nello svolgimento delle funzioni consiliari di Magistrato
Segretario. E l'esempio non è isolato se si considera che attualmente
i magistrati fuori ruolo presso il CSM, la Corte Costituzionale ed il Ministero
della Giustizia sono suddivisi in 109 uomini e 45 donne; che anche presso altri
Ministeri o Istituzioni la percentuale delle donne fuori ruolo è
particolarmente elevata: 13 donne e 26 uomini; e che persino gli incarichi
all'estero vedono una presenza femminile sicuramente significativa: 5 donne e
15 uomini. Ulteriore elemento di valutazione positiva
deriva, poi, dalla constatazione che presso i Consigli Giudiziari, organi
istituzionali distrettuali che negli ultimi anni hanno visto accresciute le
loro competenze ed hanno perciò assunto un rilievo crescente, la presenza
femminile è particolarmente significativa essendo rappresentata da 72 donne su
208 posti.
In definitiva, ritengo che in questi anni stia effettivamente maturando
all'interno e all'esterno della Magistratura una diffusa consapevolezza dei
meriti e delle caratteristiche peculiari dell'essere
"donne-magistrato": la differenza che i giudici-donne possono fare
dipenderà, ovviamente, innanzitutto da noi donne, ma la ricerca e la
riflessione costante su questo argomento non possono che agevolare il nostro
percorso di crescita. Ringrazio, pertanto, gli organizzatori di questo convegno
per l'opportunità culturale che ci hanno offerto.
Torino, 25 ottobre 2003
Giuseppina Casella