inserito in Diritto&Diritti nel aprile 2003

Remissione nei processi: Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza n.13687/2003. (Presidente: N. Marvulli; Relatore: M. Battisti)

 

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LA CORTE SUPREMA DI CASAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel corso di due processi, pendenti, rispettivamente, dinanzi alla prima e alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano in fase dibattimentale, gli imputati S. B., C.P., F.V., A. P., F. R., R. B. R ., R. S., e O.S. hanno presentato in date diverse, dal 1° marzo all ' 8 aprile 2002, distinte richieste di rimessione ai sensi degli artt. 45 e segg. c.p.p.; tutti, ad eccezione del V. e del P., hanno presentato contestuale richiesta di sospensione dei processi di merito a norma dell'art. 47, comma 2, c.p.p.

Disposta dall'autorità giudiziaria milanese l'immediata trasmissione di tali richieste, con i relativi allegati, a questa Corte, il Primo Presidente, in accoglimento di analoga istanza presentata dai primi due imputati, cui hanno prestato successivamente adesione anche gli altri richiedenti, ha disposto, con decreti del 19 e del 26 marzo 2002, la loro assegnazione alle Sezioni Unite penali, sul rilievo che le questioni proposte rivestono speciale importanza per la complessità dei motivi prospettati e che appare altresì opportuno, a causa del ruolo +istituzionale assunto da uno degli imputati, investire della decisione la più qualificata espressione della giurisdizione penale.

Con gli stessi provvedimenti è stata rimessa al Collegio ogni decisione sull'istanza di riunione dei procedimenti e sulla sospensione dei processi in corso.

La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano ha proposto osservazioni alle quali ha replicato, con memoria, la difesa di S.B.

Sono state, poi,. Inoltrate le ulteriori richieste di rimessione presentate in epoca successiva, la cui assegnazione alle Sezioni Unite è stata disposta con decreti del Primo Presidente di contenuto identico a quelli sopra citati

A) S.B.

L'istante premette che l'esigenza ineliminabile e mai conculcabile dell'indipendenza ed imparzialità del giudice trova la propria conferma e tutela nell'istituto della rimessione del processo, di cui, sia pur nella vigenza del codice abrogato, la Corte costituzione (sentt. N. 50 e n. 109 del 1963) ha sottolineato la natura di suprema garanzia di giustizia, a conferma, e non in deroga, dello principio del giudice naturale precostituito per legge sancito dall'art. 25 Cost.

L'art. 45 c.p.p., poi, a differenza della corrispondente disposizione del codice abrogato (art. 55 c.p.p. 1930), prevede ora come presupposto della rimessione gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili che, una volta accertate, impongono la translatio, e non solo la consigliano, come nella disciplina previgente.

Ciò significa che il legislatore ha riconosciuto come l'ambiente in cui un processo si svolge possa influire sui giudizi, alterandoli e finanche deviandone l'esito, allorchè la grave situazione locale abbia proiettato un'ombra di indiscriminato sospetto e di generale sfiducia sugli uffici giudiziari nel loro complesso, generando quell'attentato alla serena formazione della decisione giurisdizionale a cui baluardo è posto l'istituto della remissione; e tale situazione, ad avviso dell'istante, si può verificare quando siano messi in pericolo i valori costituzionalmente tutelati della sicurezza e della pubblica incolumità.

In tale prospettiva possono acquistare un particolare rilievo, ai fini dell'accoglimento della richiesta, anche le manifestazioni di piazza, le dichiarazioni pronunciate in pubblico ed in occasioni istituzionali da parte di rappresentanti della magistratura e della politica, tutti fenomeni esterni alla normale dialettica processuale quando mirano ad eccitare la suggestione dell'ambiente, tenendolo in costante allarme; una situazione, dunque, ben lontana dalla quiete sociale.

Nel caso di specie, sottolinea l'istante, viene in rilievo l'ipotesi della rimessione, per il vulnus recato alla libertà di determinazione di coloro che partecipano al processo, dovendosi individuare l'esistenza di una sorta di pregiudizio implicante una vera e propria coartazione fisica o psichica, preclusiva per tutti di ogni possibilità di scelta e segnatamente per i difensori degli imputati; ed il difensore, per la sua alta funzione di titolare del diritto di difesa tecnica e per il ruolo di parte processuale riconsciutogli dall'ordinamento, è garantito nella sua libertà di determinazione al pari degli altri soggetti di cui all'art. 45 c.p.p.

Ne deriva che anche l'atteggiamento manifestato più volte dall'ufficio del pubblico ministero nei confronti degli avvocati difensori degli imputati, unito ad un clima di tensione e di esacerbata contrapposizione, ovvero la stesa situazione obbiettiva del processo quale ricavabile dalle ordinanze fin ora collegialmente pronuncia dal Tribunale sulle molteplici questioni sorte nel suo svolgimento, fanno fondatamente presagire un esito non imparziale e sereno del giudizio.

Tale situazione costituisce all'evidenza un dato effettivamente inquinante del processo non altrimenti eliminabile se non con il rimedio della rimessione.

Su tale complessa situazione, si espone nella richiesta, va innestato l'ulteriore elemento, giuridicamente rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 45 c.p.p., della campagna di stampa tuttora in atto quale ulteriore indice di una situazione locale idonea a turbare lo svolgimento del processo.

Detta campagna di stampa, che si protrae da lungo tempo ed è particolarmente segnata dall'asprezza dei toni, è tale da incidere direttamente sulla capacità del giudice di assolvere con obbiettività il compito demandatogli e sulla libertà di determinazione degli altri partecipanti al processo, e presenta altresì tutte le caratteristiche sintomatiche, individuate dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza 7 giugno 1978, ric. De Stefano, dell'attività informativa astiosa, continua e prevaricante il diritto di cronaca che costituisce mezzo diretto a creare, intorno al processo stesso, un ambiente scandalistico e fazioso teso verso opinioni preconcette in rapporto ad un avvenimento o nei confronti dei protagonisti dello stesso.

Ciò premesso , l'istante elenca a sostegno della richiesta varie circostanze di fatto, premettendo la considerazione che nel corso degli anni, nell'ambito dei procedimenti nei suoi confronti celebratisi in Milano sono accaduti eventi eccezionali, sia in tema di applicazione del diritto e della procedura, sia per quanto attiene al comportamento della magistratura milanese e di tutto l'ambiente intorno a questa gravitante, di cui rappresenta la sintesi il discorso svolto in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario dal procuratore generale presso la Corte di appello dott. Borrelli.

Anche agli esami degli atti del dibattimento e dell'udienza preliminare, si osserva, è agevole comprendere come la magistratura milanese abbia adottato una serie di decisioni ed abbia tenuto atteggiamenti che sono in diretta e strettissima correlazione con la situazione ambientale descritta.

Quanto all'atteggiamento nel tempo della procura di Milano, l'istante espone che dopo la sua discesa in politica e la creazione di un nuovo partito nei suoi confronti nonché nei confronti di manager, dipendenti e collaboratori del gruppo FININVEST ha avuto inizio una lunga serie di procedimenti penali, caratterizzati da richieste di misure cautelari personali, perquisizioni, sequestri anche presso banche in Italia ed all'estero, con il risultato che solo in alcune limitatissime ipotesi vi è stato il riconoscimento definitivo di responsabilità penali; il tutto accompagnato dalle dichiarazioni pubbliche di chiara natura politica del dott. Borrelli e dei magistrati della Procura, a far data da quella in cui (dicembre 1993- febbraio 1994) l'allora procuratore di Milano invitava quelli che si vogliono candidare a guardarsi dentro ed a presentarsi in lista solo se puliti.

In particolare si ricordano la pubblica lettura da parte dei magistrati della procura di un proclamo contro un decreto legge dell'esecutivo; il rilascio, da parte del dott. Borrelli, di dichiarazioni costituenti una sorta di preavviso di garanzia a mezzo stampa rivolto all'istante; la notifica di un avviso di garanzia, par altro anticipata giornalisticamente, effettuata allo stesso istante mentre, nella veste di presidente del consiglio, presiedeva una conferenza internazionale; le critiche rivolte dall'allora procuratore generale presso la Corte di appello, dott. Catelani, al modus operandi del Pool.

A prescindere dalle dichiarazioni pubbliche dei magistrati milanesi, osserva l'istante come nel 1997 il Parlamento in cui il centro- destra era pur in minoranza, ha individuato nel rigettare la richiesta di autorizzazione all'estero dell'on. P., coimputato del processo cui si chiede ora la rimessione, l'esistenza del fumus persecuzioni, ed ha accolto la proposta della competente Giunta per le autorizzazioni che aveva accertato un'esperienza accusatoria nell'iniziativa del GIP.

A riprova dell'atteggiamento della procura nei suoi confronti l'istante indica inoltre un intervento ufficiale del dott. Borrelli il quale, come procuratore generale di Milano, aveva richiesto al procuratore generale presso la Corte di cassazione di sollecitare la fissazione di un processo a suo carico; il discorso inaugurale dell'anno giudiziario 2002, svoltosi in un clima da stadio e con pesanti intimidazioni ai parlamentari di Forza Italia ed alla rappresentante del governo, in concomitanza con una manifestazione di piazza fuori del palazzo di giustizia a sostegno dei magistrati milanesi e contro il governo tenuta da elementi dell'estrema sinistra e con il volantinaggio di un centinaio di asseriti giuristi milanesi di sinistra, diffamatorio nei confronti dei difensori del processo in oggetto; un manifestazione tenutasi il 26/1/2002 attorno al Tribunale di Milano, con la presenza di oltre 3000 persone che solidarizzavano con i magistrati Milanesi contro le posizioni della difesa degli imputati ed il governo.

Rileva altresì l'istante come i comportamenti dei magistrati del PM durante l'intero procedimento abbiano raggiunto quei livelli che la giurisprudenza di legittimità ha indicato come idonei a legittimare la translatio judicii, in quanto l'atteggiamento persecutorio, superando i limiti dell'ordinaria dialettica processuale è suscettibile di produrre riflessi negativi sulla serenità e correttezza del giudizio.

Indica, a dimostrazione del clima in cui si sta svolgendo il processo, la sua tardiva iscrizione nel registro degli indagati che gli ha impedito di interloquire in ordine alla proroga delle indagini (pag. 12), nonché la irrituale e tardiva contestazione suppletiva (art. 319- ter. c.p.), effettuata solo nell'udienza dibattimentale del 17/11/2000, nonostante gli elementi già raccolti la rendessero possibile anche in precedenza; e ciò al solo scopo di radicare la competenza milanese in virtù del più grave reato fra quelli contestati con il decreto dispositivo del giudizio (art. 2621 c.c.), che tale tuttavia non sarebbe stato se quell'oggetto della contestazione suppletiva, il quale avrebbe radicato, perché a sua volta più grave, diversa competenza territoriale fosse stato tempestivamente rubricato.

Aggiunge l'istante la denuncia della patologica aggressività dell'ufficio del pubblico ministero, che non si è esercitata solo nei confronti degli imputati, bensì anche nei confronti dei difensori, costretti a recarsi presso il procuratore D'Ambrosio per segnalare il comportamento del sostituto Boccassini, perché funzionale non al processo, ma ad intimidire le difese.

Quanto all'atteggiamento degli organi giudicanti, evidenzia: a) l'incompletezza del fascicolo delle indagini preliminari depositata dal PM, denunciata al GUP ma da lui non sanata con idonei interventi sul PM; b) la mancata doverosa astensione del GUP dott. Rosato, a seguito dell'accertamento da parte del Parlamento del carattere persecutorio della sua richiesta in ordine all'arresto dell'on P.; c) la mancata risposta del predetto GUP alla richiesta di incidente probatorio formulata nell'udienza preliminare sia con riferimento all'audizione di alcuni testimoni, sia con riguardo ad una perizia contabile sui bilanci oggetto dell'imputazione; d) la violazione del diritto di difendersi provando posta in essere dal Tribunale il quale, nell'udienza dibattimentale del 17 novembre 2000, negava agli imputati l'ammissione dei testimoni indicati su circostanze favorevoli, di quelli destinati a fungere da controprova e dei consulenti tecnici di parte; e) la sostanziale negazione, da parte del tribunale, del diritto della difesa di esaminare i documenti, contenuti in cento faldoni, indicati dal PM nell'esposizione introduttiva svolta nell'udienza del 9 giungo 2000, ma non fisicamente depositati; f) l'illegittimo rifiuto, da parte del Tribunale, di far regredire il processo alla fase dell'udienza preliminare in ordine al reato suppletivamente contestato, in relazione al quale l'udienza predetta non era stata pacificamente tenuta, in palese violazione della lettera dell'art. 516, comma 1- ter c.p.p. (se a seguito della modifica, dell'imputazione, risulta un reato per il quale è prevista l'udienza preliminare e questa non si è tenuta, l'inosservanza delle relative disposizioni è eccepita, a pena di decadenza, entro il termine indicato dal comma 1- bis); g) la mancata e illegittima concessione dei termini a difesa ad alcuni sostituti processuali nominati d'ufficio, in particolare all'avv. Pecorella, nominato sostituto dei difensori dell'imputato P. nell'udienza del 5/2/2001, ed all'avv. Novellino, nominato sostituto dei difensori dell'imputato M. nell'udienza del 6/4/2001, nonché la irrituale nomina di quest'ultimo; h) l'illegittima ordinanza di rigetto dell'istanza di rinvio formulata nell'udienza del 15/12/2001 dall'imputato onorevole P. per concomitanti impegni parlamentari, basata sulla mancanza di prova dell'effettiva presenza del parlamentare alla seduta della camera di appartenenza, contraddetta tuttavia da altra successiva ordinanza che riconosceva la difficoltà del medesimo imputato di fornire la prova richiesta ma che, illogicamente, non revocava la precedente, ne dichiarava la nullità dell'udienza celebrata in sua assenza; i) la mancata dichiarazione di inutilizzabilità, in violazione della legge 367/2001, degli atti pervenuto in esecuzione di rogatorie internazionali e privi di qualsiasi timbro di autenticità; osserva l'istante che analoghe decisioni sono state adottate anche nel processo pendente davanti alla seconda sezione (cd. All Iberian), in cui pure è imputato, nonché in quello pendente davanti alla quarta sezione (c.d. Imi Sir) e rileva l'assoluta e peculiare sintonia tra i Collegi giudicanti, allarmante se posta in relazione con quanto dichiarato alla stampa dal dott. Borrelli, secondo il quale lo sforzo della magistratura sarà quello di neutralizzare sul piano interpretativo i peggiori guasti che dalla legge sulle rogatorie possono nascere; l) la insubordinazione commessa dal tribunale rispetto alla sentenza con la quale la Corte costituzionale, risolvendo il conflitto di attribuzioni, aveva annullato le plurime ordinanze del GUP che negavano la sussistenza di un legittimo impedimento a partecipare all'udienza dell'imputato on. P., impegnato in parlamento; il tribunale, infatti, ai sensi dell'art. 185 c.p.p., avrebbe dovuto dichiarare la nullità di tutti gli atti conseguenti alle ordinanze predette e disporre la trasmissione del fascicolo al giudice dell'udienza preliminare: ciò non è tuttavia avvenuto, con elusione dell'osservanza del dictum della sentenza costituzionale di annullamento.

A ciò si aggiunga che sia la prima (processo SME- Ariosto) che la quarta sezione (processi ora riuniti Imi- Sir e lodo Mondadori) del tribunale, davanti alle quali si proponeva l'identica questione dell'invalidità derivata, a dispetto della rapidità con la quale era stato condotto fino a quel omento il dibattimento, hanno disposto, dopo la sentenza predetta, un rinvio delle udienze per svariati mesi; e che il presidente della quarta sezione in una missiva al presidente della camera dei deputati volta ad ottenere informazioni sui futuri lavoratori dell'assemblea, anticipava sostanzialmente la decisione che, sull'anzidetta questione, sarebbe stata adottata sia dal collegio da lui presieduto, sia dalla prima sezione, a conferma di come se fosse maturata al di fori della sede tipica processuale; m) l'inesistente intercettazione ambientale di una conversazione tra gli imputati S. e M. asseritamente effettuata presso il Bar M. di Roma ed utilizzata ai fini cautelari, in relazione alla quale il GIP dott. Rossato non ha compiuto alcuna verifica documentale ritardando indebitamente la risposta alle richieste di incidente probatorio circa le modalità della sua esecuzione.

Gli operatori di PG che tale attività di captazione hanno compiuto, rileva altresì l'esponente, si trovano attualmente sottoposti a procedimento penale davanti alla procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia per il reato di falso ideologico, ipotizzato proprio in relazione a quanto avvenuto nel corso delle operazioni investigative; gli organi delegati per le indagini sono dunque a loro volta indagati, con la conseguenza che, alla stregua di quanto affermato dalla Corte di cassazione nel caso Cerciello (vedi infra, N.d.R.) in dibattimento si verrà a formare una prova che non potrà non essere condizionata, con riferimento sia ai tesi- indagati di reato connesso sia allo stesso PM che ha svolto le indagini proprio avvalendosi del loro ausilio investigativo; n) l'irritualità della composizione del collegio, de quale non poteva fare più parte, a seguito della decisione 31/12/2001 del Ministero della giustizia, il giudice dott. Brambilla, trasferito ad altro ufficio (sorveglianza), la cui titolarità è incompatibile, ai sensi dell'art. 68, L. 354/75, con lo svolgimento di altre funzioni giudiziarie; il comportamento del predetto magistrato, teso pervicacemente ad esercitare le funzioni presso l Tribunale ordinario, a fronte di una situazione da lui obbiettivamente creata con la richiesta di trasferimento la sua mancata astensione; l'immediata dichiarazione di inammissibilità della ricusazione proposta nei suoi confronti; l'illegittima sua applicazione al Tribunale per la prosecuzione del processo, disposta dal presidente della Corte di appello, a riprova dell'atteggiamento ambientale della magistratura milanese che ha così reagito ad un legittimo atto del ministero; o) l'irrituale nomina di un difensore di ufficio all'imputato P., che aveva revocato i propri, e la mancata concessione allo stesso dei termini a difesa, pur dovendosi procedere all'escussione di numerosi ed importanti testimoni.

Le variegate e straordinarie interpretazioni in punto di diritto operate dalla magistratura milanese acquistano, ad avviso dell'istante un preciso significato se ripercorse alla luce delle esternazioni di vari magistrati ed in particolare del discorso svolto in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario dal dott. Borrelli il quale, assumendo il ruolo di leader in pectore dell'opposizione più radicale ed estrema al governo B., ha tracciato il programma di quello che è stato e di quello che sarà nel futuro l'atteggiamento della stessa magistratura in tema di esercizio del diritto di difesa (paragonato agli atti emulativi), riforme legislative e politica giudiziaria, amministrazione della giustizia e prestigio dell'origine giudiziario.

Allo stesso modo, si osserva, assumono decisivo rilievo la dichiarazioni pubbliche del dott. D'Ambrosio, procuratore della Repubblica di Milano, in totale sintonia con quelle del dott. Borrelli specie in ordine alla critica verso il legittimo esercizio dell'attività difensiva e della dott. Boccasini.

Ciò che più preoccupa rileva ancora l'istante, è tuttavia la grave situazione dell'ordine pubblico, testimoniata innanzitutto da quanto accaduto durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario, con folla plaudente i passaggi più aggressivi del riscorso del dott. Borrelli, ovazioni, slogan contro il governo, gli imputati e i loro difensori, con i deputati di Forza Italia costretti ad abbandonare l'aula; nonché provata da successive manifestazioni di piazza, scritte minacciose sui muri tafferugli tra sostenitori di opposte fazioni, fino alla manifestazione organizzata al Palavobis il 23 febbraio 2002 per l'anniversario di Mani Pulite, nel corso della quale migliaia di persone hanno dimostrato con accenti durissimi non tanto a favore dei magistrati, quanto, con particolare livore, contro il presidente del consiglio in carica, in nome della parola d'ordine resistere, resistere, RESISTERE.

La situazione dell'ordine pubblico e della serenità del processo devono ritenersi dunque irrimediabilmente compromesse.

B)C.P.

Premesso che il c.d. Pool di Milano è assurto negli anni a rango di organismo politico, in grado di condizionare, in alcuni momenti drammatici, le stesse istituzioni repubblicane, osserva, l'istante che nella sede giudiziaria milanese si è instaurata una giustizia politica ad illustrare i risvolti della rinvia ad una serie di pubblicazioni allegate.

L'azione diretta a colpire l'on. B. e le persone a lui politicamente o professionalmente legate è stata così trasposta al di fuori della tipica sede processuale, attraverso continue propalazioni provenienti dalla procura di Milano o comunque a tale ufficio attribuibili, concernenti, in molti casi, perfino notizie coperte dal segreto investigativo; la strategia dei magistrati milanesi inquirenti è stata quella di anticipare gli elementi di accusa, con mirate anteprime mediatiche, in modo da preparare al successivo sviluppo processuale e così, sulla base di un precostituito consenso popolare, anch'esso abilmente creato grazie all'attivazione studiata ed organizzata della piazza, ottenere risultati processuali altrimenti irraggiungibili, data la abilità del costrutto accusatorio.

Se dunque, rileva l'istante il rimedio giuridico della rimessione deve essere attivato quando il processo e le persone che in esso agiscono soffrono di condizionamenti e di turbamenti provenienti dall'esterno, una simile anomalia è stata per prima creata e progettata all'interno degli uffici della procura di Milano che sulla prevaricante azione di disturbo processuale ha fondato il proprio operato, principalmente alla ricerca del consenso mediatico e politico, senza il quale i processi nei confronti suoi e dell'on. B. non si sarebbero potuti nemmeno iniziare, per essere stata trascurata proprio la ricerca degli elementi di prova e i riscontri di fatto che avrebbero dovuto sostenere l'accusa, viceversa rimasta allo stato embrionale o addirittura calibrata su fatti non previsti come reato oppure già prescritti, come ritenuto dalla Corte di cassazione nelle sentenze nn. 2006 del 13/8/1996 e 3524 del 16/11/2001.

Esempio eclatante è costituito dalla notifica all'on. B., all'epoca primo ministro dell'invito a comparire per rendere l'interrogatorio sull'imputazione poi ritenuta dall'origine infondata (Cass., n. 1170 del 19/10/2001, al. 5- bis),

effettuata mentre presiedeva un vertice internazionale ed accompagnata dalla violazione del segreto investigativo circa l'iscrizione del predetto nel registro degli indagati; tutto ciò secondo un programma di studiata e sistematica violazione del segreto, la cui esistenza è stata confermata in un intervista dallo stesso dott. Ghitti, all'epoca GIP presso il Tribunale di Milano.

In specie l'istante, oltre a lamentare l'esistenza nei suoi confronti di una campagna di demoninzzazione alimentata da indebita anticipazione di notizie riservate, censurata anche dal capo dello stato (al. 6), espone di essere stato oggetto di particolare attenzione del dott. Borrelli, il quale, al momento del voto parlamentare in ordine alla richiesta di autorizzazione al suo arresto presentata dal A. G. Milanese, dichiarò pubblicamente che il Parlamento avrebbe dovuto dare un segnale morale al Paese concedendo l'autorizzazione e, più recentemente, censurandone la condotta processuale, lo accostato ai terroristi.

Lo stesso dott. Borrelli ha offerto al pubblico la summa dei principi dell'azione paragiudiziaria diretta ad influenzare il corso del processo nella relazione svolta nella veste di procuratore generale in occasione della cerimonia di apertura dell'anno giudiziario, risoltasi in un discorso programmatico di gestione politica dell'azione giudiziari, tale da apparire finalizzato a spingere la magistratura milanese ad assumere iniziative conto il capo del governo nell'ambito dei procedimenti in corso come ritorsione per la adozione, sul piano politico, di condotte ritenute punitive e perfino minatorie nei confronti degli stessi magistrati milanesi, tra le quali la riduzione delle scorte a quelli, ra loro, impegnati a sostenere l'accusa nei confronti dell'on. B.; nella medesima occasione il dott. Borrelli ha invocato l'introduzione di un illecito di oltraggio alla giustizia nei confronti degli avvocati che abbiano adottato strategie dilatorie, con allusione evidente alla condotta processuale dell'istante, già da lui pubblicamente stigmatizzata, ed invito palese alla soppressione del suo diritto di difesa, esercitato peraltro sempre correttamente.

I violenti attacchi, le sistematiche violazioni del segreto investigativo con le conseguenti amplificazioni sugli organi di informazione, i proclami di natura politica, l'invito al disprezzo degli imputati come individui immorali e spregevoli, invito alla soppressione di ogni forma processuale a favore di un giustizialismo ad oltranza hanno creato non un semplice clima, ma un vero e proprio contesto che, ad avviso dell'istante, rende impossibile la celebrazione dei processi nei confronti suoi e dell'on. B. senza l'intervento di fattori esterni che condizionino pesantemente l'operato di giudici e parti.

In particolare si sottolinea: la politicizzazione della magistratura milanese, di cui è conferma l'accertamento effettuato dalla Giunta delle autorizzazioni a procedere che, nella sua relazione approvata a larga maggioranza dalla Camera dei deputati, ha segnalato una serie impressionante di anomalie che hanno contraddistinto l'azione della procura Milanese, ritenendo sussistente l'esistenza del fumus persecutionis riconducibile all'operato della procura stessa e del giudice per le indagini preliminari.

Il contesto ambientale nel quale agisce la magistratura milanese è stato altresì accertato nel dibattito sulla questione giustizia svoltosi al senato nei giorni 4 e 5 dicembre 2001, dal quale è risultato chiaro che i magistrati milanesi hanno agito in funzione metagiudiziaria per cercare il consenso dell'opinione pubblica, sono stati promotori di riunioni anomale finalizzate ad elaborare una strategia processuale nei confronti dell'istante e dell'on. B., volte ad eludere norme di legge, una sentenza costituzionale e i diritti di difesa, hanno organizzato assemblee, volantinaggi, affissioni di manifesti e partecipato a manifestazioni di piazza di stampo giustizialista contro i predetti, assumendo per bocca dei loro capi riconosciuti, i dottori Borrelli e D'Ambrosio, posizioni e atteggiamenti dichiaratamente politici incompatibili con l'indipendenza e la libertà di autodeterminazione, nonché la serena partecipazione ai processi degli imputati e dei loro difensori.

Essendosi siffatte condotte realizzate in via generalizzata, e mostrandosi pertanto inadeguato a rimuovere il giudice sospetto l'istituto della ricusazione, risulta evidente ad avviso dell'istante che non può esservi altro rimedio a tutela dell'imparzialità di giudizio che la rimessione ex art. 45 c.p.p.

La concertazione contra reum; si espone nella richiesta che nel palazzo di giustizia di Milano si sono tenute riunioni informali tra magistrati, non programmate e comunicate secondo l'ordinamento giudiziario e le autorizzazioni del CSM, avente ad oggetto non temi di studio o approfondimento giuridico culturale, bensì la strategia da seguire nei processi contro l'istante e l'on. B. e l'individuazione di linee interpretative comuni di tipo elusivo, abrogativo, soppressivo, dirette a preparare e sostenere, anche con la partecipazione di estranei agli uffici giudiziari milanesi (come il dott. G. Caselli), una serie di decisioni totalmente illegittime perché al di fuori dei limiti delle competenze funzionali del giudice dibattimentale e della stesa giurisdizione, che sarebbero state poi adottate nei confronti del medesimo istante.

In particolare, a riprova dell'assunto, si espone che i magistrati di Milano (PM e giudici) si sono riuniti in gruppo, più volte, per decidere collettivamente la condotta da adottare contro l'istante in ordine all'applicazione della legge n. 367 del 2001 in tema di rogatorie internazionali a tali incontri ha partecipato il dott. Borrelli, il quale aveva annunciato poco prima pubblicamente, sulla stampa nazionale, che la legge sulle rogatorie sarebbe stata neutralizzata: ed infatti, si legge nella richiesta, puntualmente i giudici che procedono hanno letteralmente disapplicato, con argomentazioni capziose e sofistiche, la predetta legge dello Stato e la convenzione europea di assistenza giudiziaria pur di non mettere in pericolo la prova d'accusa predisposta dalla procura di Milano.

Allo stesso modo l'esistenza di accordi realizzati da magistrati milanesi al fine di condizionare i processi contro gli imputati P. e B. ed altri è provata dalla disapplicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 225 del 2001 la quale, accogliendo il ricorso per conflitto di attribuzione, ha annullato le ordinane del GIP milanese che avevano negato all'istante il riconoscimento del legittimo impedimento a partecipare ad udienze derivante dallo svolgimento di attività parlamentari, l'orientamento dei giudici, a riprova del previo accordo era stato preannunciato da una lettera indirizzata dal Presidente della 4° sezione penale del Tribunale al presidente della Camera dei deputati, nella quale si estendevano le preoccupazioni sugli effetti di detta sentenza anche al processo pendete presso la prima sezione, ad ulteriore dimostrazione del concerto, ben prima che i collego impegnati nella trattazione dei processi si pronunciassero in merito.

In oltre, ad avviso dell'istante, solo ipotizzando un accordo tra i giudici precedenti e tra i titolari delle sezioni giudicanti del tribunale e della Corte di appello è comprensibile quanto accaduto nel processo pendente innanzi alla quarta sezione, nel corso del quale un imputato (A.) aveva tempestivamente richiesto il giudizio abbreviato; nell'occasione il Tribunale, anziché dar corso al rito speciale nei confronti dell'imputato richiedente, come previsto dall'art, 223, D.Lgs. n. 51 del 1998 (modificato dall'art. 56 L. n. 479 del 1999), ha disposto la separazione al contrari del procedimento che lo riguardava da quello dei non richiedenti, così autoattribuendosi la competenza funzionale a proseguire nel giudizio verso questi ultimo.

Dall'accordo, dall'organizzazione, dalla concertazione, dal coordinamento (che presuppongono per definizione vincoli, impegni, promesse), fra magistrati milanesi è derivata dunque una situazione esterna di turbativa che esclude in radice l'indipendenza e l'imparzialità di giudizio.

La vicenda Bramnbilla, che rappresenta plasticamente l'estrema peculiarità del contesto ambientale milanese in cui si stanno svolgendo i processi a carico dell'istante, in cui l'intero apparato giudiziario di Milano ed i suoi vertici hanno agito allo scopo di indebitamente neutralizzare gli effetti del sancito trasferimento di un giudice, membro del collegio che procede al dibattimento nel processo c.d. SME Ariosto, pendente davanti alla prima sezione penale del Tribunale.

Le anomalie delle vicende processuali che hanno caratterizzato lo svolgimento dei vari processi imbastiti a Milano, costellato di incredibili singolarità ed illegittimità, ha dimostrare che il destino processuale dell'imputato istante è stato prestabilito in anticipo.

Il condizionamento degli avvocati; assume l'istante che nei confronti dei suoi difensori, come documenta corposa rassegna stampa sono state adottate pesantissime intimidazioni di tipo punitivo e ritorsivo, anche nel discorso di inaugurazione dell'anno giudiziario del dott. Borrelli, solo perché essi avevano esercitato legittimamente il diritto di difesa, prospettando le dovute eccezioni volte a rimediare tempestivamente ai numerosi vizi di illegittimità accumulatisi nel corso dei processi.

Una simile rappresentazioni dell'esercizio della difesa, condivisa da tutti i magistrati procedenti, ha finito per condizionare l'operato dei difensori stessi, costretti a calibrare ogni intervento per evitare accuse strumentali e costituisce elemento che determina perturbazioni irreversibili degli equilibri processuali ed impedisce la celebrazione dei processi giusti, immuni da influenze e condizionamenti.

situazioni locali; osserva l'istante dei condizionamenti che si sono verificati in Milano, all'esterno del palazzo di giustizia, alcuni episodi che costituiscono, in termini oggettivi, causa di turbativa dei processi in corso; si sono tenute infatti numerose manifestazioni di piazza pro e contro la linea del governo - tra cui "girotondo picchetto" intorno al palazzo di Giustizia mentre si teneva una delle udienze del processo "SME- Ariosto" - e sono state vergate varie scritte sui muri nei confronti sia del pubblico ministero di udienza, sia degli imputati. Espone in particolare che nel giorno di inaugurazione dell'anno giudiziario sono state organizzate manifestazioni di piazza aventi ad oggetto proprio processi in cui egli è imputato, e che alcuni manifestanti hanno anche tentato di fare ingresso nel palazzo di giustizia, al cui interno, peraltro, è stata consentita, appena fuori della sala destinata alla cerimonia, la distribuzione di volantini prestampati contenenti incitazioni alla condanna sua e dell'on. Berlusconi, nonché pesantissimi attacchi ai difensori, a conferma del legame diretto tra gli appelli e gli inviti alla mobilitazione del dr. Borrelli e di altri magistrati milanesi e di fenomeni di "sollevazione" popolare che hanno finito per determinare, sui processi in corso, un condizionamento ambientale ormai non più eliminabile. Pure da ciò derivano, ad avviso dell'istante, considerata anche l'enorme pressione mediatica, pesanti condizionamenti e coartazioni psicologiche sui giudici procedenti ed in generale su tutti coloro che partecipano al processo.

C) A. P.

Rileva l'istante che l'attuale formulazione dell'art. 45 c.p.p., recependo i risultati dell'elaborazione giurisprudenziale sull'art. 55 del codice abrogato, ha elevato ad esplicito presupposto della rimessione la categoria dell'ordine processuale, inteso quale sottospecie dell'ordine pubblico risultante dal complesso delle condizioni predisposte dall'ordinamento al fine di assicurare che tutti i soggetti del processo possano esercitare liberamente, senza condizionamenti, i poteri doveri che ad essi fanno capo e di garantire, così, lo svolgimento non inquinato del processo stesso e la genuinità dei risultati del giudizio.

Con la vigente disciplina, dunque, la tutela si è spostata dal giudice organo al più generale contesto processuale, sulla considerazione che il giudice non è l'unica dramatis persona vulnerabile da pressioni esterne, e si sono allargati i presupposti che legittimano la proposizione della richiesta di remissione in coerenza con i caratteri del nuovo rito, qualificato in senso accusatorio dall'iniziativa delle parti nella formazione della prova e dalla assunzione di questa, di regola, nel dibattimento.

Per tanto, si osserva, pur se il rimedio è riserva ad una eccezionalità di casi, può acquistare valenza per l'accoglimento della relativa istanza un situazione di rilevante turbativa dell'ordinaria dialettica processuale, anche se esterna ad essa, generata da diversi fattori riconducibili tutti, ad un atteggiamento di forte ostilità politica nei confronti degli imputati: ostilità che può emergere quando una campagna di stampa condotta attraverso la pubblicazione di notizie giudiziarie in maniera continuativa, sistematiche e persecutorie nei confronti di determinate persone, sia tale da far presumere che l'ufficio di chi è chiamato a giudicare mostri quasi di essersi schierato contro di esse; ed a fortiori, nel caso in cui la campagna di stampa faccia registrare prese di posizione, manifestate nelle più diverse occasioni, degli stessi componenti dell'ufficio giudiziario, a conferma del forte accanimento anche politico nei confronti di certi soggetti. Nel caso di specie la condizione di costante allarme e tensione, oltre che dalla campagna di stampa, la quale ne costituisce il veicolo, è alimentata da manifestazioni di piazza, da dichiarazioni pronunciate in pubblico ed in occasioni istituzionali da parte di rappresentanti di magistratura e politica, da setting di fronte al palazzo di giustizia di Milano: situazioni tutte estranee alla dialettica processuale, ma strettamente legate al luogo ove si svolge il processo, che creano un clima di forte suggestione

Tale clima, che testimonia e rafforza l'esasperata ostilità e la conseguente mancanza di serenità di giudizio in capo all'organo giudicante compromette senza ombra di dubbio la libertà di tutte le persone coinvolte nel processo, compresi testimoni e difensori che devono essere garantiti, al pari di tutti gli altri soggetti di cui all'art. 45 c.p.p., nella loro libertà di determinazione.

La sintesi di quanto accaduto negli ultimi anni è offerta, ad avviso dell'istante, dal discorso del procuratore generale dr. Borrelli pronunciato per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, interamente teso, a conferma dell'esistenza di una contrapposizione extraistituzionale, a demonizzare l'opera dell'attuale governo la quale, attraverso i ministri della Giustizia e dell'Interno, sarebbe diretta a risolvere i processi contro l'on. B.; discorso che, per la circostanza di essersi collocato in una importante sede istituzionale, non può non suggestionare l'animo degli ascoltatori e dell'intera comunità milanese. Del resto , si osserva, l'intento della procura generale di intervenire sui processi in corso è emerso in maniera chiara durante l'approvazione di importanti leggi (falso in bilancio, rogatorie, rientro dei capitali dall'estero, mandato di cattura europeo); in particolare, si ricorda, il dott. Borrelli, in merito alla legge sulle rogatorie, ha pubblicamente affermato che: il nostro sforzo sarà quello di neutralizzare sul piano interpretativo i guasti che da questa legge possono nascere; ed a questo proposito appaiono inquietanti le decisioni rese in siffatta materie dalla prima e quarta sezione penale del tribunale nei processi dei quibus, dai quali che sembrano coordinare fra loro come sotto la direzione di una regia unica.

Sulla stessa linea del procuratore generale si è collocato, con dichiarazione pubblica riportata dalla stampa anche il Procuratore della Repubblica dott. D'Ambrosio.

La magistratura milanese, prosegue l'istante, insieme a tutto l'ambiente ad essa gravitante, ha agito negli ultimi anni spinta da un intento persecutorio dell'on. B. e dell'on. P.; di conseguenza tutte le persone coinvolte nei procedimenti penali che li riguardano hanno beneficiato di un trattamento che si può definire almeno speciale.

Tra gli eventi del tutto peculiari che lo hanno coinvolto direttamente, l'istante indica: l'utilizzazione nei suoi confronti, a fini cautelari, di una intercettazione ambientale inesistente, di una conversazione tra gli imputati S. e M. asseritamente effettuata presso il bar M. di Roma, in relazione alla quale il GIP dott. Rossato non ha compiuto Alcuna verifica documentale, ritardando indebitamente la risposta alla richiesta di incidente probatorio circa alle modalità della sua esecuzione.

Gli operatori di PG che tale attività di captazione hanno compiuto, rileva altresì l'esponente, si trovano attualmente sottoposti a procedimento penale davanti alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Perugia per falso ideologico, ipotizzato proprio in relazione a quanto avvenuto nel corso delle operazioni investigative; gli organi delegati per indagini sono dunque divenuti a loro volta indagati, con la conseguenza che, alla stregua di quanto affermato dalla Corte di cassazione nel caso Cerciello, in dibattimento si verrà a formare una prova che non potrà non esser condizionata, con riferimento sia ai testi indagati di reato connesso sia allo stesso PM che ha svolto le indagini proprio avvalendosi del loro ausilio investigativo; la ribellione del GIP di Milano, attuata con un'orindnza tardivamente emessa ed elusiva dei principi fissati in sede di legittimità, alla decisione della Corte di cassazione (all. 5,6) con la quale era stato disposto l'annullamento con rinvio della misura cautelare applicata nei suoi confronti; l'ordinanza, caratterizzata da una intollerabile dose di cinismo, con la quale il GIP di Milano ha disatteso la sua richiesta di rimessione in libertà ovvero di attenuazione della cautela per l'esistenza di uno stato depressivo incompatibile con la custodia; la sentenza della Corte di appello di Milano del 12/5/2001, in cui si leggono gravi censure al mondo giudiziario romano al quale egli viene ascritto, a conferma che la situazione ambientale ha contagiato anche il giudice di secondo grado; la insubordinazione del tribunale rispetto alla sentenza con la quale la Corte costituzionale, risolvendo il conflitto di attribuzioni, aveva annullato le plurime ordinanze del GUP che negavano la sussistenza di un legittimo impedimento a partecipare all'udienza preliminare dell'imputato on. P, impegnato in Parlamento; il tribunale, infatti, ai sensi dell'art. 185 c.p.p., avrebbe dovuto dichiarare la nullità di tutti gli atti conseguenti alle ordinanze predette e disporre la trasmissione del fascicolo al giudice dell'udienza preliminare: ciò non è tuttavia avvenuto, con elusione dell'osservanza del dictum della sentenza costituzionale di annullamento; l'irritualità della composizione del collegio, del quale non poteva fare più parte, eseguito della decisione 31/12/2001 del Ministero della Giustizia, il giudice dr. Brambilla, trasferito ad altro ufficio (sorveglianza), la cui titolarità è incompatibile, ai sensi dell'art. 68 L. 354/75, con lo svolgimento di altre funzioni giudiziarie; il comportamento del predetto magistrato, teso pervicacemente ad esercitare le funzioni presso il tribunale ordinari, a fronte di una situazione da lui obiettivamente creata con la richiesta di trasferimento; la sua mancata astensione; .l'immediata dichiarazione di inammissibilità della ricusazione proposta nei suoi confronti; l'illegittima sua applicazione al tribunale per la prosecuzione del processo, disposta dal presidente della Corte di appello, riprova dell'atteggiamento ambientale della magistratura milanese che ha reagito ad un legittimo atto del Ministero; la circostanza che il giorno 17 febbraio 2002 sia stata chiamata a raccolta una moltitudine di persone a fare quadrato intorno al palazzo della Corte suprema, e, dalla voce di personaggi che nulla hanno a vedere con il mondo giudiziario, si sentissero pronunciare attacchi antigovernativi e di incitamento a motivi rivoluzionari contro eventuali riforme che possano risolversi nell'introduzione di garanzie a favore degli imputati, secondo un copione già visto a Milano, ove si corre il rischio che tali manifestazioni diventino epidemiche.

È ormai storia, conclude l'istante, che le indagini e i conseguenti processi si svolgono con criteri mirati che hanno per obiettivo la destabilizzazione del Presidente del Consiglio in carica e, quindi, di coloro che si trovano nell'area del suo potere.

Ne è ulteriore riprova un episodio verificatosi nella primavera del 201: nel corso di attività svoltasi in Svizzera i difensori dell'istante avevano eccepito la violazione del principio di specialità; alla successiva udienza in Italia il PM sollecitava il tribunale a verificare se l'avv. Patenè, italiano, non avesse commesse per questo attività antinazionale all'estero, a conferma di un atteggiamento ostile dell'accusa che anche in altre occasioni ha portato il rappresentante del PM a richiedere la trasmissione degli atti al proprio ufficio per valutare ipotesi di reato a carico dei difensori che esercitavano il loro ministero.

Tutto il processo, dunque, è condizionato da una situazione ambientale non altrimenti eliminabile che impedisce la celebrazione di un sereno e giusto processo, menomando la libertà di determinazione delle persone che vi partecipano.

D) F.V.

L'istante, premesso di non avere alcuna intenzione di schierarsi nell'ambito di uno scontro processuale, politico ed istituzionale fin troppo noto, rileva tuttavia che proprio le caratteristiche di tale scontro hanno determinato in lui la convinzione che il contesto nel quale si stanno celebrando i processi di cui chiede il trasferimento non può garantire il loro svolgimento sereno nella sede giudiziaria di Milano, a causa del condizionamento ambientale al quale sono sottoposti i giudici, parti, difensori, testimoni e che impedisce di celebrare i dibattimenti secondo i canoni di una fisiologica dialettica.

Non interessa, si osserva, rilevare chi fra i contendenti abbia torto o ragione: resta il fatto che la situazione denunciata, ormai irreversibile d ineliminabile, sta determinando uno svolgimento anomalo del processo, nel quale l'applicazione il richiamo delle norme di procedura, da pare di ciascuno dei partecipanti, è puramente strumentale a tenere il punto più che ad applicare in modo sereno il codice e le leggi.

Si svolgono pertanto, ad evidenziare circostanze tali da turbare lo svolgimento del processo e limitare la libertà di determinazione di coloro che vi partecipano, le seguenti considerazioni: è fatto notorio che la magistratura milanese è considerata e si autoconsidera, nella sua integralità, un unicum; essa, a partire dall'ultimo decennio, ha patrocinato e difeso, non solo in sede strettamente processuale, ma pre (travalicando le proprie funzioni istituzionali) in sede politica e di opinione pubblica, le inchieste giudiziarie note come Mani Pulite, che hanno assunto, anche per le prese di posizione pubbliche dei magistrati milanesi (all. 1, 2), il carattere di emblema della lotta alla corruzione, smarrendo il ruolo laico del processo per rivestire valenza etica e contrapponendosi, per questo, all'attività svolta da altre autorità giudiziarie, ed in particolare quella di Roma (il c.d. porto delle nebbie); inchieste, tra l'altro, connotate, secondo l'opinione di una consistente parte di commentatori, studiosi e giornalisti, pur di diverso orientamento politico (All. 3, 4, 5), da una serie di singolarità processuali (uso improprio ed esasperato della custodia cautelare, forzatura dell'interpretazione delle norme sulla competenza territoriale, adozione di prassi organizzative inconsuete, un unico GIP si occupava di tutte le indagini, uso sistematico della delazione etc) e da un pericoloso sostanzialismo.

È noto altresì che in tale contesto alcune forze politiche e culturali si sono contrapposte alle metodiche ed all'agire dei magistrati di Milano.

In questa situazione è nato uno scontro, che perdura fino ad oggi e che si è sviluppato non solo nelle aule giudiziarie, ma anche attraverso i mezzi di informazione, in sedi istituzionali, nelle piazze, fra due schieramenti: l'uno rappresentato dalla magistratura milanese (la procura della Repubblica, con il consenso di fatto della magistratura giudicante), l'altro da alcune forze politiche, in particolare dal partito di Forza Italia cui appartengono gli imputati B. e P..

In tale situazione si è inserito nel 1995, il procedimento penale denominato dai media Ariosto o toghe sporche, in cui l'autorità giudiziaria milanese ipotizzò reati a carico di magistrati romani in concorso con esponenti di quella forza politica che da anni guidava lo schieramento con cui essa quotidianamente si scontrava nelle aule dei tribunali, sui giornali, nelle piazze, in Parlamento, davanti al CSM.

È evidente dunque, ad avviso dell'istante, che il processo di cui si chiede la remissione si inserisce in un evolversi storico degli avvenimenti che inevitabilmente, al di la delle singole volontà, rischia di rappresentare un redde rationem processuale di uno scontro giudiziario, politico, culturale, istituzionale che va avanti da un decennio; gli attacchi cui la magistratura milanese, requirente e giudicante, è sottoposta, nonché le risposte ed i contro attacchi di quest'ultima a mezzo dei suoi giudici, parti, difensori, testimoni e, soprattutto, su quegli imputati del tutto estranei agli scontri, che vorrebbero la celebrazione di una dibattimento sereno.

La situazione di muro contro muro, già pesantemente compromessa, si è irreversibilmente deteriorata tanto da coinvolgere tutta la sede giudiziaria di Milano a seguito della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario, nella quale il procuratore generale, già titolare dell'inchiesta Toghe Sporche, si è rivolto ai magistrati presenti, moti dei quali appartenenti ai ruoli giudicanti, ottenendo ovazioni ed applausi, invitando alla resistenza ed attaccando, con riferimento ai processi in esame, i difensori, gli imputati e le forze politiche di riferimento di questi ultimi.

Il veemente attacco contro i difensori, in particolare, accompagnato, fra il consenso generale della base della magistratura milanese, dall'auspicio della punizione per oltraggio del difensore che muova, facendo il suo dovere, eccezioni procedurali, costituisce un segnale inquietante di condizionamento del processo e di pregiudizio per la libertà di determinazione delle persone che vi partecipano.

Tale abnorme situazione ambientale, riscontrabile anche nei continui scontri in aula fra accusa, difesa e giudici, nell'ultimo periodo è stata amplificata a livello locale la mobilitazione, spontanea o guidata non interessa, dalla pubblica opinione milanese e dalle conseguenti varie manifestazioni di piazza, tenutesi anche intorno al palazzo di giustizia, apprezzate pubblicamente dal procuratore della Repubblica di Milano.

Tutto ciò, ad avviso dell'istante, crea quella situazione obiettiva tale da sconvolgere l'ordine processuale e da creare condizionamento psicologico sull'intero ufficio giudiziario che, unita all'atteggiamento del PM, estraneo ai limiti dell'ordinaria dialettica processuale, integra i presupposti per la remissione richiesti dall'art. 45 c.p.p. come individuati dalla giurisprudenza di legittimità nelle decisioni (sez. I) del 10/3/1997, Cirino Pomicino e del 13 ottobre 1997, Manganaro.

E) osservazioni della Procura della Repubblica di Milano e la replica della difesa di S.B.

A confutazione degli argomenti esposti nelle predette richieste di rimessione ha presentato osservazioni (con vari allegati, numerati progressivamente) il procuratore della Repubblica di Milano il quale, premesso che l'imputato P. si è avvalso del legittimo impedimento derivante dallo svolgimento di attività parlamentare, di talché i due collegi interessati ai dibattimenti de quibus hanno tenuto udienza (alternativamente) solo nei giorni di lunedì e venerdì (e talora di sabato), precisa che, a causa di ulteriori impedimenti di vario genere (scioperi dei difensori, malattie, concessioni del termine a difesa), sono state annullate o rinviate numerosissime udienze già fissate in calendario e che davanti alla prima ed alla quarta sezione penale per la risoluzione delle questioni preliminari sono stati impiegati rispettivamente undici ed otto mesi.

In particolare, quanto all'apertura dell'anno giudiziario 2002, il procuratore della Repubblica di Milano sottolinea l'uso distorto del contenuto della relazione del procuratore generale, i cui temi sono stati comuni a quelli trattati nei discorsi inaugurali svolti presso gli altri distretti, nei quali i procuratori generali tutti hanno manifestato profondo malessere per la situazione in cui versa la magistratura italiana, nonché forti preoccupazioni per il contenuto di leggi in tema di giustizia approvate di recente; osserva, altresì, come in ogni caso detta relazione non abbia potuto in alcun modo condizionare le decisioni di cui gli imputati si lamentano, perché tutte ad essa cronologicamente precedenti.

Rileva, altresì, che alle riunioni tenute dai magistrati del pubblico ministero tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre del 200, del cui esito è stato ufficialmente portato a conoscenza il CSM, non ha partecipato alcun magistrato della giudicante, così come è avvenuto per l'incontro, in data 2 ottobre, con il dr. G. Caselli, unico membro italiano di Pro Eurojust, avente ad oggetto il tema delle indagini transnazionali; che l'incontro in data 29 ottobre, avente ad oggetto la legge n. 367/2001 in tema di rogatorie, è stato organizzato dall'ufficio dei referenti per la formazione decentrata; che le altre iniziative alle quali si riferiscono gli imputati sono state indette dall'Associazione nazionale magistrati e sono consistite in un'assemblea pubblica. Alla quale ha partecipato il presidente Gennaro, ed in un'astensione simbolica dal lavoro per quindici minuti svoltasi contemporaneamente in tutta Italia al fine di leggere un documento associativo.

Circa i condizionamenti ambientali, osserva la Procura che, contrariamente all'assunto dell'imputato B., nessuna rissa o tafferuglio si è sviluppato in connessione con le vicende processuali che, quanto alla manifestazione svoltasi nel pomeriggio del sabato 26/1/2002 intorno al palazzo di giustizia di Milano, quando l'udienza era da tempo terminata, si trattava di un girotondo del tutto analogo ad altri organizzati intorno ad altri palazzi, compreso quello della Corte suprema, con la partecipazione di personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura, nonché di intere famiglie; che dello stesso tenore è stata la manifestazione al Palavobis, svoltasi ancora di sabato ed in luogo assai distante da quello in cui si tengono le udienze.

In relazione all'atteggiamento del pubblico ministero, che si assume teso ad intimidire le difese, il procuratore di Milano allega i verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato P. e dall'avv. Ghedini nel dibattimento, di cui ha chiesto la trasmissione al proprio ufficio dell'udienza del 3/1/2002.

Circa le dichiarazioni alla stampa da pare di magistrati degli uffici requirenti di Milano, osserva la Procura come sia da escludere che esse abbiano avuto la capacità di condizionare il collegio o le parti del processo, anche alla luce dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in argomento; e ciò a prescindere dal contenuto delle stese, spesso dirette a ristabilire verità violata, a rispondere ad attacchi all'indipendenza ed onorabilità dei magistrati, a sottolineare inconvenienti e contraddizioni derivanti dall'introduzione di nuove leggi.

In ordine all'ipotizzato condizionamento dei giudici, che si assume reso palese dall'adozione di una seie di atti abnormi o illegittimi, comunque in odio agli imputati, si osserva innanzi tutto che il contenuto dei provvedimenti del giudice non costituisce causa di remissione, la quale non può utilizzarsi come alternativa immediata e dirimente rispetto alle impugnazioni ordinarie.

In merito si precisa altresì: quanto alla lamentata disapplicazione del dictum della Corte costituzionale, che nella motivazione della sentenza n. 225 del 2001 si legge espressamente come la valutazione degli effetti della decisone sulla posizione degli imputati, ed in particolare dell'imputato P., sia di competenza esclusiva del giudice del processo penale; e che nessun abnorme ritardo si è verificato in relazione alla pronuncia dei collegi giudicanti sulle relative eccezioni, attesa la sopravvenienza del periodo feriale e l'accoglimento di plurime richieste di rinvio proposte dal medesimo P.; circa la ritenuta utilizzabilità dei documenti acquisiti tramite rogatoria, che decisioni analoghe a quelle dei collegi giudicanti della prima e quarta sezione sono state assunte da altre sezioni del medesimo tribunale, che, a prescindere dall'incomprensibilità di come possa essere pregiudicata da condizioni locali la sede di Milano per un'intercettazione effettuata a Roma, i cui autori sono sottoposti ad indagine in Perugia, in base alla richiesta di misura cautelare ed all relativa ordinanza del giudice per le indagini preliminari la captazione de qua risulta essere stata regolarmente autorizzata; circa la pretesa mancanza di atti dal fascicolo del PM, che dai verbali di udienza, risulta inequivocabilmente la completezza del fascicolo stesso; circa lo squilibrio nel giudizio volto a favorire le richieste istruttorie della procura, che le liste tasti predisposte dalle difese degli imputati indicavano un numero di persone spropositato a sicuramente sovrabbondante (tutti i magistrati e tutto il personale amministrativo in servizio nel distretto di Roma negli anni '80); e che pertanto anche varie richieste del PM sono state disattese; circa l'impossibilità per i difensori di prendere visione dei documenti prodotti dal PM, che il Tribunale, per mancanza di spazi, aveva inviato il PM a trattenere presso l'ufficio i relativi faldoni, e che venne comunque depositato un dettagliato elenco delle allegazioni; che la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato P. avverso il rigetto , assunto irrituale, di una sua istanza di rinvio, e che, quanto all composizione del collegio, denunciata come illegittima, il provvedimento con il quale il presidente della Corte di appello vi ha applicato il giudice dr. Brambilla non risulta essere stato disatteso ne dal Consiglio giudiziario, ne dal CSM.

Alla Procura della pubblica di Milano replica con memoria la difesa dell'imputato B.

In essa si rileva, innanzi tutto, l'irritualità, a conferma della peculiarità di atteggiamento di quell'ufficio, delle osservazioni proposte dal PM presso il giudice a quo, di cui si denuncia la carenza di legittimazione ad interloquire nel giudizio sulla richiesta di rimessione, dovendosi tale legittimazione riconoscersi esclusivamente al procuratore generale presso la Corte di cassazione; si deduce, altresì, come il discorso del dr. Borrelli all'inaugurazione dell'anno giudiziario, il cui livello di riprovazione e di critica appare ben diverso da quello delle relazioni tenute dagli altri procuratori generali, non solo abbia autonoma valenza per la gravità degli assunti, ma acquisti altresì rilevò ai fini della rimessione nel generale contesto, saldandosi alle dichiarazioni ed agli atteggiamenti verificatisi all'interno ed all'esterno del processo.

Ribadisce, altresì', quanto già illustrato nella richiesta, precisando, in particolare, che ne le dichiarazioni dell'imputato P. ( il quale si era limitato, a fronte del rigetto di una sua istanza, ad esercitare un suo diritto, revocando i propri difensori e motivando tale decisione con argomentazioni giuridiche e di valenza politica, incentrate su una serrata critica dell'operato del tribunale), ne quelle dell'avv. Ghedini (che, a fronte di un'irrituale nomina di un difensore di ufficio e di negazione del termine a difesa aveva fatto presente che avrebbe investito il Parlamento per l'oggettiva gravità ed eccezionalità dell'accadimento), delle quali il PM ha chiesto l'invio dei verbali al proprio ufficio, possono in alcun modo essere considerate minacciose ed aggressive.

F) P.B.R. e F. R.

I richiedenti, premesso di aver avuto formale notizia delle istanze di rimessione presentate dal coimputato on. P. ed, in altro processo parallelo, dall'on. S.B., osservano che tali iniziative, intraprese da due parlamentari della Repubblica, cadono dopo anni di contrasti (giudiziari e non), anche in strettissima connessione temporale rispetto a svariati eventi endo ed extra processuali verificatisi nel foro e nell'ambiente milanese; eventi che hanno reso certi gli esponenti, che pure nulla hanno fatto per aggravare il disagio ambientale, pagando essi lo scotto della solidarietà passiva con i suddetti personaggi politici, di trovarsi in una anomalia processuale cui non può porsi rimedio se non con la designazione da parte della Corte del foro commissorio ai sensi degli artt. 45 e 11 c.p.p.

Rilevando come lo stato di tensione che si è sviluppato intorno ai casi Imi- Sir, Sme e Lodo Mondadori abbia ormai oggettivamente radicalizzato i contrasti fino a culminare in mobilitazioni popolari, per di più non spontanee, chiaramente intese ad influire sui giudizi; a ciò si aggiunga che qualora si sviluppi in conflitto in cui una parte processuale venga dipinta come nemica dei giudici, si determina una naturale solidarietà di gruppo, fenomeno che trova parlato il proprio riconoscimento normativo negli artt. 11 c.p.p. e 30- bis c.p.c., che si ripercuote sulla serenità del giudizio.

Tanto più ciò accade quanto più rappresentativi siano i soggetti implicati nel conflitto e quanto più siano amplificate le loro esternazioni, come nel caso dell'invito a resistere formulato dal procuratore generale dr. Borrelli, al quale solo la prossima cessazione dalle funzioni per raggiunti limiti di età ha evitato il procedimento disciplinare.

Gli elementi indiziari della sussistenza di una situazione ambientale alterata ed abnorme si rinvengono, ad avviso degli istanti, anche in una seri di accadimenti interni al processo: l'applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di F.R., in assenza, come accertato dalla Corte di cassazione, di esigenze cautelati; l'eclatante e peculiare attrazione alla competenza territoriale del tribunale di Milano delle vicende Imi- Sir , Sme e Lodo Mondadori, in cui si discute di corruzione di magistrati romani, avvenuta in processi avanti l'autorità giudiziaria romana, intermediata da personaggi romani (P.,A., P.,); fenomeno attrattivo peraltro non isolato, come dimostra altra vicenda concernente un diverso procedimento nei confronti dell'avv. A.;

la circostanza che la competenza del GUP dr. Rossato (che viceversa sarebbe divenuto incompatibile ai sensi del D.Lgs. n. 51 del 1998, introduttivo del c.d. giudice unico) sia stata prorogata fino al 2/1/2000 in virtù di una legge approvata ad hoc; osservano gli istanti che la scadenza perentoria, nonostante la proroga, ha tuttavia comportato ritmi speciali dell'udienza preliminare, tanto che il giudice ha paradossalmente posticipato all'esito di questa l'espletamento di incidenti probatori già ammessi, al chiaro scopo di pervenire al rinvio a giudizio degli imputati entro la fine del 1999, come reclamavano PM e taluni ambienti politici; la circostanza che, nel capo di imputazione contestato a madre e figlio . nel processo Imi- Sir, sia mancato e manchi qualsiasi riferimento ad un episodio che ha costituito l'asse portante di tutta l'indagine da parte della Procura, nonché l'elemento base della misura cautelare emessa nei loro confronti, e cioè la sottrazione della procura speciale ad litem rilasciata dall ' Imi ai suoi difensori; affermano gli esponenti che dell'indagine concernente tale fatto reato, confluita pare in un procedimento contro ignoti, gli istanti hanno inutilmente chiesto in più occasioni l'avocazione al procuratore generale, il quale ha repentinamente respinto le relative istanze; detto episodio di sottrazione è stato tuttavia portato all'esame del tribunale, sia perché il reato di falso per soppressione avrebbe determinato la competenza dell ' AG di Roma o di Perugia, sia perché il pubblico ministero ha utilizzato nell'esame di alcuni testimoni vari documenti, in particolare l'originale della procura speciale misteriosamente riapparso mutilato del lembo dove avrebbe dovuto essere stato apposto il timbro attestante il deposito, provenienti dal fascicolo asseritamente pendente contro ignoti; ebbene, si conclude, in tutta questa vicenda anomala il dr. Borrelli è stato prima protagonista, avendo, in qualità di procuratore della Repubblica, acquisito la notizia di reato, svolto le indagini ed esercitato l'azione penale omettendo qualsiasi riferimento all'episodio della presunta sottrazione del citato documento; e quindi controllare, quale procuratore generale, del corretto esercizio dell'azione penale: tale identità soggettiva non garantisce, secondo quanto affermato dalla Corte suprema attraverso l'acquisizione di elementi che non siano distorti da viziate opzioni delle parti, come dimostra concretamente l'operato della Procura generale i ordine alle reiterate istanze di avocazione presentate dagli eredi R., fulmineamente rigettate sulla base di pseudo- argomentazioni; il clima di contrapposizione fra foro milanese e foro romano, documentato in pubblicazioni di autorevoli ex magistrati, articoli di stampa, provvedimenti giudiziari e del CSM; l'anomalo svolgimento di una rogatoria in Bellizona nei giorni 19/4 e 15/5/2001; le polemiche e le prese di posizione ufficiali ed ufficiose della magistratura milanese contro la legge sulle rogatorie, indicata come strumento per limitare l'accertamento della verità in alcuni casi (milanesi), tra cui quello Imi- Sir; la scomposta reazione del presidente del Tribunale ad una richiesta dell'avv. Bovio, accusato per questo di farsi beffe del giudice, in merito alla fissazione del calendario delle udienze; la situazione paradossale, soprattutto per i suoi risvolti sintomatici di un diffuso atteggiamento di conflitto e polemica, venutasi a creare con la nomina a difensore di ufficio dell'imputato P. di una professionista, l'avv. G. Crespi la quale, avendo in passato tutelato gli imputati R., dalla posizione processuale ben diversa, ha dichiarato di non poter assumere il patrocinio, così provocando la reazione del PM che ha richiesto l'invio degli atti al proprio ufficio, con ulteriore compromissione della libertà delle parti; l'anomala riunione, disposta sostanzialmente d'ufficio per ragioni poi rivelatesi insussistenti, dei processi Imi- Sir e Lodo Mondadori; la circostanza che la prima e la quarta sezione del tribunale di Milano, nei processi di cui è richiesta la rimessione, abbiano considerato la sentenza della Corte costituzionale risolutrice del conflitto fra GUP e Camera dei deputati come una sorta di esercitazione giuridica de futuro senza nessun effetto sui giudizi in corso; l'articolo del dr. Colombo, PM di udienza nei processi de quibus, pubblicato nel Corriere della sera (giornale milanese) del 5/2/2002, contenente un proclama storico e politico della guerra alla corruzione, la cui ultima battaglia sarebbe costituita proprio da casi di toghe sporche; l'analoga presa di posizione pubblica del procuratore della Repubblica di Milano dr. D'Ambrosio; gli articoli dei dottori Borrelli, Colombo e Davigo pubblicati dalla rivista Micromega (All. 40, 41), il cui direttore è l'organizzatore della manifestazione svoltasi al Palavobis, nel corso della quale è stato tacciato di essere sodale di P. il prof. A.B., indicato come teste a discarico nel presente processo dagli stessi istanti.

G) R. S.

Premesse alcune considerazioni in ordine all'istituto della rimessione e precisato che l'art. 45 del codice di rito vigente prevede la translatio iudicii in termini di necessità, e non di mera opportunità, una vota che sia stata verificata l'esistenza di gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, rileva l'istante come ciò che è accaduto e sta accadendo prima e durante la celebrazione del dibattimento de quo non consente di pronosticare un giudizio privo di condizionamenti, ma, al contrario, indica uivocamente il perseguimento di un risultato ineludibile.

Osserva l'istante che le radici ditale situazione risalgono al momento i cui cominciava l'operazione giudiziaria denominata Mini Pulite, legittimata a furor di popoli e volta a coprire il vuoto politico che in quel periodo storico si era creato.

La dichiarata intenzione dell'on. B. di impegnarsi politicamente, in un conteso di palese squilibrio dei poteri dello Stato che vedeva la netta predominanza della magistratura sugli organi parlamentari, ha quindi provocato una reazione finalizzata a suscitare il consenso popolare di cui via via alimentarsi: dal potere politico, monitorando quello esistente, ammonendo chi aspirava a farne parte, esprimendosi costantemente con vocabolario bellico fino a qualificarsi in veste istituzionale, nell'occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2002, come l'ultimo baluardo della resistenza al nemico, individuato nell'on. B.

Rileva l'esponente di non essere un uomo politico, ma un giudice del tribunale di Roma individuato quale emblema di quel porto delle nebbie ove far scomparire non meglio precisati carichi giudiziari dell'attuale presidente del Consiglio.

L'efficacia di tale pregiudicante condizionamento si è rivelata fin da subito verso l'istante, nei cui confronti è stata utilizzata ai fini cautelari una presunta intercettazione ambientale (rivelatasi un semplice ascolto annotato su fogli volanti) eseguita presso il bar. M. di Roma, i cui autori, ufficiali di PG, sono attualmente all'atto delegato, con ulteriori effetti negativi sulla libertà d determinazione dei testi indagati e dello stesso pubblico ministero.

L'accanimento contro il c.d. porto delle nebbie, complice, secondo la magistratura milanese, per contesto ambientale e specificità culturale, degli inconfessabili interessi degli on.li B. e P., è confermato inoltre dalla sentenza 12/5/2002 della Corte di appello di Milano, contenete pesanti critiche al mondo giudiziario romano, che è stata censurata anche dall'organo di autogoverno della magistratura.

L'esponente indica altresì, a riprova dell'insostenibile situazione ambientale: il rigetto della sua richiesta istruttoria di esaminare come testimoni tutti i magistrati e funzionari del distretto di Roma, che avrebbero dovuto deporre sulla sua estraneità ad ogni intervento in favore dei coimputati; il rigetto della richiesta di perizia sulla presunta intercettazione ambientale presso il bar M.; le ordinanze che hanno disatteso la sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2002, risolutrice del conflitto di attribuzioni fra GUP di Milano e Camera dei deputati sull'impedimento per impegni parlamentari dell'on P: la circostanza che la competenza del giudice per l'udienza preliminare dr. Rossato, che doveva cesare per incompatibilità il 2 giugno 1999 con l'entrata in vigore della normativa sul c.d. giudice unico, sia stata prorogata con una legge ad hoc; la disapplicazione della recente legge sulle rogatorie internazionali, preannunciata da un'intensa campagna di stampa ispirata dai proclami della Procura della Repubblica e del procuratore generale, che ne aveva invocato la neutralizzazione; le manifestazioni di piazza, le scritte sui muri, le interviste e le dichiarazioni dei magistrati requirenti, che sono chiaro indice della personalizzazione estrema di cui è ormai irrimediabilmente intriso il processo e che ne impone il trasferimento.

H) O.S. e .R, M. e F. S.

Osservano gli istanti che si dalle indagini preliminari, con l'arresto del dr. S. ed il coinvolgimento nella vicenda di personalità di altissimo rilievo della vita politica nazionale, il procedimento che attualmente si trova nella fase del giudizio ha assunto un enorme rilievo nel circuito mediatico, tanto che l'acronimo processo toghe sporche o Sme- Ariosto è ormai stabilmente entrato nel lessico politico giornalistico.

La vicenda giudiziari si è caratterizzata, altresì, per la contrapposizione fra ufficio giudiziario e che inquisiva, la Procura della Repubblica di Milano, e gli altri (romani), ai quali appartenevano moti degli indagati; contrapposizione che, al di la della fisiologica antitesi fra inquisitore ed inquisito, si è caricata immediatamente di valenze ulteriori, determinando l'impressione di una contesa basata su un diverso modo di intendere la giustizia, che vedeva nel radicamento territoriale dei protagonisti un lamento di assoluto rilievo: i magistrati milanesi da un lato, il porto delle nebbie ed i palazzi del potere di Roma sul fronte opposto.

Attorno a questo nodo si è quindi sviluppato, ad avviso degli istanti, il ruolo metagiudiziario del c.d. pool, cioè di un gruppo di magistrati di quella Procura che in più occasioni hanno espresso la propria opinione sulle scelte di politica giudiziaria, scendendo i dura polemica con alcune forze politiche tanto da arrivare a minacciare pubblicamente l'abbandono dell'ufficio i occasione dell'approvazione, anno 1994, del decreto Biondi.

Dal canto loro, taluni degli imputati, che rivestono cariche politiche, hanno spesso denunciato la politicizzazione, la prevenzione e l'accanimento a parte degli appartenenti alla magistratura milanese, sottolineando proprio la coesione e l'interdipendenza tra i diversi uffici giudiziari di quella città e la mancanza di autonomia da parte degli organi giudicanti rispetto alla procura della Repubblica.

Il procedimento in oggetto, peraltro, fin dalle indagini preliminari, ha registrato un serrato conflitto tra l'ufficio del PM e dal difesa di molti imputati, sfociato in un clima di costante tensione particolarmente durante l'udienza preliminare ed il dibattimento.

Detta situazione ambientale, già tale da far dubitare della sussistenza delle condizioni di estraneità e libertà di determinazione delle persone che partecipano al giudizio, si è aggravata nel corso degli ultimi mesi fino ad apparire definitivamente pregiudicata a seguito dell'intervento del dr. Borrelli i occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, delle varie manifestazioni popolari tenutesi a Milano, delle polemiche che hanno accompagnato l'approvazione della legge sulle rogatorie.

In particolare, si osserva, gli istanti sono stato oggetto di provvedimenti giudiziari le cui motivazioni, nel loro ingiustificato rigore, appaiono animate da un insolito accanimento.

Si ricordano, altresì, come elementi indiziati della grave compromissione ambientale: l'intercettazione effettuata a carico dell'esponente . S presso il bar M. di Roma, le cui anomalie hanno condotto gli ufficiali di PG operanti ad essere sottoposti ad indagini presso l'AG di Perugia.

La campagna di stampa sulla lentezza del processo, addebitata interamente alle presunte manovre dilatorie della difesa, quando, al contrario, i giudici del dibattimento, pesantemente condizionati dal PM,. Hanno tenuto un atteggiamento irrispettoso dei diritti fondamentali degli imputati.

Le polemiche , alimentate dal discorso inaugurale del procuratore generale dr. Borrelli, concernenti la riduzione del servizio di protezione ad alcuni magistrati, compresa la dottoressa Boccassini, PM di udienza.

La vicenda legata al trasferimento di uno dei membri del collegio giudicante (il dr. Brambilla), oggetto di violenza polemica cui davano sputo i rappresentanti di alcuni uffici giudiziari milanesi, i quali accusavano il ministero di giustizia di aver, attraverso il provvedimento, attuato un vero e proprio tentativo di sabotaggio del processo; la contrapposizione morale fra uffici milanesi e romani, resa esplicita in una sentenza della Corte di appello di Milano in cui si parla di preesistente e pericolosa corruttibilità dell'ambiente giudiziario romano; la relazione del procuratore generale dr. Borrelli svolta in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, caratterizzata da continui riferimenti al processo de quo; le manifestazioni popolari degli ultimi mesi.

I) G. A.

G. A., giudicato con rito abbreviato, con sentenza del 20 luglio 2001, del tribunale di Milano per i reati a lui ascritti nel processo Imi- Sir, avverso la quale ha proposto appello, chiede la rimessione sia del processo pendente in grado di appello, sia del processo c.d. Lodo Mondadori.

A sostegno della richiesta l'istante indica una serie di vicende processuali che, ad iniziare dall'anomala pervicacia nel mantenere una competenza territoriale mai appartenuta all'autorità giudiziaria milanese, fin dalla fase delle indagini ed attraverso le udienze preliminari si sono fino ad oggi manifestate in costante danno di ogni istanza difensiva e con compressione del diritto di difesa, sicchè può affermarsi che la sua libertà di determinazione sia stata effettivamente turbata da gravi situazioni locali, atteso che la sua posizione di professionista particolarmente caratterizzato da forti e rilevanti rapporti di professionali con il gruppo FININVEST facente capo all'on B. e con l'on. P. non può essere considerata impermeabile alle distonie che questi ultimi coinvolgono.

Elenca a tal fine: la costante violazione delle regole sulla competenza per territorio, mantenuta in Milano con veri e propri equilibrismi giuridici, singolari oscillazioni nella contestazione dei reati, forzature interpretative; l'adozione di provvedimenti giurisdizionali caratterizzati da improprie valutazioni negative globalizzanti sull'amministrazione ella giustizia romana, al cui interno esisterebbe un illecito sistema giudiziale alternativo; l'irrituale composizione degli organi giudicanti, inutilmente denunciata con dichiarazione di ricusazione; le anomalie delle procedure rogatoriali Spagna, Svizzera, Italia, Francia; le anomalie nella riunione e separazione dei procedimenti; la costante trattazione dei processi da parte dei medesimi magistrati; il ricorso alla custodia cautelare e le fori pressioni investigative nei confronti degli imputati R. e B.R.; l'anomalo svolgimento dell'udienza Imi- Sir; l'atteggiamento di chiusura del tribunale verso le istanze difensive, che ha portato al rigetto della richiesta di ammissione di prove a discarico formulata dopo la non prevista riunione dei processi Imi- Sir e Lodo Mondadori.

Rilevato che la stessa memoria presentata dal procuratore della Repubblica di Milano a confutazione delle richieste di rimessione proposte dagli altri imputati finisce per attribuire rilevanza alle patologie processuali e confermare l'esistenza di un contesto ambientale fortemente caratterizzato, i cui condizionamenti hanno effetti permanenti e si concretizzano in provvedimenti anomali, l'istante ribadisce come la struttura concorsuale delle imputazioni di cui deve rispondere nei processi Imi- Sir e Lodo Mondadori è tale da escludere nei suoi riguardi una valutazione avulsa dalla posizione degli altri imputati, sicchè l'eventuale translatio Judicii non potrebbe che operare su tutti i procedimenti relativi alle predette vicende, e dunque anche su quello, stralciato e definito i primo grado, nel quale egli assume la veste di singolo imputato.

Le sezioni unite, nell'udienza del 29 maggio 2002, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 45 c.p.p., in riferimento all'art. 2 n. 17 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81, nella parte in cui non prevede, tra le cause di rimessione del processo, il legittimo sospetto.

Con legge 7 novembre 2002 n. 248 sono stati modificati gli artt. 45, 47, 48 e 49 c.p.p., con la previsione del legittimo sospetto come ulteriore causa di rimessione del processo .

La Corte Costituzionale, con ordinanza del 19 novembre 2002, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni unite.

All'udienza del 28 gennaio 2003, fissata per la decisione, il procuratore generale e le parti, le quali hanno prodotto memorie in cui hanno insistito per l'accoglimento elle richieste illustrandole ulteriormente, hanno concluso come da verbale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Le richieste di rimessione sono infondate.

È priva di fondamento l'eccezione, il cui esame è preliminare, sollevata, in udienza, da uno dei difensori di B.

Secondo questo difensore, le sezioni unite, prima di accertare se sussista una grave situazione locale tale da pregiudicare la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo o tale da determinare motivi di legittimo sospetto, se vi siano, quindi, o non vi siano le condizioni richieste dalla legge per la rimessione dei processi, dovrebbero porsi il quesito se sia del tribunale di Milano la competenza a conoscere dei reati contestati agli imputati, cosa che quel difensore nega.

Ha senso chiedersi se ricorrano le condizioni per la rimessione, è questo il significato della eccezione, solo se risulti correttamente determinata la competenza per territorio del tribunale di Milano.

Ove se ne constatassero le condizione dell'art. 11 c.p.p., se, poi, accolta, in sede di impugnazione, l'eccezione di incompetenza per territorio, già ripetutamente proposta, i processi dovessero essere trasferiti al giudice ritenuto territorialmente competente.

L'eccezione non ha pregio.

Le sezioni unite, in questa sede, sono investite unicamente del problema, incidentale, della rimessione dei processi sul presupposto della non imparzialità del giudice dinanzi al quale oggi i processi vengono celebrati, giudice la cui competenza per territorio, allo stato, non può ritenersi illegittimamente determinata e la cui eventuale incompetenza può essere fatta valere con i mezzi propri del codice di rito, il quale, come è noto, nell'art. 21 prevede la possibilità di eccepirla, nell'art. 24 di propria in sede di appello, e, nell'art. 568, di denunciare la illegittimità della sentenza, sul punto, con il ricorso per cassazione.

D'atro canto, gli stessi richiedenti mostrano di essere consapevoli che la Corte di cassazione, nel momento in cui prende in esame la richiesta di rimessione, non può interessarsi del problema della competenza per territorio come tale.

I richiedenti, infatti, hanno trattato, molto diffusamente, la questione, non come questione sulla competenza da risolvere in questa sede, ma unicamente come uno dei provvedimenti endoprocessuali dai quali dovrebbe la non imparzialità del giudice.

Come si vedrà meglio a suo tempo, i provvedimenti del giudice, la cui imparzialità viene posta in discussione, possono essere presi in considerazione, in sede di esame della richiesta di rimessione, e rilevare, ai soli fini della rimessione e non ad altri fini, ove si accerti che siano stati il riflesso di una grave situazione locale e che, per la loro caratteristiche oggettive, siano sintomatici della non imparzialità del giudice.

Sui dimostrerà, però,. Che, nel caso in esame, la lamentata grave situazione locale non sussiste, donde l'impossibilità che i provvedimenti endoprocessuali, tra i quali quelli sulla competenza per territorio, siano, se errati, il riflesso di quella situazione e la conseguente impossibilità di reperirli in esame in questa sede anche se soltanto ai fini delle rimessione.

Queste sezioni unite, prima di dimostrare la infondatezza delle ragioni addotte a sostegno delle richieste di rimessione dei processi, debbono soffermarsi sia sulla questione dell'applicabilità ai processi in corso ella L. 7 novembre 2002, n. 248, che ha modificato gli artt. 45, 47, 48 e 49 del c.p.p., sia, qualora ritengano che la legge debba applicarsi ai processi in corso, sulla questione della legittimità costituzionale della norma che ne prevede l'applicabilità, sia, infine, sulla questione della legittimità costituzionale della legge nella parte in cui ha introdotto, tra i presupposti che legittimano la rimessione del processo, il legittimo sospetto.

La questione dell'immediata applicabilità della legge n. 284 del 2002 ai processi in corso, ivi compresi i processi, come quelli in esame, nei quali la richiesta di rimessione era stata già proposta quando la legge è entrata in vigore, deve essere risolta nel senso dell'immediata applicabilità.

Premesso che i lavori parlamentari dicono con chiarezza che l'intenzione espressa dalla maggioranza era nel senso di un'applicazione immediata della nuova regolamentazione anche alle richieste di rimessione già proposte, queste sezioni uite condividono quell'indirizzo della dottrina secondo il quale l'affermazione iniziale, categorica, del comma 1 dell'art. 5 della legge, la presente legge si applica anche ai processi in corso, traduce fedelmente l'intenzione del legislatore.

Ed è appena il caso di ricordare che, come rileva la dottrina, il criterio dettato dall'art. 12, primo comma, delle disposizioni sulla legge in generale, nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese del significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore, è rigorosamente unitario, poiché il senso lessicale di una parola nel discorso non sta senza nesso con altre, il quale nesso non può essere che la connessione logica, e tutto il discorso, infine, in quanto è il discorso di un uomo, non sta indipendentemente dall'intenzione di chi lo fa, poiché il senso delle parole in contrasto con l'intenzione tradirebbe, invece di esprimere, il valore normativo del fatto.

Grande è, quindi, come sottolinea altra voce della dottrina, l'importanza dei lavori preparatori, che hanno un notevole valore esplicativo e offrono un solidissimo fondamento all'interpretazione quando il proposito manifesto dal legislatore in sede di lavori preparatori concordi con il testo della norma.

L'indirizzo, secondo il quale è, invece, da escludere la immediata applicabilità della legge ai processi in corso nei qali sia stata già proposta la richiesta di rimessione, pone l'accento sulla successiva proposizione del comma 1 dell'art. 4, nella quale si dispone: e le richieste di rimessione, che risultano già presentate dalla data di entrata in vigore della legge, conservano efficacia.

Osserva quest'indirizzo che l'art. 5, in questa seconda proposizione, destina ai procedimenti di rimessione già instaurati una disciplina apposita in cui il richiamo alla conservazione degli effetti, espressione, si dice, che ricalca quelle utilizzate i altre analoghe occasioni per indicare il medesimo significato normativo (artt. 65, commi 1 e 2, disp. trans. C.p.p. 1930 e 16, commi 1 e 2, DPR n. 666 del 1955), specifica il principio tempus regit actum nel senso che la richiesta di rimessione conserva efficacia, conserva gli effetti, rispetto alla legge in vigore nel momento in cui la richiesta è stata proposta.

A questa interpretazione si è, però, obiettato, e la rilevata non equivocità della prima proposizione, corrisponde all'intenzione del legislatore, rende l'obiezione del tutto condivisibile, che è difficile sostenere che la clausola aggiunga qualcosa a ciò che risulta dalla frase precedente, ma è altrettanto difficile pretendere che ne riduca gli effetti, che è del tutto ovvio che le richieste già presentate conservino efficacia esssendosi ampliato l'ambito di rimessione, con la conseguenza che, se la legge si applica ai processi in corso, significa che, dal momento della sua entrata in vigore, ogni atto è regolato dalle nuove disposizioni, salvo espresse deroghe e in questa chiave è ragionevole concludere che la valutazione delle richieste già presentate debba svolgersi secondo i canoni vigenti al tempo della valutazione.

Si è anche osservato, nella stesa direzione, che, nella seconda proposizione del comma 1 dell'art. 5, la "e" che la precede è chiaramente di congiunzione con la frase precedente: la presente legge si applica anche ai processi in corso "e" le richieste di rimessione già presentate conservano efficacia, sicchè quella seconda proposizione vuol dire, semplicemente, che non occorre presentare una nuova richiesta perché quella già presentata sarà valutata alla stregua della nuova legge.

È da aggiungere, per completezza, che, recentemente, in dottrina si è anche sostenuto che, non solo va sottovalutato il significato logico- sintattico del collegamento operato attraverso la congiunzione, ma è da cogliere un possibile significato autonomo del disposto, il quale pertanto, non è pleonastico, riferito alle richieste presentate prima dell ' 8 novembre 2002: per vero, l'integrale operatività della novella potrebbe determinare la perdita di efficacia per inammissibilità di richieste che, sulla scorta della precedente disciplina, non correvano tale rischio.

Il che, si aggiunge, può ben realizzarsi in conseguenza delle nuove ipotesi di inammissibilità disegnate nell'art. 49 c.p.p., che attengono alla riproposizione della richiesta no basata su elementi nuovi da parte di un altro imputato dello stesso procedimento o di un procedimento che da esso sia stato separato.

Quindi, potrà anche concludersi nel senso del riconoscimento della operatività del tempus regit actum, ma in una prospettiva interna all'altrimenti piena applicabilità delle nuove previsioni relative ai presupposti della rimessione del processo.

La distinta questione della legittimità costituzionale della legge, nella parte in cui dispone la immediata applicabilità delle norme in essa contenute ai processi in corso, ivi compresi i processi nei quali la richiesta di rimessione sia stata già proposta, deve essere risolta affermando la legittimità costituzionale della legge alla luce della tradizionale giurisprudenza della Corte costituzionale.

Secondo la dottrina maggioritaria, la disposizione transitoria in esame determina forti dubbi di costituzionalità con riferimento alla nuova ipotesi di remissione, legittimo sospetto, in relazione al principio di cui all'art. 25, comma 1, della Costituzione.

Poiché la garanzia di precostituzione del giudice rispetto al fatto reato implica una deroga al normale criterio di immediata operatività delle norme processuali, in quanto viene privilegiato il criterio per cui l'individuazione del giudice naturale precostituito per legge deve essere realizzata sulla base delle norme processuali di competenza vigenti all'epoca del fatto, dall'art. 25 comma 1, Costituzione deriva, si sostiene, un chiaro divieto di retroattività delle norme incidenti sulla competenza giurisdizionale, che si traduce nella loro inapplicabilità nei processi per reati commessi prima della loro entrata i vigore.

Ne consegue, dal momento che le disposizioni sui presupposti della rimessione concorrono, nell'ambito del sistema delle competenza, ad individuare il giudice competente in quei determinati processi in cui sia stata presentata la richiesta di trasferimento del processo ex art. 45 c.p.p., che eventuali norme modificatrici dei suddetti presupposti, per esempio nel senso della loro estensione attraverso la restaurazione della formula del legittimo sospetto, non possano valere se non nei processi relativi a reati commessi dopo l'entrata in vigore della legge.

Ma, a differenza di questa dottrina, maggioritaria, che intende l'art. 25, comma 1, Costituzione in senso rigoroso, pretendendo, appunto, che l'individuazione del giudice avvenga sempre in base alla normativa vigente al momento del fatto delittuoso e, comunque, escludendo che lo ius superveniens possa incidere su processi riguardanti fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge, la giurisprudenza costituzionale offre una diversa interpretazione della norme.

Secondo il giudice delle leggi, il precetto costituzionale enunciato nel primo comma dell'art. 25 tutela un'esigenza fondamentale unitaria: quella, cioè, che la competenza degli organi giudiziari, al fine di una rigorosa garanzia della loro imparzialità, venga sottratta ad ogni possibilità di arbitrio.

La illegittima sottrazione della regiudicanda al giudice naturale precostituito si verifica, perciò, tutte le volte in cui il giudice venga designato a posteriori in relazione ad una determinata controversia o direttamente dal legislatore in via di eccezione singolare alle regole generali.

Il principio costituzionale viene, invece, rispettato quando la legge, si pure con effetto anche sui processi in corso, modifica in generale i presupposti o i criteri in base ai quali deve essere individuato il giudice competente: in questo caso, infatti, lo spostamento della competenza dall'uno all'altro ufficio giudiziario non avviene in conseguenza di una deroga alla disciplina generale, che sia adottata in vista di una determinata controversia, ,ma per effetto di un nuovo ordinamento che il legislatore, nell'esercizio del suo insindacabile potere di merito, sostituisce a quello vigente (Corte Cost., sentenza n. 56 del 1967).

In un'altra pronuncia la Corte ha ribadito che l'intervento legislativo incidente sulle competenze già radicate deve ritenersi legittimo quando, oltre ad operare in termini generali e ad avere per oggetto fatti penali di una notevole rilevanza sociale, si collega, anche, ad una insopprimibile esigenza di giustizia, che l'attuale ordinamento giuridico stenta a soddisfare, quale quella della rapidità del giudizio, per cui il suo operare retroattivamente non lede nella sostanza quelle garanzie che stanno alla base dell'art. 25, comma 1, della Costituzione (Corte Cost., sentenza n. 72 del 1976).

L'orientamento della giurisprudenza costituzionale è, dunque, nel senso di ritenere che il principio di precostituzione è comunque osservato quando l'organo decidente è istituito dalla legge sulla base di criteri generali e non fissati in vista di singole controversie (Corte Cost., sentenza n. 207 del 1987; sentenza n. 185 del 1981).

La domanda da porsi, allora, è, rileva altra voce della dottrina, se la legge Cirami ha modificato i presupposti della rimessione e, quindi, il sistema delle competenze, in vista di singoli processi, aggiungendo che, in un certo senso, lo dicono anche i suoi sostenitori che la legge nasce dalle anomalie dei processi milanesi e nella stesa relazione al DDL Cirami il collegamento è chiaro, seppure mediato dall'esigenza di colmare un vuoto di garanzie denunciato dalla Corte di cassazione.

Si chiede, però, questa dottrina, e l'interrogativo non può non essere condiviso, se è sufficiente tutto ciò a provare che il sistema delle competenze sia stato modificato in vista di singoli processi, pur essendo la legge operativa per tutti gli imputati, e conclude con l'affermazione che, seppure investita della questione, è difficile che la Corte censuri per simili ragioni il regime transitorio, che il divario tra verità storica e verità formale resterà abissale.

Si può aggiungere a tutto ciò, come si sottolinea da altri, che, se l'istituto della rimessione deroga, fa eccezione, al principio del giudice naturale precostituito per legge, l'eccezione è giustificata dall'esservi un pericolo concerto che il giudice, data la grave situazione locale, possa non essere imparziale.

Imparzialità che, come si è posto in evidenza in dottrina, pur nel silenzio del legislatore costituente, era considerata come un principio informatore del sistema, preesistente all'esercizio del potere costituente, ovvero come una qualifica connaturata alla qualità di giudice, imparzialità oggi esplicitamente affermata come principio dalla L. costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, la quale ha inserito i principi del giusto processo nell'art. 11 della Costituzione affermando, tra l'altro, che ogni processo deve svolgersi davanti ad un giudice terzo e imparziale.

Ci si può chiedere allora, se possa ritenersi violato l'art, 25, comma 1, della Costituzione, nel suo aspetto di norma sostanziale, destinata a fissare un indirizzo per l'attività legislativa subordinata, ed in particolare volta a stabilire che la competenza giurisdizionale debba essere definita prima del verificarsi del fatto da giudicare, e nel suo aspetto di norma formale, volta ad istituire una riserva assoluta di legge in materia di competenza giurisdizionale, nel momento i cui io legislatore intervenga, come ha fatto con la legge in esame, ampliando, dopo la nascita della regiudicanda e dopo la richiesta di rimessione, in via generale e non con riferimento ad una determinata fattispecie, le ipotesi di rimessione, le ipotesi in cui io giudice può essere ritenuto o sospettato di non essere quel giudice imparziale dinanzi al quale deve svolgersi il (giusto) processo ai sensi dell'art. 11 della Costituzione, quel giudice che, solo, può prendere in esame la regiudicanda.

La questione della legittimità costituzionale dell'art. 45 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge n. 248 del 2002, deve essere risolta, anch'essa, tenendo conto della giurisprudenza della Corte costituzionale.

Come è noto, la corte di cassazione, con l'ordinanza del 27 novembre 1962, Casoli, nel ritenere non manifestamente infondata la questione della legittimità costituzionale dell'art. 55 c.p.p., ha coinvolto, nella sua denuncia, l'intero istituto, considerato nel suo complesso; e, altresì, noto che la Corte costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto del 27 aprile 1963, n. 50, ha dichiarato non fondata la questione, facendo le seguenti affermazioni.

Nella rimessione autorizzata dall'art. 55 c.p.p., lo spostamento della competenza per territorio dipende necessariamente ed esclusivamente dall'accertamento obiettivo dei fatti ipotizzati dalla legge, in seguiti e a conclusione di uno speciale procedimento; ed è altresì da escludere che, anche se nel testo legislativo è usata la parola "può", la facoltà attribuita al supremo organo della giurisdizione ordinaria importi una discrezionalità nell'emanare il provvedimento di rimessione, dovendosi invece ritenere che tale provvedimento costituisce l'espressione del potere dovere del giudice di decidere, come di regola si verifica, nel caso concreto in base all'accertamento e alla valutazione dei fatti in relazione alle ipotesi, in astratto, previste dalla legge.

Nell'interpretazione dell'art. 55 assumono particolare rilievo le gravi esigenze che, con l'istituto della rimessione, regolato da tale articolo, si intendono soddisfare, esigenze, le quali, al del divieto di distogliere alcuno dal giudice naturale precostituito per legge, rispondono anch'esse a principi costituzionalmente rilevanti, cioè l'indipendenza e, quindi, l'imparzialità dell'organo giudicante a la tutela del diritto di difesa.

La disposizione impugnata tende ad evitare che l'insorgere di particolari situazioni, o altri fattori esterni, possano, in qualsiasi modo, interferire nel processo penale, incidendo sull'obiettività del giudizio e sulla retta applicazione della legge, che si ricollegano ad una suprema garanzia di giustizia, donde non soltanto l'opportunità, ma la necessità che, del processo, conosca un giudice diverso da quello originariamente stabilito dalla legge.

Qualora, invero, nella sede in cui si svolge il processo e in relazione al medesimo si presentino situazioni come quelle previste dall'art. 55; qualora, cioè, in relazione all'ordine pubblico, si manifestino o siano sicuramente prevedibili gravi turbamenti della pubblica tranquillità e della pacifica convivenza dei cittadini, con pericolo anche per la sicurezza delle persone; ovvero quando, riguardo al legittimo sospetto, si tenta di influire sullo svolgimento e sulla definizione di esso, appare chiara non soltanto l'opportunità, ma la necessità che del processo conosca un giudice diverso da quello originariamente stabilito per legge, la designazione del quale, per necessità pratiche, è demandata all'organo giudiziario.

Questa sentenza ha affermato, dunque, sia che il denunciato potere discrezionale della Corte di cassazione nel decidere lo spostamento della competenza non sussiste, perché la translatio judcii deve dipendere necessariamente ed esclusivamente da un accertamento obiettivo dei fatti ipotizzati dalla legge, sia che i presupposti per la rimessione, gravi motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto, non possono essere considerati labili, se si interpretano restrittivamente, se si ritengono sussistenti qualora si manifestino perturbamenti della pubblica tranquillità e della pacifica convivenza dei cittadini, con pericolo anche per la sicurezza delle persone, ovvero, relativamente al legittimo sospetto, quando con mezzi diretti o indiretti, non esclusa la violenza nei riguardi delle persone che partecipano al processo, si tenti di influire sullo svolgimento o sulla definizione dello stesso.

Potrebbe porsi il quesito se il testo dell'art. 45, come licenziato dal Senato, la rimessione si sarebbe potuta chiedere, secondo quel testo, quando la sicurezza e l'incolumità pubblica fossero pregiudicate da gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, ovvero per legittimo sospetto, sarebbe passato indenne ad un eventuale vaglio di legittimità costituzionale.

Ma, non pare si presti a rilievi, sul piano della legittimità costituzionale, il testo definitivamente approvato, nel quale si prevede espressamente che i motivi di legittimo sospetto sussistono se determinati da una grave situazione locale, espressione, come meglio si vedrà in seguito, che, avendo il significato di una situazione locale non interpretabile se non in termini di pericolo concreto della non imparzialità del giudice, esclude, con certezza, che lo spostamento della competenza per territorio possa dipendere dalla discrezionalità del giudice e, quindi, che venga violato il principio dell'art. 25, rimo comma, Costituzione del giudice naturale precostituito per legge.

Ciò detto, prima di esaminare la fattispecie debbono essere ribaditi, con determinate puntualizzazioni, i principi che questa suprema corte ha affermato:

a.. sulla natura eccezionale dell'istituto della rimessione,

b.. sulla interpretazione restrittiva delle relative norme,

c.. sulla interpretazione delle espressioni pregiudizio della libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo, legittimo sospetto

d.. sulla interpretazione della espressione grave situazione locale.

L'istituto della rimessione è considerato eccezionale già in una circolare del 2 ottobre 1939 dell'allora Ministro della Giustizia, che ha anticipato non poco di quel che si sarebbe detto successivamente.

La rimessione dei procedimenti, che costituisce una deroga alla competenza territoriale, così questo documento, è un istituto di eccezione che dovrebbe avere scarsa e ben mediata applicazione.

È vero che i motivi sui quali essa può essere fondata, ordine pubblico o legittimo sospetto, sono indicati dalla legge in modo generico ed indeterminato, ma ciò può significare, nell'attuazione pratica, una valutazione elastica e superficiale dei motivi stessi.

Occorre invece, un accertamento rigoroso della sussistenza di condizioni obiettive ed ambientali tali da giustificare fondati dubbi sulla possibilità dello svolgimento tranquillo ed imparziale di un determinato procedimento ed occorre, altresì, che la valutazione di quelle condizioni sia fatta con estrema ed oculata prudenza.

L'abuso dell'istituto determina deplorevoli e ingiustificabili sospetti sull'indipendenza e la imparzialità della magistratura ed autorizza il dubbio, altrettanto deplorevole ed ingiustificato, che si possa alterare la giustizia attraverso la sostituzione del giudice.

La dottrina, già nell'abrogato codice, è stata sempre unanime nel definire eccezionale l'istituto e il carattere eccezionale, e, in alcune ordinanza, assolutamente eccezionale dello stesso è stato ribadito, in stretto collegamento con l'affermazione della natura derogatoria del medesimo rispetto al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, contale costanza della giurisprudenza, coma ha rilevato la dottrina, da apparire quasi una clausola di stile (Cass., 13 ottobre 1997, Manganaro; 10 marzo 1997, Cirino Pomicino; 26 ottobre 1996, Berlioz; 30 gennaio 1996, Tetamo; 25 ottobre 1995, Gullotti; 12 ottobre 1995, Massimano; 20 settembre 1995 Craxi; 5 luglio 1995, Fiandrotti; 7 febbraio 1995m Sgarbi; 16 novembre 1993, Annaconda; 23 gennaio 1992, Di Muro).

L'eccezionalità dell'istituto si spiega, anzitutto, considerando che la rimessione costituisce eccezione al principio del giudice naturale precostituito per legge, precostituzione che, come osserva la dottrina, non è soltanto in funzione della prevedibilità del giudice, ma anche della non manipolabilità a posteriori della compattezza.

L'eccezionalità si coglie, poi, tenendo conto che, in tanto con la rimessione si deroga alla competenza territoriale e, quindi, al principio del giudice naturale precostituito per legge, in quanto vi siano motivi, gravi situazioni locali, per sospettare il giudice di non essere imparziale e la non imparzialità o il sospetto della non imparzialità del giudice non può che essere eccezionale, come la stessa circolare, prima citata, del Ministro della Giustizia del 1939, mostrava di ritenere.

L'eccezionalità, infine, si giustifica se si ha anche ben presente che, come hanno sempre affermato, anche nella vigenza del codice abrogato, la giurisprudenza e la dottrina, il giudice non imparziale o sospetto di non esserlo non è il giudice e non è soltanto il giudice del processo, ma è per definizione, l'organo giudicante nel suo complesso (Cass., 23 febbraio, B., secondo la quale grave situazione locale deve essere tale da riverberarsi sull'organo giudicante indipendentemente dalla sua composizione; 13 ottobre 1997 Manganaro, secondo la quale i fattori inquinanti l'imparzialità debbono riverberarsi sull'intero ufficio giudiziario astrattamente considerato, non sui singoli magistrati o su un singolo organo in cui si articoli; 10 marzo 1997, Cirino Pomicino, secondo cui rileva il nesso tra l'ambiente giudiziario e quello creatosi in relazione ad una determinata vicenda giudiziaria; 25 febbraio 1993, Della Corte, che parla dell'ufficio nel so complesso; 14 aprile 1993; Palau; secondo cui il legittimo sospetto che importa la rimessione del processo deve riferirsi all'ufficio giudiziario nel suo complesso e non ad un singolo magistrato e ad un singolo organo collegiale dell'ufficio; 18 aprile 1990, Di Palma, secondo cui l'istituto della rimessione tende a garantire la serenità dell'organo nel suo complesso).

Questa eccezionalità, è evidente, non può che essere l'effetto di una causa eccezionale, di una grave, eccezionale, situazione locale.

Il carattere eccezionalità dell'istituto ha come indefettibile corollario, secondo le unanimi affermazioni della giurisprudenza e della dottrina, il principio della interpretazione restrittiva delle norme che lo disciplinano e ciò proprio perché queste norme incidono pesantemente sulle regole attributive della competenza inerenti alla precostituzione del giudice naturale.

(cfr.: per la giurisprudenza formatasi nella vigenza del codice abrogato: Cass., 20 giugno 1985, Pisanelli; 28 marzo 1984, Mastrovito; 29 ottobre 1983, Russo; 1 marzo 1983, Gullace; 22 aprile 1980, Scoccianti; 20 ottobre 1976, Izzo; 20 maggio 1975, Bozano e per la giurisprudenza formatasi dopo l'entrata in vigore del codice vigente: Cass., 14 ottobre 1993 Palau; 6 luglio 1993; Baietta; 18 aprile 1990, Di Palma).

Del resto, già nella circolare del 1939 del Ministro della Giustizia si affermava, sostanzialmente, lo stesso principio quando si osservava che occorreva un accertamento rigoroso della sussistenza di condizioni obiettive ed ambientali tali da giustificare fondati dubbi sulla possibilità dello svolgimento tranquillo ed imparziale di un determinato procedimento e occorreva, altresì, che la valutazione di quelle condizioni venisse fatta con estrema ed oculata prudenza.

Quanto alla dottrina, è stato recentemente affermato che non si può ignorare che, sebbene la giurisprudenza abbia correttamente fatto leva sul dato normativo per ricavare una lettura restrittiva, sia il riferimento oggettivo alle situazioni locali, sia la stessa loro qualificazione come gravi sono dati suscettibili di interpretazione e valutazione cui non resta estranea la diversità di sensibilità e di concezione personale.

Per conseguenza, solo una interpretazione che tenga conto della funzione dell'istituto, ma, soprattutto, che sia costantemente memore del carattere eccezionale rivestito dal medesimo all'interno dell'ordinamento, in funzione di precisi limiti derivanti dal principio costituzionale di precostituzione del giudice, consente di propiziare un uso della rimessione che non appaia abnormemente dilatato.

L'evidente portata derogatoria assunta all'istituto della rimessione di fronte al principio enunciato nell'art. 25, co. 1, Costit. non può che postulare, infatti, un approccio interpretativo rigoroso, che impone di considerare tassative, e dunque, soggette ad un criterio di stretta interpretazione, le fattispecie legittimanti il trasferimento del processo.

Quanto al significato dell'espressione pregiudizio della libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo e legittimo sospetto è sufficiente richiamare alcune delle affermazioni che queste sezioni unite hanno fatto, al riguardo, nell'ordinanza del 29 maggio 2002, con la quale, come è noto, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 45 c.p.p., in riferimento all'art. 2, n. 17 legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, nella parte in cui non prevedeva tra le cause di rimessione il legittimo sospetto, ordinanza con la quale, è opportuno sottolinearlo, le sezioni unite hanno posto un problema non inesistente che il legislatore ha superato attraverso la revisione degli articoli che il codice di rito riserva alla rimessione del processo e l'introduzione, tra i presupposti della rimessione, del legittimo sospetto, ancorato, come gli altri presupposti, ad una grave situazione locale.

Netta, si è osservato in questa ordinanza, è la differenza tra libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo e legittimo sospetto.

Il pregiudizio della libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo, è, invero, secondo la giurisprudenza e la dottrina, il condizionamento che queste persone subiscono, in quanto soggetti passivi di una vera e propria coartazione fisica o psichica che, incidendo sulla loro libertà morale, impone una determinata scelta, quella della parzialità o della non serenità., precludendone altre di segno contrario.

Il legittimo sospetto è., invece, il ragionevole dubbio che la gravità della situazione locale possa portare il giudice a non essere, comunque, imparziale o sereno, dovendo intendersi per imparzialità la neutralità, la indifferenza, del giudice rispetto al risultato, rispetto all'esito del processo.

E che, è doveroso aggiungerlo, imparzialità del giudice voglia dire neutralità del giudice rispetto al risultato è stato affermato dalla Corte Cost. nella sentenza 1 ottobre 1997, n. 306, nella quale la Corte ha riconosciuto come, nell'ambito del principio del giusto processo, derivante dalla disposizioni costituzionali che attengono la disciplina della giurisdizione, posto centrale deve attribuirsi alla imparzialità- neutralità del giudice in carenza della quale tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di concreto significato.

la formula legittimo sospetto, si è anche detto in quella ordinanza, è, quindi, più ampia, più comprensiva della formula libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo, ponendo essa l'accento sull'effetto, cioè sul pericolo concreto che possano essere pregiudicate l'imparzialità e la serenità, senza esigere che quell'effetto sia conseguenza della impossibilità per il giudice di essere imparziale per essere stato coartato fisicamente o psichicamente.

può sintetizzarsi tutto ciò, quanto al legittimo sospetto, affermando che, secondo queste sezioni unite, i motivi di legittimo sospetto sono configurabili quando si è in presenza di una grave e oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice, inteso questo come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito.

il tema della grave situazione locale è il tema cruciale dell'istituto della rimessione del processo perché solo attribuendo a questa espressione il significato che le spetta, solo riservandole, nella logica della eccezionalità dell'istituto, la interpretazione restrittiva che, peraltro, la giurisprudenza di questa Suprema Corte le ha sempre riservato, si riesce a distinguere tra ciò che veramente incide negativamente e concretamente sul bene costituzionale della imparzialità del giudice, e quindi, tra ciò che giustifica la traslatio iudicii, e ciò che, invece, non ha quella incidenza e, conseguentemente, non può determinare il trasferimento del processo.

La giurisprudenza e la dottrina assolutamente prevalente non hanno alcun dubbio sul valore che deve essere attribuito all'espressione grave situazione locale.

Nessun dubbio per entrambe, anzitutto, che l'aggettivo territoriale alluda ad una situazione locale, empiricamente verificabile, estranea alla dialettica processuale.

Ricordato che già per il Ministro della Giustizia del 1939 occorreva, per la rimessione, un accertamento rigoroso della sussistenza delle condizioni obiettive e ambientali e che già la giurisprudenza formatasi nella vigenza del codice abrogato, specialmente quella successiva alla sentenza n. 50 del 1963 dalla Corte Costituzionale, richiedeva che sussistessero fattori, turbative di carattere locale/territoriale, la giurisprudenza, dopo l'entrata in vigore del codice vigente, ha ribadito il principio delimitando, peraltro, ulteriormente gli spazi nei quali l'interprete deve muoversi per accertare se la lamentata grave situazione locale abbia le caratteristiche che la legge, nel momento in cui disciplina l'istituto della rimessione come istituto di carattere eccezionale, vuole che abbia ai fini della traslatio iudicii.

Per Cass., 23 febbraio 1998, B. le situazioni locali, secondo una consolidata tradizione interpretativa, ampiamente ripresa dalla giurisprudenza di questa suprema corte riguardo al codice di rito vigente, possono trarre origine soltanto da obiettive e provate circostanze ambientali, estranee alla dialettica processuale.

Per Casss., 13 ottobre 1997, Manganaro: la situazione locale legittimante la rimessione deve riguardare fenomeni esterni alla dialettica processuale e all'ambito dei rapporti intrinseci al dinamico sviluppo del processo.

Per Cass., 9 novembre 1995, Cerciello: l'art. 45 del nuovo codice ha stabilito che le situazioni legittimanti la rimessione debbono essere di carattere locale, condizione con la quale si è inteso affermare che le causali della traslatio iudicii debbono riguardare fenomeni esterni alla dialettica processuale.

Per Cass., 12 ottobre 1995, Massimano: le situazioni legittimanti la sottrazione del processo al giudice del locus commissi delicti debbono essere di carattere locale cioè debbono trarre origine da obiettive e provate circostanze ambientali, estranee alla dialettica processuale.

Per Cass., 14 ottobre 1993, Palau: deve trattarsi di concrete e dimostrate situazioni ambientali.

Per Cass., 8 aprile 1992, Canaglia: le situazioni che legittimano la rimessione devono essere di carattere locale e devono riguardare l'ambiente che circonda il processo.

Come può notarsi, la giurisprudenza ha dedotto che la situazione locale deve essere esterna alla dialettica processuale dal dover essere, la stessa, una situazione locale/territoriale, affermazione, quest'ultima, dalla quale la giurisprudenza ha tratto, come conseguenza, anche il principio della irrilevanza, ai fini della rimessione, dei provvedimenti endoprocessuali.

La dottrina si muove nella stessa direzione.

E' assolutamente minoritaria la dottrina che esclude che l'espressione situazione locale si riferisca solo a situazioni esterne alla dialettica processuale, mentre la dottrina maggioritaria, dopo avere posto in rilievo che, se dovesse escludersi che la situazione locale deve essere una situazione esterna al processo, si correrebbe il rischio di ridurre il fattore ambientale ad un inutile orpello, incrementando il numero delle rimessione inutiliter datae, afferma che il termine locale va, invece, inteso nel senso che occorre un effettivo radicamento territoriale della situazione che rileva quale causa di rimessione.

La situazione locale, pertanto, altro non indica se non il contesto ambientale extragiudiziario; la causa pregiudicante nasce e si cristallizza all'esterno del processo e solo successivamente riverbera i suoi effetti all'interno della peculiare vicenda giudiziaria, sicchè non è la vicenda processuale a contagiare, proiettandosi all'esterno, il contesto ambientale generale, ma esattamente l'opposto.

Aggiunge questa voce della dottrina che una lettura non preconcetta dell'art. 45 c.p.p. permette, d'altro canto, di cogliere una duplice esigenza.

La prima, di natura logica, individua nell'alterazione dell'equilibrio funzionale del processo l'effetto endogeno ricollegabile ad un fattore perturbante esogeno radicato nel territorio e a ciò allude la dottrina quando parla di nesso ambientale tra gli accertati pericoli locale e gli effetti negativi prodotti sul giudice o sulle parti e sulla stessa linea esegetica si colloca la giurisprudenza prevalente, sottolineando la necessità di un negativo rapporto della vicenda giudiziaria con l'ambiente inteso come luogo in cui il processo si svolge.

La seconda, prettamente metodologica, impone un vaglio preliminare in ordine alla peculiare situazione territoriale e, solo in un secondo momento, l'ulteriore verifica circa l'effettiva incidenza del fenomeno esterno sulla dinamica processuale; la verifica territoriale, naturalmente, va condotta in maniera libera da qualsiasi pregiudizio, nel senso etimologico del termine, derivante dalla peculiare vicenda giudiziaria, diversamente si rischia di confondere l'effetto con la causa o, ancora peggio, di presumere l'esistenza del fattore esogeno esclusivamente sulla base dell'accertato effetto endogeno.

Ebbene, se la situazione altro non indica che il contesto ambientale extragiudiziario, se la causa pregiudicante nasce e si cristallizza all'esterno del processo e solo successivamente riverbera i suoi effetti all'interno della peculiare vicenda giudiziaria, ciò sta a significare che la corte di cassazione deve accertare se sussiste la grave situazione locale- territoriale prescindendo dalla dialettica processuale, prescindendo da ciò che accade nel processo

E' il territorio, nel quale come esigono le norme sulla competenza per territorio, si radica quel determinato processo, che deve essere investito da una situazione di tale gravità da rendere il processo incompatibile con la permanenza in quel luogo; è il territorio, in altri termini, che impone che il processo, lì radicato, ne sia sradicato, sicchè, se sul territorio, su ciò che sta intorno al processo, non c'è nulla che evochi una grave situazione, ciò che accade nel processo non può avere alcuna rilevanza.

Detto in altre parole, se la grave situazione locale- territoriale obiettivamente non sussiste, ciò che accade nel processo non può, ovviamente, essere riflesso di una inesistente grave situazione locale e, quindi, non può avere alcuna rilevanza ai fini della rimessione.

Al quesito, quindi, se i provvedimenti e i comportamenti del giudice possano assumere rilevanza ai fini della rimessione del processo, deve rispondersi, secondo queste sezioni unite, che i provvedimenti e i comportamenti del giudice possono assumere rilevanza ai fini della rimessione del processo a condizione che siano l'effetto di una grave situazione locale e che, per le loro caratteristiche oggettive, siano sicuramente sintomatici della non imparzialità del giudice.

Se la grave situazione locale sussiste non v'è dubbio, invero, che i provvedimenti e i comportamenti del giudice possano assumere rilevanza ai fini della rimessione.

Se il territorio è gravemente turbato, e deve esserlo ai fini di quel processo, è, infatti, pressoché impossibile che il turbamento non si rifletta nel processo; è veramente impossibile che quel grave turbamento non incida negativamente sulla imparzialità del giudice e, quindi, sui o su alcuni provvedimenti di quest'ultimo, determinandone caratteristiche sicuramente sintomatiche della parzialità.

I provvedimenti endoprocessuali, se, in presenza di una grave situazione locale, presentano queste caratteristiche negative, valgono, quindi, per un verso, da avallo, da conferma del giudizio, peraltro, autonomamente certo, dell'esistenza della grave situazione locale essendone l'effetto, e, per altro verso, possono contribuire a far capire se si versi in una situazione di pregiudizio della libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo o in una situazione di pericolo concreto di non imparzialità del giudice.

E questo avallo, questa conferma, in un istituto eccezionale e di stretta interpretazione come quello in esame, eliminano ogni residuo, pur lontano, ma pur sempre ipotizzabile dubbio sulla gravità della situazione locale.

In questi termini va valorizzato quanto la dottrina pone in rilievo circa la circolarità tra ciò che avviene all'esterno e ciò che avviene all'interno del processo.

Se la grave situazione locale non esiste oggettivamente, a nulla vale indugiare sui provvedimenti endoprocessuali e ciò per la semplice ragione che, in assenza di un grave turbamento dell'ambiente esterno al processo, gli eventuali, discutibili, provvedimenti endoprocessuali possono ben spiegarsi o come semplice conseguenza di un'errata interpretazione della legge o di un non corretto esercizio del potere discrezionale o come provenienti da un giudice ricusabile; possono spiegarsi, cioè, come effetti che hanno la loro causa nel processo o se, come nell'ipotesi della ricusazione, l'hanno fuori del processo, si tratta pur sempre di una causa che non e la grave situazione locale.

Se, invece, quest'ultima sussiste, i provvedimenti endoprocessuali, se con determinate caratteristiche, specialmente se emessi su questioni particolarmente rilevanti o nei momenti più delicati del processo, possono essere ritenuti a ragione conseguenza della stessa, con quella, dinanzi sottolineata, circolarità che si risolve in una conferma, in un avallo, della grave situazione locale autonomamente accertata.

D'altro canto, soltanto se la grave situazione locale è grave situazione ambientale- territoriale ha senso affermare, una volta che ne sia stata accertata l'esistenza, che il pericolo concreto della non imparzialità riguarda l'organo nel suo complesso e non il giudice o i giudici del processo.

Solo se è interessato gravemente il territorio, che è ciò che sta intorno al processo, può dirsi, infatti, a ragione, che anche ogni altro giudice del luogo, diversamente d quanto accade nella ricusazione, si sarebbe comportato, con alto grado di probabilità, come si sono comportati, con i loro provvedimenti, effetto della grave situazione e sintomatici della non imparzialità i giudici del processo.

la situazione non solo deve essere locale/territoriale, nel senso appena visto, ma deve essere anche grave e la interpretazione di questo aggettivo, che deve essere restrittiva, come si è visto deve esserlo l'interpretazione dell'aggettivo locale, è veramente decisiva, non solo per la distinzione tra ciò che legittima e ciò che non legittima la rimessione del processo, ma anche, e più di quanto lo sia la corretta interpretazione dell'aggettivo locale, ai fini della non violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge.

La giurisprudenza è, al riguardo, sostanzialmente tutta negli stesi termini.

Per Cass., 23 febbraio 1998, B., grave situazione locale significa che le circostanze ambientali debbono avere una sintomatica abnormità.

Per Cass., 10 settembre 1997, C.P., la situazione deve essere tale da sconvolgere l'ordine processuale (negli stessi termini; Cass., 7 febbraio 1995, S.).

Per Cass., 21 febbraio 1996, Lamberti, deve trattarsi di dati di fatto, non solo certi, ma univocamente significativi.

Per Cass., 8 settembre 1992, Di Muro, la situazione deve essere tale da rendere pressoché inevitabile la sua negativa incidenza sul corretto svolgimento del processo.

Quanto alla dottrina, è sufficiente porre in evidenza che, per una autorevole voce della stessa, deve trattarsi di congiunture abnormi, per altra di eventi eccezionali e per altra, recentissima, che si richiama a cass., 21 febbraio 1996, Lamberti, di fatti non solo certi, ma univocamente significativi.

Espressioni, come quelle appena viste, situazione o congiuntura abnorme, sconvolgente, di notevole consistenza, di inevitabile incidenza, eccezionale, univocamente significativa, dicono, con chiarezza, quale deve essere lo spessore della situazione locale perché possa pregiudicare concretamente la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo o per potere giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice.

A ben vedere, gli aggettivi usati per definire la gravità della situazione locale consentono di dire che la situazione locale deve essere tale, per la sua abnormità, per la sua notevole consistenza, per la sua eccezionalità, per il suo univoco significato, da non potere essere interpretata se non nel senso del pericolo concreto della non imparzialità o nel senso del pericolo concreto del pregiudizio della libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo, interpretazione, questa, che riduce drasticamente i margini di discrezionalità della corte di cassazione nel decidere sulla sussistenza della grave situazione locale e nel disporre il trasferimento del processo in deroga al principio del giudice naturale precostituito per legge.

Che la situazione debba essere grave nel senso appena visto si desume, del resto, anche dal fatto che la situazione che pregiudica la sicurezza o la pubblica incolumità è, necessariamente, una situazione abnorme, di notevole consistenza, eccezionale, univocamente significativa, potendo dirsi pregiudicata la sicurezza quando la situazione locale sia talmente grave da richiedere un intervento, non momentaneo e significativo nelle presenze, delle forze dell'ordine e potendo dirsi pregiudicata la pubblica incolumità quando la situazione locale sia tanto grave da esigere un intervento, che si protragga nel tempo, della protezione civile: si pensi alle tragedie del Vaiont e della Val di Stava, per ricordare due gravi situazioni locali distanti, tra di loro, nel tempo.

Non v'è alcuna ragione, allora, per ritenere che il legislatore, nel prevedere che il pregiudizio della libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo o che i motivi che determinano il legittimo sospetto debbono scaturire, anch'essi, da una grave situazione locale idonea a turbare lo svolgimento del processo, non richieda che questa situazione abbia una pari, non minore, gravità, che sia univocamente significativa, come sicuramente lo è, e non può non esserlo, la situazione che pregiudica la sicurezza e la incolumità pubblica.

Nel passare all'esame dei dati di fatto, nei quali i richiedenti ravvisano la grave situazione locale, deve essere preliminarmente dichiarata sia la manifesta infondatezza della eccezione di inammissibilità della memoria del pubblico ministero, sia la irrilevanza processuale della eccezione di intempestività e, quindi, di irritualità delle osservazioni fatte pervenire dal presidente della IV sezione del Tribunale di Milano.

L'eccezione di inammissibilità della memoria del pubblico ministero è stata sollevata osservando che, nel procedimento di rimessione, le funzioni di pubblico ministero sono esercitate dai magistrati della procura generale presso la corte di cassazione e non dal pubblico ministero del processo del quale si chiede la rimessione, sicché la facoltà di produrre memorie è, se mai, del primo e non del secondo.

La tesi non ha alcun pregio.

E', invero, sufficiente considerare che l'art. 46, comma 2, c.p.p., dispone che la richiesta è depositata, con i documenti che vi si riferiscono, nella cancelleria del giudice ed è notificata entro sette giorni a cura del richiedente alle altre parti.

Se parte è il soggetto che richiede una decisione giurisdizionale in accoglimento di una propria tesi, il riferimento più immediato, come si sottolinea dalla dottrina, corre proprio al pubblico ministero, giacchè questo è, in primo luogo, il soggetto che, attraverso il promovimento dell'azione penale, domanda, appunto, al giudice una decisione che accolga le ragioni dell'accusa.

Ma, se il pubblico ministero è parte non può non avvalersi della facoltà attribuita alle parti dall'art. 121 c.p.p., il quale, nel comma 1, dispone che, in ogni stato e grado del procedimento, le parti e i difensori possono presentare al giudice memorie o richieste scritte, mediante deposito in cancelleria.

Del resto, non ci sarebbe ragione di notificare la richiesta al pubblico ministero se questo non avesse la possibilità di svolgere alcuna attività in difesa della propria posizione processuale.

Altro, evidentemente, è il tema dell'esercizio delle funzioni di pubblico ministero, funzioni che l'art. 51, comma 1, lett. B), c.p.p. prescrive che, nei giudizi nei giudizi di impugnazione, siano esercitate dai magistrati della procura generale presso la corte di appello o presso la corte di cassazione, esercizio dal quale non può di certo conseguire che il pubblico ministero del processo del quale si chiede la rimessione non sia stato e non sia tuttora, sino all'eventuale rimessione, parte di quel processo.

Il rilievo, che si legge nella memoria di P. del 18 gennaio 2003 e con il quale si contesta la irritualità della osservazioni della IV Sezione del Tribunale di Milano perché pervenute soltanto il 27 novembre 2002, è privo di qualsiasi incidenza processuale.

P. osserva che, disponendo l'art. 46, comma 3, c.p.p. che il giudice trasmette immediatamente alla corte di cassazione la richiesta con i documenti allegati e con eventuali osservazioni, la trasmissione delle osservazioni del giudice procedente è eventuale, ma immediata, sicchè deve ritenersi che la IV Sezione del Tribunale non ha seguito le indicazioni normative, essendosi limitata, al momento del deposito delle richieste di rimessione, unicamente a trasmettere le richieste medesime e la documentazione alle stesse allegata inoltrando le osservazioni a distanza di molti mesi, senza alcuna coerenza.

Può anche discutersi se sia o meno rituale la trasmissione di osservazioni da parte del giudice del processo del quale si chiede la rimessione che non sia contestuale alla trasmissione della richiesta.

E' certo, però, che, supposto che sia ravvisabile, l'irritualità è senza alcuna sanzione, disponendo il comma 4 dell'art. 46 c.p.p. che è causa di inammissibilità l'inosservanza delle forme e dei termini previsti dai commi 1 e 2, mentre, come riconosce lo stesso P., la facoltà di trasmettere osservazioni con la richiesta è prevista nel comma 3.

Nell'iniziare l'esame dei fatti al fine di accertare se vi sia o non vi sia la grave situazione locale, con le caratteristiche, dinanzi puntualizzate, necessarie per la rimessione del processo, queste sezioni unite debbono osservare che non risponde al vero che, come si sostiene in qualche memoria, abbiano già positivamente accertato la grave situazione locale nella ordinanza con la quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale.

In quella ordinanza, invero, preso atto delle ragioni addotte dai difensori nel prospettare la questione di costituzionalità e sintetizzati i fatti che i richiedenti ritenevano, e ritengono tuttora, costituire grave situazione locale, queste sezioni unite hanno sollevato la questione non ritenendo, a seguito di una sommaria delibazione dei fatti, manifestamente infondate le prime e le seconde ragioni, sulle quali, quindi, poteva legittimamente innestarsi un giudizio di legittimità costituzionale.

E' in questa sede, dunque, che, escluso che le richieste di rimessione siano manifestamente infondate, queste sezioni unite si apprestano ad esaminare i fatti per accertare se sussiste o non sussiste la grave situazione locale.

Dalle richieste, come diffusamente, a suo tempo, riportate, risulta che tutti i richiedenti, ma, soprattutto, B. e P., il quale vi dedica più della metà della sua richiesta e non poche pagine delle memorie, ritengono che Saverio Borrelli , allora procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, con le sue ripetute dichiarazioni, con i suoi atti, con le sue iniziative, con i suoi interventi, ha trasformato la procura della Repubblica di Milano in organismo politico e che, così facendo, ha determinato la grave situazione locale di contrapposizione, per ragioni politiche, con riflessi suoi processi e, quindi, sulla imparzialità dei giudici, tra gli uffici giudiziari di Milano, da un lato, ed alcuni imputati dall'altro, in particolare B. e P.

Per rendersi conto sin dove, nella ricostruzione di P., si sarebbe spinta questa contrapposizione, è opportuno leggere quanto P. scrive nella pagg. 3-4 della richiesta.

Un esempio eclatante del metodo adottato è fornito dalla vicenda dell'invito a comparire per un interrogatorio, disposta dalla procura di Milano, nel momento in cui potesse esplicare i suoi maggiori effetti distruttivi e al tempo stesso ottenere il massimo effetto spettacolare, cioè proprio quando - 21 novembre 1994 - l'On. B., anche all'epoca Primo Ministro, presiedeva a Napoli un importante vertice tra i Paesi dell'ONU in tema di criminalità organizzata.

Posto, prosegue P, che non vi era alcuna necessità giuridica di notificare un simile atto, eventuale, e, quindi tranquillamente posticipabile a data diversa, la scelta comunicazionale di prediligere un palcoscenico mediatico di amplissima risonanza, quale quello di un importane vertice internazionale tra Capi di Governo, è stata evidentemente dettata da strategie di natura extraprocessuale, del tutto incompatibile con la normale conduzione di un processo.

Non solo, ma l'intera operazione è stata innescata grazie alla palese ed incontestabile violazione del segreto investigativo concernente la notizie dell'iscrizione del nominativo del Capo del Governo nel registro Generale delle notizie di reato, necessariamente trapelata dalla Procura della Repubblica di Milano, ufficio che custodiva e teneva tale registro.

Eppure, proprio l'anticipazione della notizia dell'avvenuta iscrizione nel registro generale delle notizie di reato del nominativo dell'On. B, fornita ad un giornalista del Corriere della Sera, che per scoop ebbe il premio di giornalista dell'anno, aveva consentito di preparare il terreno allo spettacolare colpo di scena orchestrato dalla procura, la notifica dell'avviso, che in questo modo riuscì ad assestare un colpo mortale al Governo in carica che poco dopo dovette dimettersi.

Stando a queste proposizioni, la procura e, quindi, Saverio Borrelli, che ne era il capo, ha spinto la propria contrapposizione politica nei confronti di B., Presidente del Consiglio, sino a provocare, con atti spettacolari, la caduta del Governo da questi presieduto.

Non v'è dubbio, dunque, che, secondo questa ricostruzione, il disegno politico di Borrelli fosse già chiarissimo nel novembre del 1994 e, conseguentemente, che già in quel momento, come, del resto, avrebbero confermato tutta una serie di dichiarazioni, di contenuto politico/giudiziario, citate puntualmente da B. nella propria richiesta, era già chiaramente in atto la grave situazione locale, la profonda anomalia territoriale richiesta dalla legge per la traslatio iudicii.

I comportamenti di Borrelli, così come vengono descritti nella richiesta di P., consentono di distinguere, per comodità, un primo Borrelli, il Borrelli della notifica del 21 novembre 1994 e di tutta una serie di dichiarazioni che vanno dal novembre 1993 al settembre 1997, un secondo Borrelli, il Borrelli stratega, con la politicizzata magistratura milanese, della concertazione contra reum, di ciò che P., con questa espressione, definisce, a pag. 23 e SS.GG, come vera e propria strategia processuale in danno degli imputati, e un terzo Borrelli, il Borrelli, procuratore generale in quel momento, che ha chiuso la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2002 con la ripetizione resistere, resistere, resistere, interpretata, nelle richieste, come un ulteriore atto politico.

Prima di vedere se in ciò che Borrelli ha detto o fatto, secondo quanto rappresentato dai richiedenti, possa ravvisarsi, come costoro ritengono, la grave situazione locale richiesta dalla legge per il trasferimento del processo, si deve ricordare la giurisprudenza di questa suprema corte sulla valutazione che, in sede di esame della richiesta di rimessione, deve essere fatta delle dichiarazioni o dei comportamenti del p.m..

La giurisprudenza, nel porre in evidenza in quali dati di fatto o situazioni non possa ravvisarsi la grave situazione locale, di cui all'art. 45 c.p.p., ha affermato, quanto ai comportamenti o alle dichiarazioni del p.m., che la temuta parzialità dell'ufficio del p.m. rimane estranea alle possibili turbative al corretto esercizio della giurisdizione, perché l'organo della pubblica accusa nel vigente sistema processuale riveste pur sempre la qualità di parte, con tutte le implicazioni che ciò comporta anche in ordine alle strategie processuali alle quali la sua condotta può essere preordinata, la quale non si sottrae, comunque, al controllo del giudice del processo, sicchè il suo eventuale accanimento nei confronti dell'imputato non ha alcun rilievo.

Anche per Cass., 23 febbraio 1998, B.; l'eventuale possibile condizionamento di natura psicologica del collegio giudicante nei confronti dei pubblici ministeri milanesi, anche in quella occasione il tema era pressoché lo stesso, non ha nulla a che fare con una diffusa situazione ambientale, capace di far venire meno le condizioni di tranquillità e di compostezza che debbono caratterizzare lo svolgimento di ogni processo.

L'orientamento di questo supremo collegio è che gli atti e i comportamenti delle persone che partecipano al processo, essendo estranei alla situazione locale che l'art. 45 c.p.p. prende in considerazione, non possono integrare i presupposti richiesti perché possa disporsi la rimessione.

Non è la prima volta, così ancora questa ordinanza, che questa corte ha ritenuto fuori luogo il richiamo ai presupposti dell'art. 45 c.p.p. quando gli elementi adottati dal richiedente si indirizzino sui titolari degli uffici della procura della Repubblica.

La qualità di parte, sia pure pubblica, del p.m. è stata più volte affermata; ne deriva che la temuta parzialità del p.m., anche quando si manifesti in comportamenti inspirati a conflittualità preconcetta e abnorme, è destinata a rimanere estranea alle possibili turbative al corretto esercizio della giurisdizione (negli stessi termini: Cass., 10 marzo 1997, Cirino Pomicino; 20 dicembre 1995, Vizzini; 20 settembre 1995, Craxi; 5 luglio 1995, Fiandrotti; 7 febbraio 1995, Sgarbi; 13 gennaio 1995, De Rosa; 13 ottobre 1994, Fabbri; 21 aprile 1994, Pahor).

Questa giurisprudenza può, in linea di massima, essere condivisa, non però, sino ad escludere che mai gli atti e i comportamenti del pubblico ministero possano assumere caratteristiche tali da renderli incompatibili con l'essere il pubblico ministero parte, sia pure parte ispirata a conflittualità preconcetta e abnorme.

Secondo queste sezioni unite, quindi, la questione se gli atti e i comportamenti del pubblico ministero, quando censurabili, siano idonei a costituire presupposto per la rimessione del processo va risolta nel senso che gli atti e i comportamenti del pubblico ministero, quando censurabili, sono idonei a costituire presupposto per la rimessione del processo a condizione che essi abbiano pregiudicato la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, ovvero abbiano dato origine a motivi di legittimo sospetto.

Se, nel caso di specie, si accertasse che risponde al vero che la procura della Repubblica di Milano ha subito quella radicale trasformazione, la grave situazione locale sarebbe innegabile.

Se si accertasse, come scrive P. nella prima pagina della richiesta, che non è possibile in questa sede dare conto dell'intero percorso che, nel corso di questo lungo periodo della storia giudiziaria del Paese, ha intrapreso il pool di Milano assurto al rango di organismo politico, in grado, in alcuni momenti drammatici, di condizionare le stesse Istituzioni repubblicane; che non è possibile indicare i numerosissimi deliranti proclami populisti e giustiziasti, veri e propri programmi politici, con i quali esponenti di questo gruppo di magistrati milanesi, hanno afflitto l'intera Nazione che ha dovuto per anni sopportare straripamenti di potere, strappi alle regole, forzature, azioni mirate a tutela di alcuni e a danno di altri, violazioni sistematiche dei principi del giusto processo; se tutto ciò venisse accertato come vero, se, soprattutto, venisse constatato il mutamento di natura della procura milanese da ufficio che esercita obbligatoriamente l'azione penale a organismo politico, non vi sarebbe alcun dubbio che ci si troverebbe dinanzi alla grave situazione locale che è il presupposto per la rimessione del processo.

Ma, ricordando quanto si è puntualizzato in ordine alla situazione locale/territoriale, questi atti e comportamenti del pubblico ministero, per rilevare ai fini della rimessione, debbono avere le caratteristiche di una grave situazione territoriale estranea alla dialettica processuale: solo questa estraneità, questo radicamento della grave situazione nell'ambiente esterno al processo, giustifica la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice inteso questo come l'intero organo giudiziario della sede in cui si svolge il processo.

Ne consegue che, come accade per i provvedimenti endoprocessuali del giudice, le iniziative, le richieste, gli interventi, gli atti endoprocessuali del p.m. possono avere rilevanza ai fini della rimessione solo una volta accertata autonomamente la grave situazione locale, solo una volta accertata, per stare al caso di specie, la trasformazione del ruolo della procura o, al di fuori di caso in esame, solo una volta accertata un evento, in loco, sul territorio, altrettanto abnorme, al quale abbiano dato causa comportamenti o atti del p.m.

Soltanto in questo caso gli atti e le iniziative endoprocessuali del p.m., per un verso avallando, confortando, la accertata sussistenza della grave situazione locale e, per altro verso, concorrendo, anch'essi, a permettere di distinguere se la grave situazione locale sia tale da pregiudicare la libertà di determinazione delle parti o tale da determinare motivi di legittimo sospetto.

Per quanto riguarda tutto ciò che P. e B. affermano essere stato fatto o detto da Borrelli, da quello che, per semplificare, si è chiamato il primo Borrelli, il Borrelli che va dal novembre 1993 al settembre 1997, non può non affermassi che gli atti, i comportamenti, le iniziative di Borrelli, posti in essere in quel lasso di tempo, pur se censurabili o pur se non condivisibili, sono processualmente irrilevanti.

La giurisprudenza di questa suprema, e la migliore dottrina, sono, invero, nel senso che la grave situazione locale, coeva alla fase procedimentale o addirittura anteriore alla stessa, non può avere alcuna incidenza processuale per la decisiva ragione che, in quel momento, il processo da, eventualmente, rimettere, da trasferire, non esiste ancora e, quindi, non può attribuirsi rilievo a situazioni, pur gravi, che, nel momento in cui sono sorte, non avevano possibilità di incidere in un processo, in quel momento, inesistente.

Ed è significativo che la giurisprudenza abbia affermato questo principio proprio in relazione all'attività del pubblico ministero (cfr. Cass., 13 ottobre 1997, Manganaro; 23 gennaio 1995, Di Rosa; 29 ottobre 1994, Cerciello).

E, in ordine all'esame di quegli atteggiamenti od opinioni nella loro storicità, autorevoli voci della dottrina pongono in evidenza che, in linea astratta, non può escludersi che, dopo l'instaurazione del processo a seguito di esercizio dell'azione penale, anche atti o fatti verificatisi nel corso delle indagini preliminari possano venire valutati nella loro dimensione storica, quali sintomi indiretti della grave situazione locale presupposta a fondamento della richiesta di rimessione.

Ciò sta a significare, evidentemente, che quegli atteggiamenti od opinioni, ai fini della rimessione, possono rilevare storicamente, possono essere, cioè, apprezzati come sintomo indiretto della grave situazione locale, se, nel momento del processo, la grave situazione locale si propone o si ripropone, perché, solo in questo caso, ci troveremmo dinanzi ad una grave situazione locale coeva al processo tale da poter incidere negativamente sulla imparzialità del giudice, situazione che potrebbe essere suffragata, avallata, dall'essere stata, storicamente, preceduta da fatti della stessa specie o dello stesso genere o, comunque, da altri fatti, tutti sintomo indiretto di una grave situazione locale, con il limite, storico, di essere stati posti in essere in un momento in cui, per l'inesistenza del processo, erano assolutamente irrilevanti.

Le dichiarazioni e i comportamenti di Borrelli, del primo Borrelli, irrilevanti processualmente perché coevi, non al processo, ma alla fase delle indagini processuali o, in parte, addirittura precedenti, potrebbero valere, quindi, come sintomo indiretto della grave situazione locale se si accertasse che, dopo l'esercizio dell'azione penale, si è verificata una grave situazione, locale- territoriale, della stessa specie o genere o anche della stessa specie o dello stesso genere ad opera dello stesso Borrelli o di altri.

Ciò rinvia, ovviamente, al secondo e al terzo Borrelli e a quant'altro, nel territorio, si ritiene, dai richiedenti, essere segno di una grave situazione locale rilevante ai fini della rimessione e, anticipando le conclusioni, si vedrà che né ikl Borrelli delle concertazioni contra reum, né il Borrelli del resistere, resistere, resistere, né tutto il resto hanno le caratteristiche di quella grave situazione locale esistendo la quale è lecito valorizzare, ad avallo, dati del passato, dati che si collocano storicamente in un momento che li rende processualmente irrilevanti.

Ma, prima di chiudere con quello che le richieste autorizzano definire il primo Borrelli, è opportuno indugiare sull'atto che, stando alla richiesta di P., appare l'atto della procura con maggiore valenza politica, quell'atto, notificato a B. il 21 novembre 1994, che, secondo P., avrebbe avuto, tra l'altro, l'effetto, per le sue modalità, di assestare un colpo mortale al Governo in carica che poco dopo dovette dimettersi.

E, allora, deve ricordarsi che la notifica di quest'atto è stata posta da B. a fondamento di altra, precedente, richiesta di rimessione (Cass., 9 novembre 1995, Cerciello) e che la corte di cassazione, nella relativa ordinanza di rigetto, ha espresso su questa notifica un giudizio che queste sezioni unite non possono non fare proprio data la impeccabilità dello stesso sotto ogni prospettabile profilo e data, dunque, l'impossibilità di considerarlo come causa o, per lo meno, come una delle cause delle dimissioni del Governo di B., dimissioni, peraltro, che vengono ricondotte a quest'atto apoditticamente, senza l'indicazione di alcun pur possibile riscontro.

Deve preliminarmente osservarsi, così la corte di cassazione, che non trattasi di un atto arbitrario o illegittimo, perché l'art. 369 c.p.p. non pone al pubblico ministero altro limite oltre quello della tempestività dell'informazione, rispetto al compimento del primo atto al quale il difensore ha diritto ad assistere.

Indubbiamente, però, la scelta del momento in cui effettuare quella comunicazione, coincidente con l'assunzione da parte del Presidente del Consiglio dei ministri di un incarico così rappresentativo a livello internazionale, può offrire materia di attenta riflessione quanto ai criteri di opportunità che possono averla giustificata; ma, altrettanto incontestabile è che le cautele assunte dalla procura di Milano non riuscirono nell'intento che la loro adozione avrebbe dovuto assicurare: il pubblico ministero non si avvalse della facoltà prevista dal primo comma dell'art. 369 c.p.p., ma utilizzò la polizia giudiziaria, in virtù dei poteri conferitigli dall'art. 151 dello stesso codice e, ciò nonostante, la notizia pervenne alla stampa con solerte tempestività e fu da questa immediatamente pubblicata.

Tutto ciò premesso, non può, però, non rilevarsi che quell'informazione di garanzia rientrava nella funzionale competenza del pubblico ministero ed essa ha ormai esaurito i suoi effetti nella fase delle indagini preliminari; la scelta della sua adozione non è certamente ricollegabile ad una anomala grave situazione ambientale e neppure è estranea alla dinamica fisiologica di un rapporto processuale. (Cass., 9 novembre 1995, Cerciello).

Nel paragrafo concertazione contra reum della sua richiesta, P., per dimostrare la propria tesi sulle ricorrenti riunioni, tra i magistrati milanesi, giudici e pubblici ministeri, indette per studiare la strategia processuale da adottare contro gli imputati, in particolare contro lo stesso P. e B., elenca una serie di date in cui quelle riunioni sarebbero avvenute anche alla presenza di persone, come il dr. G.C., che con gli uffici milanesi non avevano nulla a che vedere.

Uno dei protagonisti, se non il protagonista, di queste riunioni sarebbe stato, ancora una volta, Borrelli e ciò perché queste riunioni si sarebbero tenute, secondo P., poco prima dell'approvazione, da parte del Parlamento, della legge n. 367 del 2001 in tema di rogatorie internazionali, o poco dopo, legge alla cui neutralizzazione Borrelli era interessato, secondo quanto lo stesso Borrelli avrebbe detto in una occasione citata sia nella richiesta di P., sia in quella di B.

Quelle riunioni hanno sortito l'effetto di individuare, secondo P., una linea di interpretazione della legge che ha dato vita ad una serie di decisioni totalmente illegittime perché al di fuori dei limiti delle competenze funzionali del giudice dibattimentale: le sezioni I, II, IV del tribunale, si rileva, hanno adottato, tutte, questa linea interpretativa.

Il decisivo protagonismo di Borrelli, al riguardo, è posto in risalto, come si è appena detto, anche nella richiesta di B., nella quale, dopo essersi ricordato che, stando al quotidiano La Repubblica del 5 ottobre 2001, Borrelli si era espresso, sulla legge in questione, affermando che lo sforzo della magistratura sarà quello di neutralizzare sul piano interpretativo i guasti peggiori che dalla legge sulle rogatorie possono nascere, si legge, a pag. 35, che ecco, quindi, come la uniformità delle decisioni del tribunale di Milano sembra direttamente conseguenza al proclamo di Borrelli.

Borrelli, dunque, secondo le richieste, nel settembre, ottobre, 2001, ha avuto un ruolo fondamentale nella concertazione contra reum, la quale ha avuto come culmine la interpretazione della legge sulle rogatorie adottata dai collegi.

Borrelli, secondo queste ricostruzioni, ha avuto, nella concertazione contra reum, quello stesso ruolo fondamentale che aveva avuto dal novembre 1993 al settembre 1997.

Questa la tesi e quelle che seguono le date in cui le riunioni, con quei fini, si sarebbero verificate.

Alla fine settembre 2001, così la richiesta di P. a pag. 25, i p.m. di Milano hanno tenuto un'assemblea di tre giorni per elaborare un documento comune di attacco al Governo Berlusconi e Borrelli è intervenuto personalmente suggerendo di non citare i processi di B. e di limitarsi a critiche tecniche e generali.

Questo episodio dimostra, prosegue P. che:

a.. in questo periodo sono avvenute riunioni anomale di tipo assembleare tra magistrati milanesi a sfondo parapolitico o metagiudiziario, fatto avvenuto esclusivamente nella sede giudiziaria milanese;

b.. l'intento di Borrelli e di D'Ambrosio è stato quello di evitare che si scoprisse il vero oggetto delle discussioni e degli interventi, mediante una crepitazione con riferimenti a tematiche generali e di pura facciata;

c.. se Borrelli ha sentito l'esigenza di suggerire di non citare i processi di B. e P., ciò significa che, accordi, incontri, intese, concertazione, o discussioni avente tale oggetto dovevano già essere avvenuti o in quello stesso contesto o prima, in altre occasioni.

In un articolo del 5 ottobre 2001 sul Corriere della Sera viene data notizia di un'assemblea tenuta nella procura di Milano avente ad oggetto iniziative di tipo paragiudiziario e la fissazione di un'ulteriore assemblea, nella quale si sarebbero riuniti tutti i magistrati, da tenere il successivo 13 ottobre, di analogo stampo paragiudiziario.

Il Giornale e La Repubblica del 3 ottobre 2001 danno notizia di un'altra riunione del giorno precedente tra magistrati, quindi anche giudicanti, alla quale hanno partecipato Borrelli e D'Ambrosio con l'intervento del Dr. Caselli avente ad oggetto il modo di eludere sul piano interpretativo la legge sulle rogatorie.

IV- Nuova riunione di sostituti di Milano del 4 ottobre 2001 nel corso della quale Borrelli e D'Ambrosio hanno strappato applausi.

E' nel corso di questa riunione che Borrelli si sarebbe espresso dicendo che lo sforzo della magistratura sarà quello di neutralizzare sul piano interpretativi i guasti peggiori che dalla legge sulle rogatorie possono nascere.

Altra riunione e/o assemblea plenaria del 30 ottobre 2001, alla quale hanno partecipato più di 200 p.m. e giudici milanesi riuniti in assemblea straordinaria, con lo scopo di difendere la magistratura dagli attacchi quotidiani del potere politico: l'oggetto generico e criptato lascia, però, trasparire, sia l'anomalia delle riunioni tra giudici e p.m., sia che, certamente, all'ordine del giorno dei lavori assembleari, vi fossero le strategie interpretative da adottare nei processi nei confronti di B. e P.: ulteriore riunione assembleare del giorno 29 novembre 2001, alla quale hanno partecipato, oltre che i giudici e p.m., anche i soliti B. e D. e i giudici dei processi nei confronti di B. e P.

può subito porsi in evidenza rispetto a tutto ciò, e sull'argomento si tornerà in seguito, che la tesi della strategia processuale contro gli imputati, della concertazione contra reum, dimostra tutta la sua fragilità, so potrebbe dire tutta la sua inconsistenza, proprio dinanzi alle ordinanze sulle rogatorie emesse dai due tribunali, ordinanze le cui motivazioni, le cui ragioni, hanno trovato l'avallo di autorevoli voci della dottrina e sono simili a quelle poste a fondamento delle loro ordinanze da pressoché tutti i giudici che si sono interessati della questione e simili, inoltre, a quelle addotte dalla Corte di Cassazione in una recente sentenza, come ha ricordato la IV sezione del tribunale nella sue osservazioni.

Per, saggiare, al di là delle ordinanze sulle rogatorie, la fondatezza della tesi della concertazione contra reum e dell'ulteriore, negativo, ruolo di Borrelli, deve riflettersi, per un verso, sui documentati rilievi che si leggono, rispetto alle date elencate da P. e alle corrispondenti riunioni, nella memoria dei pubblici ministeri, e, per altro verso, sulla risposta che, a quei rilievi, viene data in una memoria di P.

P., osserva la memoria dei pubblici ministeri, cita un'assemblea di tre giorni tenuta dall'ufficio del pubblico ministero a fine settembre per elaborare un documento comune di attacco al governo B; un'assemblea, pare del 4 ottobre, resocontata dal Corriere della Sera del 5 ottobre, sempre della procura di Milano, avente ad oggetto iniziative di tipo paragiudiziario; una nuova riunione il 4 ottobre dei pubblici ministeri.

In effetti, si dice in questa memoria, tutte queste riunioni sono consistite in incontri degli appartenenti all'ufficio del pubblico ministero, a cavallo tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre, e il loro esito è costituito dalla lettera che il procuratore generale e il procuratore della Repubblica hanno inviato al CSM il 5 ottobre 2001; come può testimoniare le missiva, l'oggetto della riunione, alle quali non ha mai partecipato nemmeno un giudice, non consisteva nella elaborazione di un documento di attacco al Governo B.

A questo rilievo è allegato un documento, in data 5 ottobre 2001, di cui passi salienti sono i seguenti: nel corso del dibattito parlamentare intorno al disegno di legge che ratifica l'Accordo italo- svizzero sulle commissioni rogatorie e di notifica di alcuni articoli del codice di procedura penale, in particolare nella fase svoltasi al Senato della Repubblica e a margine della stessa, alcuni parlamentari hanno vantato fra i pregi della novella quello di impedire l'utilizzazione di prove false nella pronuncia di sentenze di condanna, apertamente sebbene genericamente riferendosi a condanne del passato e a procedimenti in atto.

Si è trattato di asserzioni del tutto estranee all'economia delle argomentazioni escogitabili a sostegno di un provvedimento peraltro criticabile e di fatto criticato ampiamente da giuristi e magistrati italiani e stranieri anche, ma non soltanto, per la norma transitoria retroattiva che lo correda.

Esse sono state recepite dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale ordinario di Milano come calunniosamente offensive per un gran numero di loro, oltre che di collegi giudicanti, per l'istituzione giudiziaria, per le Autorità giudiziarie e politiche dei Paese stranieri coinvolte paradossalmente nel sospetto di falsificazione.

In nessuno dei casi, ai quali le impudenti dichiarazioni intendono riferirsi, erano state finora sollevate in sede processuale questioni di in autenticità di documenti, ottenuti attraverso procedure rogatoriali in cui già nelle fasi estere le parti private avevano avuto ampia possibilità di dispiegare le proprie difese, ma non v'è dubbio che tali prese di posizione abbiano recato oggettivamente un danno gravissimo alla credibilità di singoli magistrati, di interi uffici, anzitutto quelli milanesi, e dell'amministrazione della Giustizia.

L'inquietudine provata nelle file dei pubblici ministeri, non soltanto a Milano, rischia di esplodere in manifestazioni di protesta che, condivisibili o meno nella forma, sarebbero pienamente giustificate dall'imperativo di difendere una dignità personale professionale che non deve poter essere impunemente calpestata.

Nelle vesti di procuratore della Repubblica in carica e di procuratore generale della Repubblica di Milano chiediamo formalmente con questa lettera al Consiglio Superiore della Magistratura, tutore supremo dell'indipendenza dell'Ordine Giudiziario, di voler assumere ogni consentita iniziativa per stigmatizzare pubblicamente la incivile, inammissibile violazione di principi di verità e di rispetto istituzionale, commessa in sede politica ai danni della magistratura per finalità di evidente ricaduta su procedimenti in corso. confidiamo che l'Organo di autogoverno voglia altresì accordare tutela della persone, che sono state ingiustamente ferite in occasione e a causa del compimento del loro dovere.

Come si può notarsi, quelle riunioni hanno avuto un determinato scopo, esposto chiaramente nel documento, e il contenuto di quest'ultimo non è davvero interpretabile come attacco al Governo B., ma, semplicemente, come richiesta, legittima, di tutela rivolta al CSM che ne era il destinatario.

Nella memoria di P. si legge che la lettera al CSM conferma i pericoli per l'ordine pubblico essendovi l'accenno espresso a manifestazioni dei p.m. di Milano.

Si può osservare, in primo luogo, che l'espressione manifestazioni di protesta non significa, evidentemente, manifestazioni turbative dell'ordine pubblico, ma indica attività dirette a richiamare l'attenzione della opinione pubblica su una motivazione offensiva addotta a giustificazione di una legge che aveva incontrato numerose, consistenti obiezioni.

Si può rilevare, inoltre, che la correttezza dei pubblici ministeri, che si ritenevano offesi dalle dichiarazioni citate nel documento, stava proprio nel chiedere l'intervento del CSM anche per impedire quelle manifestazioni.

P. aggiunge che il sospetto circa la possibile in autenticità di documenti che sarebbe alla base della legge sulle rogatorie, non riguarda, certo, come si allude insidiosamente nella citata lettera al CSM, la condotta della autorità straniere che invierebbero atti falsi, quanto piuttosto il rischio che nei procedimenti italiani, per le più varie ragioni, compresa, ad es., l'errata o la parziale fotocopiatura di atti, possano avere ingresso, come prove, documenti privi di garanzie di autenticità e, quindi, palesemente inattendibili.

Ebbene, i pubblici ministeri, in quel documento, non hanno affatto dubitato che i documenti, nel processo, debbono essere autentici o immuni da falsità, ma si sono sentiti offesi proprio perché alcuni parlamentari, secondo loro, avevano vantato, tra i pregi della novella, quello di impedire l'utilizzazione di prove false, quasi che i magistrati milanesi, i quali nel documento pongono in evidenza che i parlamentari si erano riferiti apertamente, sebbene genericamente, a condanne del passato e a procedimenti in atto, avessero fatto uso di rogatorie false.

Secondo quei magistrati, infatti, quelle dichiarazioni erano state fatte a margine della discussione, al Senato, della legge sulle commissioni rogatorie.

E questa legge riguarda, oltre che la ratifica dell'Accordo tra Italia e Svizzera del 10 settembre 1998, in tema di assistenza giudiziaria, soltanto le norme sulle rogatorie, come si evince con chiarezza dal relativo testo, le cui modifiche concernono esclusivamente determinati articoli del libro undicesimo, il quale detta la disciplina dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere, del codice di rito e, in particolare, l'art. 696, primo articolo del titolo I, e alcuni articoli del titolo III, capi I e II, che regolano le rogatorie dall'estero e all'estero.

Non v'è alcun dubbio, quindi, che il tema che ha determinato la reazione dei magistrati del p.m. milanesi era il tema dell'uso di rogatorie false e non il tema, in genere, della falsità.

Ma, a prescindere da tutto ciò, il documento, discusso in quelle riunioni, non è stato, di certo, come si diceva, un attacco al Governo B., sicchè Borrelli, in questa riunione, lungi dall'essere stato il suggeritore di uno scritto di attacco al Governo, è stato, se mai, il suggeritore di un documento istituzionalmente irreprensibile.

P., continua la memoria del pubblici ministeri, cita poi un'assemblea del 2 ottobre con pubblici ministeri e giudici e la partecipazione straordinaria di G.C., avente lo scopo di eludere la legge sulle rogatorie.

Il 2 ottobre, prosegue la memoria, si è tenuto un incontro avente ad oggetto l'illustrazione del servizio che Pro Eurojust, organo dell'Unione Europea, può rendere alle A.G. nazionali in tema di coordinamento delle indagini transnazionali, con riferimento alla circolare ministeriale 207631/2001/01.

L'incontro è stato proposto dal Dott. C.-, unico membro italiano di Pro Eurojust, con missiva datata 26 settembre 2001; a tale riunione hanno partecipato, oltre C., esclusivamente appartenenti alla magistratura requirente e in nessun modo sono stati trattati i problemi di interpretazione ed applicazione della legge n. 367/2001.

Alla memoria sono allegati tre documenti.

Il primo è il testo di un fax del 26 settembre 2001, indirizzato dal Dott. C, nella sua qualità di membro di Pro Eurojust, al procuratore generale dott. Saverio Borrelli, nel quale il primo esprime il desiderio di incontrare i magistrati della procura per illustrare il servizio che Pro Eurojust poteva rendere in tema di coordinamento delle indagini transnazionali e nel quale propone, come data di incontro, quella del 2 ottobre 2001, nelle ore pomeridiane, aggiungendo di avere indirizzato la stessa nota anche al procuratore della Repubblica presso il tribunale.

Il secondo è una nota del giorno successivo, del 27 settembre, con la quale Borrelli porta a conoscenza dei magistrati della procura generale la nota di C. invitandoli ad intervenire all'incontro sottolineando che era importante familiarizzare con le prospettive europee della giustizia penale sostanziale e processuale, prendere cognizione dei nuovi strumenti che si profilano all'orizzonte, confidare nella possibilità di migliorarli.

Il terzo è l'elenco dei magistrati cui era indirizzata la nota.

Questi documenti escludono nel modo più assoluto, non sembra possano esservi dubbi, che l'intervento del Dott. C. avesse ad oggetto, come si dice nella richiesta di P., il modo di eludere sul piano interpretativo la legge sulle rogatorie.

P., nella memoria, così replica: non si comprende perché sia stata scelta proprio la sede di Milano per una riunione che sarebbe dovuta avvenire anche in altre sedi giudiziarie, persino più importanti di Milano.

Non è chiaro perché l'oggetto della riunione che avrebbe dovuto essere Eurojust è divenuto invece la legge sulle rogatorie.

Sembrerebbe che a tali riunioni abbiano partecipato anche altri magistrati rispetto a quelli indicati.

In tale riunione, stando almeno ai resoconti giornalistici, il procuratore Borrelli ha annunciato, la disapplicazione generalizza della legge sulle rogatorie.

Infine, questa riunione è avvenuta al di fuori di quelle programmate.

Ma è facile osservare che il dott. C. poteva, evidentemente, scegliere liberatamene da quale procura cominciare quegli incontri, né è dimostrato che si sia parlato di espedienti diretti a non osservare le nuove disposizioni sulle rogatorie.

Va altresì osservato che i magistrati del pubblico ministero, dopo aver negato che in quell'incontro si fosse parlato della legge sulle rogatorie, subito dopo danno una notizia che neppure P. ha dato: informano, infatti, dicendo che il 29 ottobre 2001 si era tenuto un incontro, l'unico, riguardante la legge sulle rogatorie, organizzato dall'ufficio dei referenti per la formazione decentrata dei magistrati promossa dal CSM, allegando la relativa documentazione.

L'onestà intellettuale che i magistrati del p.m., autori della memoria, hanno dimostrato nel dare questa notizia non può non essere apprezzata, e ciò li rende credibili anche quando affermano, nonostante i resoconti giornalistici, che in quella riunione non si era parlato della legge sulle rogatorie, così come sono risultati documentalmente credibili quando hanno negato che nella riunione del 4 ottobre si fosse redatto un documento di attacco al Governo B.

Quanto, poi, ai magistrati che hanno partecipato alla riunione, risulta dalla stessa nota del Dott. C. che erano stati invitati anche i magistrati della nostra Repubblica: si spiega, quindi, perché non abbiano partecipato soltanto i magistrati della procura generale elencati in uno dei tre citati documenti.

Dalla documentazione relativa all'incontro di studio che ha avuto come oggetto la legge sulle rogatorie risulta che, per il 29 ottobre 2001. è stato programmato un incontro per studiare le innovazioni introdotte dalla legge 5 ottobre 2001 in tema di rogatorie internazionali, così come risulta che quell'incontro è stato uno dei sette di pronto intervento sulle novelle legislative svoltisi dal 7 maggio al 29 ottobre 2001, tutti comunicati, come documentato, al CSM

P. nella memoria oppone che: non risulta dalla stessa lettera prodotta che simili interventi siano stati adottati per tutte le leggi di nuova entrata in vigore; non risulta quali siano gli intervalli temporali tra le riunioni di pronto intervento e quelli analoghi per altre leggi, né se tutte queste abbiano effettivamente avuto luogo, mentre, in compenso, la riunione sulla legge n. 367/2001 è stata estesa a tutti i magistrati del distretto; v'è, dunque, la prova della riunione tra giudici e p.m. nel corso della quale il procuratore Borrelli ha impartito la direttiva della disapplicazione della legge prontamente e fedelmente attuata nei processi in corso e, in ogni caso, un incontro di studio su una legge non può essere trasformato in una riunione il cui tema sia la disapplicazione della stessa; nell'elenco delle riunioni decentrate manca proprio la riunione sulle rogatorie con il Dott. C. e il Procuratore Borrelli; la convocazione per la riunione del 29 ottobre 2001, che non risulta firmata, è avvenuta dopo pochi giorni dall'approvazione della legge e nel corso di tale riunione è stato programmato l'intervento della Dott.ssa Boccassini e del Dott. Davigo, attualmente giudice della corte di appello di Milano e, all'epoca in cui sono iniziati i procedimenti oggetto della richiesta di rimessione, sostituto procuratore del tribunale di Milano, esponente di punta del c.d. pool di mani pulite.

Queste proposizioni si prestano ai seguenti rilievi.

E' certo che gli incontri di pronto intervento hanno avuto ad oggetto tutte le novelle legislative intervenute nel 2001: lo si legge nel fax indirizzato dalla Dott.ssa Daniela Borgonovo, dell'Ufficio referenti per la formazione decentrata del distretto di Milano, alla Dott.ssa Ferranti del CSM, fax nel quale si dice anche che il seminario sulla legge in tema di rogatorie internazionali si inserisce nelle iniziative di pronto intervento che abbiamo svolto con riferimento a tutte le novelle legislative intervenute negli ultimi tempi.

La documentazione allegata dai pubblici ministeri permette anche di accertare, per quel che può interessare, quali siano stati gli intervalli temporali tra le riunioni di pronto intervento e quelli analoghi per altre leggi.

Se i sette incontri di pronto intervento erano stati fissati per il 7 maggio, il 7 giugno, il 19 giugno, il 28 giugno, l'11 ottobre, la programmazione degli incontri non di pronto intervento risulta sia dal documento calendario, sia dal documento elenco incontri in materia penale, documenti nei quali si legge che per i mesi di maggio- giugno 2001 era previsto un corso sui temi della contabilità e bilanci delle imprese, per il 24 novembre un incontro sui tribunali di sorveglianza tra vecchie d nuove prospettive, per il 13 novembre un incontro sull'immigrazione clandestina e per il 13 dicembre un incontro sull'esecuzione penale, oltre una serie, numerosa, di incontri destinati alla magistratura onoraria.

Certo, dunque, che tutti gli incontri di pronto intervento hanno avuto luogo, non vi sono ragioni, e non ne vengono indicate, per mettere in dubbio che gli incontri non di pronto intervento non siano stati tenuti.

E' vero che all'incontro per l'esame della legge sulle rogatorie sono stati invitati tutti i magistrati del distretto, giudici e pubblici ministeri.

Ma, è proprio la documentazione offerta dai pubblici ministeri che consente di affermare che l'invito a tutti i magistrati del distretto è stata una costante in tutti gli incontri di pronto intervento.

E' scritto nel fax della Dott.ssa Borgonovo al CSM, ogni seminario è organizzato mediante avviso spedito a tutti i magistrati del distretto, e in tutte le lettere per gli altri incontri, fossero o non fossero di pronto intervento.

A questo punto l'affermazione di P. che, dunque, v'è la prova della riunione tra giudici e p.m. nel corso della quale il procuratore Borrelli ha impartito la direttiva della disapplicazione della legge è una affermazione senza alcun fondamento in fatto e anche lontana dalla logica comune, perché, sul piano squisitamente logico, dall'essere, quell'incontro, un incontro di studio sulla legge sulle rogatorie non ne consegue, quasi si trattasse di una conseguenza logicamente necessaria, deduttiva, già tutta nelle premesse, l'essersi trasformato nella sede in cui Borrelli ha impartito direttive per la disapplicazione della legge sulle rogatorie.

Che, poi, nell'elenco delle riunioni decentrate manchi la riunione con Caselli e Borrelli dipende esclusivamente dal fatto, documentalmente certo, che quest'ultima riunione non è stata programmata od organizzata dall'Ufficio dei referenti per la formazione decentrata, ma i è tenuta su iniziativa di Caselli, come si è gia visto.

Si spiega, inoltre, agevolmente perché la riunione del 29 ottobre sia stata tenuta dopo pochi giorni dall'approvazione della legge.

La legge è stata approvata il 5 ottobre 2001, sarebbe dovuta entrare in vigore, come dispone l'art. 20 della stessa, il giorno successivo a quello della pubblicazione; la pubblicazione è avvenuta l'8 ottobre 2001 e l'art. 18 dispone che quando gli atti sono già stati acquisiti al fascicolo del dibattimento, in ogni stato e grado del giudizio l'eventuale causa di nullità o di inutilizzabilità deve essere rilevata dal giudice o eccepita entro la prima udienza successiva alla data di entrata in vigore della legge.

I magistrati del distretto di Milano, impegnati in processi con rogatorie, avevano, quindi, ben poco tempo a loro disposizione per studiare la legge, sicchè non meraviglia se l'ufficio dei referenti, il quale non può non venire incontro, nei limiti del possibile, alle esigenze professionali dei magistrati, si sia premurato di programmare un incontro, per tutti i magistrati del distretto, a breve termine.

P., dice la memoria dei pubblici ministeri, cita un'altra assemblea, sempre per iniziative paragiudiziarie, tra giudici e pubblici ministeri, annunciata in un articolo del Corriere della Sera del 5 ottobre per il successivo giorno 13: non risulta affatto che il 13 ottobre si sia svolta a Milano alcuna assemblea, mentre in tale data, a Roma, si è svolto un Comitato direttivo centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati.

P. oppone che, nel documento allegato n. 6 alle osservazioni anomale del p.m., che riporta il verbale delle riunioni del Comitato Direttivo Centrale del 13 e 14 ottobre 2001, sono presenti addirittura degli omissis, come se, né le parti, né la stessa Corte di Cassazione, possano avere accesso al contenuto completo del verbale, onde verificare le modalità, i contenuti, i toni e ogni altra circostanza rilevante delle citate riunioni.

Può replicarsi che è certo, anzitutto, e la circostanza non è, oggettivamente, a favore di chi è sicuro dei tempi e dei modi della concertazione contra reum, che il 13 ottobre non v'è stata alcuna riunione di giudici e magistrati milanesi per iniziative paragiudiziarie, ma soltanto una riunione del Comitato Direttivo Centrale dell'A.N.M., ed è anche certo che l'ordine del giorno allegato alla memoria dei pubblici ministeri non consente di sapere quale sia stato l'ordine del giorno di quella riunione.

Ma, al di là del rilievo che il Comitato Direttivo Centrale dell'A.N.M. non aveva ricevuto alcun ordine di svelare l'ordine del giorno, v'è, allegata a quest'ordine del giorno, con l'indicazione omissis, una copia del Corriere della Sera del 15 ottobre 2001, che riporta, tra virgolette, il testo del documento approvato in quella sede.

In questo testo non si parla affatto della legge sulle rogatorie se non in relazione ad un documento dell'Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, critico nei confronti, non della legge, ma del disegno di legge sulle rogatorie e riservato al Ministro, documento che sarebbe uscito dal Ministero determinando, secondo quanto si legge nel quotidiano, la reazione del Ministro, il quale avrebbe indicato come responsabili un gruppo di magistrati.

P., prosegue la memoria dei pubblici ministeri, riferisce poi, di un'altra riunione o assemblea plenaria in data 30 ottobre tra giudici e pubblici ministeri con oggetto specifico e criptato che lasciava, però, trasparire come all'ordine del giorno vi fossero le strategie interpretative da adottare nei confronti di lui e di B.

Ancora una volta, questo il commento, viene riferito un fatto in modo distorto e allusivo di scorrettezze commesse dagli uffici giudiziari milanesi; in realtà il 30 ottobre si è svolta nell'aula magna del tribunale di Milano un'assemblea pubblica dell'Associazione Nazionale Magistrati alla quale è intervenuto anche il Presidente Gennaro e il contenuto di tale assemblea risulta dalla copia dell'articolo allegato.

P., nella sua memoria, nulla replica sul punto.

E', peraltro, sufficiente scorrere la copia del quotidiano La Stampa del 31 ottobre 2001, allegata alla memoria, per cogliere che in quell'assemblea si è parlato, alla presenza del Presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, dei problemi che la magistratura sentiva, in quel momento, a torto o a ragione, come suoi problemi; ma, nulla permette di dire che, come si legge nella memoria di P., certamente all'ordine del giorno dei lavori assembleari v'erano le strategie interpretative da adottare nei processi nei confronti dei B. e di P.

V'è, sì, in questo resoconto giornalistico, un cenno alla legge sulle rogatorie, ma solo per sottolineare che in quella assemblea si era parlato anche di annunciate ispezioni del Ministro Castelli ai magistrati che non avessero applicato, stravolgendola, la legge sulle rogatorie, il che, ancora una volta, non significa minimamente che all'ordine del giorno dei lavori vi fossero le strategie interpretative da adottare nei confronti di B. e P.

Sicuramente, continua la memoria, la rappresentazione più grave che viene descritta dall'imputato P. nella richiesta di rimessone è quella che si legge a pag. 29: ulteriore riunione assembleare del giorno 29 novembre 2001 alla quale hanno partecipato oltre che i giudici e p.m., anche i soliti Borrelli e D'Ambrosio ed i giudici dei processi nei confronti di B. e P.

Tali affermazioni, dicono i pubblici ministeri, sono gravemente calunniose e completamente false ed è singolare che P., per dimostrare il verificarsi e il contenuto dell'assemblea, abbia allegato un articolo di stampa che dà conto di altri fatti verificatisi addirittura il 29 settembre 2001.

In realtà il 29 novembre si è svolta in tutta Italia un'astensione simbolica dal lavoro da parte dei magistrati, consistita nell'interrompere l'attività per quindici minuti, riunirsi in assemblea, dare lettura di un comunicato, uguale per tutte le sedi d'Italia, stilato dall'Associazione Nazionale Magistrati.

La manifestazione è avvenuta contemporaneamente, e con le stesse modalità, in tutta Italia, con grande partecipazione dei magistrati (secondo il Corriere della Sera a Roma nove magistrati su dieci hanno aderito all'iniziativa).

Alla memoria sono allegati tre scritti, il primo dei quali è una comunicazione della sezione distrettuale di Milano dell'Associazione Nazionale Magistrati indirizzato a tutti i colleghi del Distretto.

Il contenuto di questa comunicazione, viene riportato perché P. nella memoria vi fa riferimento, è il seguente: Come è noto la giunta esecutiva centrale della A.N.M., in applicazione del deliberato della assemblea del 10 novembre u.s., ha indicato, come prima delle forme di agitazione, quella della sospensione simbolica dalle attività il giorno 29 p.v.

I componenti della giunta distrettuale hanno, concordemente, convenuto:

a.. di effettuare la sospensione per 15 minuti, dalle ore 12, con conseguente riunione di tutti i magistrati nell'aula magna dove verrà data lettura del documento predisposto dalla A.N.M. e successiva ripresa delle normali attività;

b.. di invitare tutti i magistrati ad apporre sulla porta dei propri uffici il comunicato relativo alla sospensione;

c.. di indire l'assemblea aperta alla stampa, all'avvocatura e al pubblico.

Occorre sottolineare che è importante che partecipi il maggior numero di magistrati al fine di dare risalto alla iniziativa e dimostrare la compattezza della categoria.

Il comunicato, di cui si parla in questo scritto, diceva che si comunica che l'attività giudiziaria sarà sospesa dalle ore 12 alle ore 12,15 del giorno 29 novembre 2001 in applicazione della delibera del Comitato Direttivo Centrale della Associazione Nazionale Magistrati che ha indetto una simbolica manifestazione per rendere pubblica la situazione di disagio in cui la magistratura opera in conseguenza di scelte legislative e di politica giudiziaria nonché per gli attacchi umilianti diretti contro i singoli ed offensivi per l'intero ordine giudiziario.

P., nella memoria, così risponde: il documento, prodotto in all. 8 alle osservazioni del p.m., dell'associazione dei magistrati di Milano è agghiacciante: si invita esplicitamente alla manifestazione di massa e compatta di tutti i colleghi del distretto, alla propalazione alla stampa e alla partecipazione di tutti i magistrati, che sono invitati:ad apporre sulla porta dei propri uffici il comunicato relativo alla sospensione (nel quale, a carattere cubitali, si parla espressamente di una manifestazione organizzata per rendere pubblica la situazione di disagio in cui la magistratura opera in conseguenza di scelte legislative e di politica giudiziaria nonché per gli attacchi umilianti diretti contro singoli ed offensivi per l'intero ordine giudiziario) e ad indire l'assemblea aperta alla stampa, all'avvocatura e al pubblico.

In conclusione del volantino si sottolinea che: è importante che partecipi il maggior numero al fine di dare risalto alla iniziativa e dimostrare la compattezza della categoria.

Non sembra si presti ad essere definita agghiacciante una manifestazione indetta da una organizzazione professionale solo perché, l'organizzazione, credendo nelle proprie iniziative, chiede agli iscritti di partecipare alla manifestazione, o assemblea, in modo massiccio.

E', inoltre, proprio di queste organizzazioni, è norma di comune esperienza, fare in modo che la notizia e le ragioni della propria iniziativa raggiungano i mezzi di comunicazione.

E' proprio, poi, di ogni organizzazione ritenere, a ragione o torto, di dovere esprimere il proprio disagio in occasione di determinate scelte legislative e a questa regola non sfugge la magistratura associata che, in quel momento, poteva essere convinta, e si può discutere, di nuovo, se a ragione o torto, che determinate scelte legislative o di politica giudiziaria fossero fonte di disagio e che vi fossero stati attacchi umilianti diretti contro i singoli ed offensivi per l'ordine giudiziario.

E' superfluo, inoltre, notare che l'affissione del comunicato sulle porte degli uffici costituiva anche notizia della sospensione del lavoro, con la indicazione delle ragioni, per coloro che si fossero dovuti recare, in quei quindici minuti, dal magistrato.

Se questi rilievi hanno una loro ragionevolezza, e la hanno, non può certo affermarsi, come si afferma, concludendo, nella memoria di P., che l'avere indetto l'Associazione Nazionale Magistrati una assemblea, contenuta nel tempo, per determinate, anche se non da tutti condivisibili, ragioni, l'essere stati invitati all'assemblea tutti i magistrati del distretto di Milano, l'essere stati invitati tutti i Magistrati ad apporre sulla porta un certo avviso ad aprire l'assemblea alla stampa, significhi totale conferma di quanto denunciato in sede di richiesta di rimessione e il pieno riscontro degli elementi di prova allegati a sostegno della stessa.

Che una manifestazione sindacale indetta, in quel momento, con le stesse modalità, con lo stesso contenuto, in tutto il Paese, il che già farebbe escludere essersi trattato di una situazione di carattere locale, confermi quanto denunciato in sede di richiesta di rimessione, nel senso che P. dà questa affermazione, è tesi ictu oculi insostenibile.

Se nelle richieste di rimessione il punto nodale, l'epicentro della grave situazione locale, è la trasformazione della procura, da parte di Borrelli, in organismo politico, come sostiene P. sin dalla prima pagina della sua richiesta; e se una delle prove di questa trasformazione, la prova principe, è la concertazione contra reum culminata nella ordinanze sulle rogatorie, appare, veramente, logicamente impossibile un raccordo tra una legittima manifestazione professionale sindacale e quel retroterra, non potendo avere quella manifestazione, proprio per il suo carattere nazionale, alcun collegamento con una grave situazione locale che, secondo i richiedenti, è fatta di prevaricazioni, di abusi, di iniziative, non poche delle quali, così come descritte e ritenute, ben oltre la legalità.

Concludendo sul punto, non può non affermarsi che, sinora, la prova della concertazione contro reum è completamente mancata; è completamente mancata la prova che Borrelli abbia creato una grave situazione locale ergendosi a stratega di un progetto di attacco, sul piano processuale, contro gli imputati che avrebbe raggiunto il vertice nelle ordinanze sulle rogatorie.

Si sono esaminate le contrapposte ragioni e si è visto che non una soltanto delle affermazioni di P. su questa concertazione contra reum ha retto ad un necessariamente severo, ma sereno, vaglio critico.

E la riprova di tutto ciò, della inesistenza della concertazione contra reum è offerta, come si è già avuto occasione di dire, proprio da quello che, nella logica delle richieste, costituirebbe, insieme, la prova e l'esito della concertazione, la pronuncia delle ordinanze sulle rogatorie.

La IV Sezione del Tribunale, nella propria ordinanza, e la I sezione si muove nella stessa direzione, si pone il problema della questione relativa alla dedotta violazione dell'art. 3, comma 3, della Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria per difetto del timbro di conformità sugli atti acquisiti, il che vuol dire che le parti si erano chiesto, dando divergenti risposte, se fosse necessario o meno, ai fini della utilizzabilità delle rogatorie, un timbro di conformità sugli atti acquisiti, cioè un timbro su ciascuno degli atti acquisiti.

Il tribunale dà atto, anzitutto, nella sua risposta, che la procura della Repubblica ha depositato una nota proveniente dall'Ufficio federale della Giustizia della Confederazione Elvetica in data 18 ottobre 2001; spiega che trattasi di documento trasmesso per il tramite del Ministero della Giustizia italiana e che trova la sua ovvia ragione d'essere nella richiesta di chiarimenti, a seguito dell'entrata in vigore della L, 367/2001, circa l'esecuzione delle rogatorie a suo tempo richieste nell'ambito di questo come di altri procedimenti tuttora pendenti.

Aggiunge che in tale atto le autorità elvetiche, tra l'altro, affermano: l'autorità federale competente per la trasmissione della documentazione, ufficio federale di giustizia, ha trasmesso la documentazione conformemente alla CEAG, segnatamente in ossequio degli artt. 2, 3 e 17, come altresì dalla prassi ormai consolidata tra gli Stati parte della CEAG; la trasmissione della documentazione all'Italia è avvenuta nell'identica forma con la quale vengono trasmessi gli atti rogatoriali della Svizzera agli altri Stati parte della CEAG e viceversa; a più di trent'anni dalla ratifica della CEAG e da più di vent'anni di giurisprudenza nazionale ed altrettanti di prassi internazionale, ormai a valore stringente nei rapporti con gli Stati parte della CEAG, è la prima volta che un simile quesito è posto alle autorità elvetiche.

Con ulteriore nota datata 2 novembre 2001, nota ancora il tribunale, l'ufficio federale di Giustizia della Confederazione elvetica ribadiva, con riferimento a qualunque attività rogatorie, dette argomentazioni.

Il tribunale, dopo avere dato atto, e riportato, questi due documenti provenienti dalla Confederazione elvetica, segue un percorso logico-giuridico che può così riassumersi:

a.. v'è una prassi internazionale per cui gli Stati parte della CEAG hanno sempre ritenuto che, nella trasmissione degli atti richiesti con rogatoria, non è necessaria nessuna specifica attestazione di conformità, essendo sufficiente una lettera di accompagnamento con la quale l'autorità straniera, in esecuzione della richiesta, trasmette gli atti attestando la corrispondenza di quanto trasmesso a quanto richiesto;

b.. è del tutto identica la situazione con riferimento alla notevole mole di documentazione acquisita per via rogatoriale nell'ambito di questo processo e proveniente da diversi Stati membri per la maggior parte della Confederazione elvetica;

c.. questa prassi ha un innegabile valore giuridico come emerge dall'art. 31, comma 3, della Convenzione di Vienna del 1969, ratificata in Italia, sul diritto dei trattati e come le SS.UU. civili della corte di cassazione hanno affermato, e già in precedenza si erano espresse pressoché negli stessi termini, nel 1992.

P., nella sua richiesta, nel paragrafo ulteriori prove e risultati della concertazione contra reum, dopo aver ribadito, pag. 30, che i magistrati di Milano, p.m. e giudici, si sono riuniti in gruppo, più volte, pre decidere, collettivamente, la condotta da adottare nei processi contro il sottoscritto in relazione alla legge n. 367 del 2001 in tema di rogatorie internazionali, e che a tali riunioni ha partecipato il dott. Borrelli, il quale aveva poco prima annunciato, pubblicamente, sulla stampa nazionale, che la legge sulle rogatorie sarebbe stata neutralizzata, fa delle considerazioni che si prestano alla seguente sintesi:

a.. i tribunali hanno disapplicato la legge con argomentazioni capziose e sofistiche:

b.. è inesistente una prassi internazionale consolidata di violazione costante dell'art.. 3 della Convenzione europea da parte della Svizzera: questa prassi, se esistesse, sarebbe palesemente contra legem e, quindi, non inidonea ad essere fonte normativa addirittura sopraordinata alla Convenzione europea e alla legge n. 367/2001;

c.. la spedizione alla procura di Milano delle fotocopie non può sostituire la certificazione di autenticità delle fotocopie informalmente acquisite; una ricevuta di spedizione non può attestare che i documenti spediti sono conformi agli originali.

Una prima osservazione è che queste censure nulla di specifico oppongono alle ragioni addotte dal tribunale a sostegno della affermazione dell'esistenza di una determinata interpretazione data concordemente dalle parti alla Convenzione Europea di Assistenza giudiziaria.

Non v'è, in particolare, in esse nulla che contesti l'affermazione che l'Ufficio Federale della Giustizia della Confederazione elvetica si è richiamato espressamente ad una prassi trentennale; nulla che replichi all'affermazione che il p.m. aveva prodotto copie di numerosi esiti di attività rogatoriali in altri procedimenti provenienti da diverse autorità di Stati membri, documentazione senza alcuna attestazione di conformità, ma, tutta, con lettera di accompagnamento con la quale l'autorità straniera, in esecuzione della richiesta, trasmette gli atti attestando la corrispondenza di quanto trasmesso a quanto richiesto.

Nulla, ancora, contro l'ulteriore affermazione che è del tutto identica la situazione con riferimento alla notevole mole di documentazione acquisita per via rogatoriale nell'ambito di questo processo e proveniente da diversi Stati membri, per la maggior parte dalla Confederazione elvetica.

Nulla, poi, sul tema della legittimità della prassi, nessuna argomentazione contraria, cioè, alle riflessioni dell'ordinanza sulle norme della Convenzione di Vienna del 1969 relativa al diritto dei Trattati, nel cui alrt 31, comma 3, la prassi è esplicitamente richiamata, e nulla, infine , sempre sulla legittimità, avverso i principi, fatti propri dall'ordinanza, affermati dalla giurisprudenza delle ss.uu. civili.

Ma, a prescindere da ciò, se pi pubblici ministeri nella loro memoria rilevano, tra l'altro, che la VI sezione della corte di appello di Milano, con ordinanza del 20 novembre 2001, allegata, si era pronunciata come i collegi milanesi, e i pubblici ministeri hanno avuto anche cura di far pervenire, successivamente, una ulteriore ordinanza, negli stessi termini, del tribunale di Bari in data 20 febbraio 2002, la IV sezione del tribunale, nelle osservazioni ritenute irritali dai richiedenti pervenute il 20 novembre 2002, ha citato, a conforto della tesi sostenuta nella propria ordinanza, la sentenza della corte di cassazione in data 16 ottobre/8 novembre 2002, oltre che l'ordinanza della Corte Costituzionale n. 315 del 4 luglio 2002.

Orbene, è innegabile, come si sostiene in quelle osservazioni, che la corte di cassazione, nel porsi il problema trattato dal tribunale nell'ordinanza, sia pervenuta ad identiche conclusioni percorrendo, sostanzialmente, lo stesso iter logico-giuridico.

In tema di rogatoria internazionale all'estero, così la massima che ne è stata ricavata, l'art. 3, comma 3, della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, non impone allo Stato richiesto una prescrizione a carattere cogente di trasmettere copie o fotocopie dei fascicoli o documenti, richiesti per rogatoria, muniti dell'attestazione di conformità all'originale, di trasmettere solo copie o fotocopie autenticate.

Ne consegue, che salvo il caso in cui lo Stato rogante richieda espressamente la trasmissione di atti o documenti in originale, è sufficiente, come si desume dalle prassi consolidata in materia, l'atto formale di trasmissione dell'autorità straniera per garantire l'autenticità e la conformità degli atti trasmessi in semplice fotocopia.

Il testo della sentenza, è opportuno porlo in evidenza, è assolutamente nei termini riassunti dalla massima, avendo scritto, tra l'altro, la corte di cassazione che generale principio di interpretazione della clausola dei trattati internazionali è quello fissato dall'articolo 31, comma 3, del Trattato di Vienna 21 marzo 1986 che privilegia la consuetudine internazionale quale fonte primaria di diritto internazionale, sicchè nella materia in esame non può prescindersi dalla prassi consolidata secondo cui, salvo l'ipotesi in cui lo Stato rogante richieda atti e documenti in originale, lo Stato richiesto li trasmette in semplice fotocopia, essendo sufficiente l'atto formale di trasmissione per conferire loro garanzia di autenticità e conformità all'originale.

La nota alla sentenza, condividendola, rileva, sul punto, che la corte di cassazione è incorsa in una imprecisione, avendo citato la Convenzione di Vienna del 1986, la quale disciplina i trattati tra Stati ed Organizzazioni internazionali, mentre avrebbe dovuto citare la Convenzione di Vienna del 1969 che è quella citata dai tribunali.

La nota, però, si affretta ad aggiungere che l'imprecisione è del tutto irrilevante, in quanto gli articoli 31-33 della Convenzione del 1986, richiamati dalla corte, dettano norme imperative del tutto simili a quelle previste dalla Convenzione del 1969 sul diritto dei Trattati tra Stati.

E, per quanto riguarda l'ordinanza della Corte Costituzionale, antecedente alla sentenza della corte di cassazione, è da ricordare che il tribunale di Roma, con ordinanza del 7 novembre 2001, aveva avanzato dubbi sulla legittimità costituzionale di dette norme e, quindi, del regime della inutilizzabilità degli atti, per contrasto con la consuetudine internazionale interpretativa dell'art. 3 della Convenzione di Strasburgo del 1959 e con i canoni della ragionevolezza e della ragionevole durata del giusto processo.

E la Corte Costituzionale, con una sintetica e chiara ordinanza, come si mette in risalto nella nota appena ricordata, ha dichiarato la questione inammissibile, non avendo il giudice a quo verificato, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale, se potessero adottarsi differenti interpretazioni delle norme censurate, già emerse nella giurisprudenza di merito, le quali fossero in grado di risolvere la questione interpretativa.

Il riferimento alle pronunce del Tribunale di Milano, si osserva in quella nota, appare evidente e, quindi, è evidente l'invito a valutare la prevalenza e diretta applicabilità delle norme delle Convenzioni internazionali, considerando le disposizioni del codice suppletive ed, in ogni caso, operante, la sanzione della inutilizzabilità, solo in caso di violazione delle Convenzioni, secondo la loro prassi interpretativa.

La nota prosegue dicendo che in questo alveo si è mossa la Cassazione con la sentenza in commento valorizzando un'interpretazione della Convenzione di Strasburgo del 1959 in modo da evitare appesantimenti formalistici.

Poco prima si era anche scritto, in questa nota, dopo una articolata premessa sui principi che regolano l'applicazione delle norme di diritto internazionale, che appariva opportuno, a quel punto, fare un cenno alla giurisprudenza di legittimità e di merito che si è maturata nella vigenza della nuova normativa sulle rogatorie, segnalando che tutte le pronunce, partendo dalla valutazione della prevalenza del diritto internazionale su quello interno, valorizzano la snellezza delle forme prevista dalla prassi internazionale, piuttosto che il formalismo del nostro codice di rito.

In questo contesto, è davvero difficile affermare, come si fa nella richiesta di P., che le ordinanze dei tribunali sono capziose e sofistiche, che la prassi è inesistente e che, se esiste, è contra legem.

Non è questa, ovviamente, la sede per esaminare la legittimità di quelle ordinanze.

Questa è la sede, però, in cui deve affermarsi che, contrariamente a quanto si sostiene nelle richieste, quelle ordinanze non sono fuori del sistema, non sono abnormi, tanto da farle ritenere l'effetto, il frutto, di una concertazione contra reum, trattandosi, invece, di ordinanze che hanno sposato una delle possibili interpretazioni della legge, conforme, peraltro, alla interpretazione datane da altri, tutti, secondo quella nota, i giudici di merito e dalla corte di cassazione e non contraddetta dalla Corte Costituzionale nel suo esplicito richiamo alle interpretazioni già emerse nella giurisprudenza di merito.

P., pag. 22 della memoria depositata il 18 gennaio 2003, risponde alle osservazioni del tribunale in questi termini.

La sentenza della Corte di Cassazione è richiamata dal tribunale a sproposito, perché, in quella sentenza, la Corte di Cassazione ha chiarito che è l'atto formale di trasmissione di atti dell'autorità straniera all'autorità richiedente, inesistente nella realtà processuale milanese ben nota al tribunale, ad essere prescritto, dalla legge, a pena di inutilizzabilità di quanto trasmesso.è quell'atto formale il mezzo prescritto dal legislatore per la autenticazione e la certificazione di conformità ai documenti originali di quanto, altrimenti, sarebbe inutilizzabile, al pari di qualsivoglia altra semplice fotocopia.

E' l'atto formale di trasmissione, che contenga l''autenticazione e cioè la conformità rispetto all'originale della copia trasmesso per via rogatoriale, ad evitare l'appesantimento formalistico dell'autenticazione atto per atto, pagina per pagina, mediante timbro di autenticità apposto ad ogni pagine dei documenti trasmessi.

Questi rilievi si prestano a più di qualche considerazione.

Si dice nella memoria che, secondo la Corte di Cassazione, è l'atto formale di trasmissione quello prescritto a pena di inutilizzabilità, necessario per la regolarità e la conformità a legge della procedura, essendo quello il mezzo prescritto dal legislatore per la autenticazione e la certificazione di conformità ai documenti originali di quanto, altrimenti, sarebbe inutilizzabile, al parti di qualsivoglia altra semplice fotocopia.

Nelle ordinanze e nella sentenza della Corte di Cassazione si dice, però, anzitutto e con chiarezza, che non è il legislatore italiano, come pare affermi il richiedente, che prescrive quell'atto formale di trasmissione, ma è la prassi internazionale, la concorde interpretazione della Convenzione da parte degli Stati che l'hanno sottoscritta, che ha ritenuto che gli artt. 3, comma 3, e l'art. 17 della Convenzione di Vienna del 1969 andassero letti stimando sufficiente l'atto formale di trasmissione ai fini della autenticità e conformità degli atti trasmessi e nella richiesta di P., invece, è proprio quella prassi che viene ritenuta inesistente e, se esistente, contra legem.

Va chiarito, in secondo luogo, che, secondo la Corte di Cassazione, non si esige che l'atto formale di trasmissione contenga , come si ritiene nella memoria, l'autenticazione, cioè l'attestazione di conformità rispetto all'originale della copia dell'atto trasmesso, con la conseguenza che l'assenza di attestazione contenuta nell'atto formale di trasmissione comporterebbe, in maniera irrimediabile, l'inutilizzazione della documentazione trasmessa.

E', invece, sufficiente, secondo la Corte di Cassazione, l'atto formale di trasmissione dell'autorità straniera per garantire l'autenticità e la conformità degli atti trasmessi in semplice fotocopia ed è questo ciò che hanno affermato, sul punto, i tribunale nei processi di cui si chiede la rimessione.

Nella ordinanza della IV Sezione si legge, infatti che dalla documentazione, numerosa, in tema di rogatorie, prodotta dal p.m., si evince come non vi sia alcuna specifica attestazione di conformità, ma lettera di accompagnamento con la quale l'autorità straniera, in esecuzione della richiesta, trasmette gli atti attestando la conformità di quanto trasmesso a quanto richiesto.

Quindi, giova ripeterlo, non specifica autenticazione, attestazione di conformità rispetto all'originale della copia dell'atto trasmesso, ma, semplicemente, appunto, l'attestazione che quanto trasmesso corrisponde a quanto richiesto, attestazione che vale a garantire l'autenticità e la conformità e che è conseguente assunzione di responsabilità.

Il tribunale afferma, anche, e ripetutamente, che le rogatorie agli atti contenevano, contengono, tutte, l'atto formale di trasmissione.

L'ordinanza si premura di puntualizzare che, nelle rogatorie trasmesse dalla Confederazione elvetica, il funzionario che ha provveduto alla trasmissione è stato, nella maggior parte dei casi, lo stesso Procuratore Federale della Confederazione.

E aggiunge, subito dopo, sia che in tuta la notevole mole di atti provenienti da altri paese e già acquisiti al presente procedimento o prodotti della procura in occasione della discussione della problematica che qui interessa (atti provenienti dalla Svizzera , dalla Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Lussemburgo) v'era la conferma di quella prassi, sia che nessuno dei documenti trasmessi, quindi anche dei documenti acquisiti al presente procedimento, reca una specifica attestazione di conformità su ciascuno dei documenti, ed era questo il tema in discussione, sia, e soprattutto, che tutti, e, dunque, anche i documenti attinenti ai processi in corso, risultano supportati da lettera di accompagnamento mediante la quale l'autorità richiesta formalizza la sua assunzione di responsabilità circa la corrispondenza tra quanto richiesto e quanto trasmesso.

Per i tribunali, dunque, ciò che si sta dicendo vale per entrambe le ordinanze sulle rogatorie, l'esistenza dell'atto formale di trasmissione è fuori discussione, cosa, invece, che abbandonata, a quanto pare, la tesi della inesistenza della prassi, si nega nella memoria di P.

Ma, non può non convenirsi, a questo punto, che la questione, come proposta nella memoria, non è più una quaestio iuris, una questione che abbia a che fare con la interpretazione della legge, ma, semplicemente, una pura quaestio facti, che consiste, anzitutto, nell'accertare se v'è stato o non v'è stato un atto formale di trasmissione nel senso sopra evidenziato e, in secondo luogo, se l'atto, eventualmente trasmesso, possa essere interpretato come l'atto formale sufficiente per garantire l'autenticità e la conformità degli atti trasmessi, atto, peraltro, che, secondo l'ordinanza del tribunale, come si è visto, è incontestabile che vi sia, e con quel contenuto, per tutte le rogatorie.

Se questa è la questione, se tutto si riduce ad una quaestio facti, ci si deve chiedere, però, se la concertazione contra reum, la volontà di neutralizzare, secondo l'espressione attribuita a Borrelli, la legge sulle rogatorie, potesse mai avere per scopo una semplice questione di fatto, se potesse mai essere concertazione per la interpretazione di un atto.

Se, in altri termini, la questione è un mero problema di fatto, la censura, propria della richiesta di P., di aver voluto i giudici disapplicare la legge, di averle voluto attribuire un significato che la legge non poteva assolutamente avere, è una censura manifestamente infondata.

Le due ordinanze, le ordinanze degli atri giudici di merito che si sono espressi su questa legge, la sentenza della Corte di Cassazione e l'ordinanza della Corte Costituzionale hanno seguito, tutte, lo stesso percorso giuridico, privo, ovviamente, come ogni percorso giuridico, del crisma della definitività dogmatica, della verità assoluta, incontrovertibile, ma tutt'altro che insostenibile, tutt'altro che manifestamente illegittimo.

Tutte quelle riunioni, dunque, dato e assolutamente non concesso che abbiano avuto ad oggetto la interpretazione della legge sulle rogatorie, avrebbero dato vita ad una interpretazione della legge conforme alla migliore giurisprudenza, il che esclude, categoricamente, sul piano logico, che possa trovare spazio la tesi della concertazione contro reum e consente di ribadire ciò che si è detto nell'iniziare a trattare questo argomento, cioè che le due ordinanze sono la migliore prova della inesistenza della concertazione contra reum.

Prima di prestare la dovuta attenzione alla relazione tenuta da Borrelli, quale procuratore generale presso la corte di appello di Milano, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, 12 gennaio 2002, è opportuno fare una riflessione su quanto sinora acquisito.

Se è vero che gli interventi, le dichiarazioni, gli atti di Borrelli dalla fine del 1993 al settembre 1997 sono irrilevanti, oltre che per motivi tecnico- giuridici, per essere stati posti in essere nella fase procedimentale, anche perché, si pensi alla notifica del 21 novembre 1994, atto emblematico secondo P., del tutto privi del significato che debbono avere i fatti per poter essere ritenuti manifestazione della grave situazione locale; se è vero, poi, che gli interventi, le iniziative, le affermazioni di Borrelli coincidenti con la fase processuale e, quindi, astrattamente rilevanti, si sono rilevati, in sede critica, inesistenti: si pensi alla tesi della concertazione contra reum, alle riunioni e al significato ad esse attribuito da P. e si pensi, soprattutto, al tema delle rogatorie; se tutto ciò è vero, deve affermarsi che, almeno sino a questo momento, la grave situazione locale richiesta dalla legge per la traslatio iudicii è risultata del tutto inesistente.

Sul valore delle esternazioni dei procuratori generali è opportuno ricordare quanto la giurisprudenza di questa suprema corte ha già avuto occasione di affermare.

Per Cass., 26 ottobre 1995, Gullotti: le pubbliche esternazioni fatte dal procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Messina in sede di propulsione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, il cui tenore è concordante con quanto versato in processo dall'accusa pubblica, rimangono mere opinioni, pur se autorevoli.

Nel vigente sistema processuale, infatti, il p.m., in tutte le sue configurazioni ordinamentali, riveste pur sempre la qualità di parte, con tutte le implicazioni che ciò comporta in ordine alle sue valutazioni extraprocessuali, che, per quanto concerne i giudici, togati o laici, rimangono affermazioni non valutabili nel giudizio, sia per il luogo che per la fonte da cui provengono, e di nessuna valenza cogente per l'assoluta indipendenza e non interferenza dei medesimi dal procuratore generale e dalle funzioni a costui attribuite dall'ordinamento, del tutto estranee alla giurisdizione.

Mentre, per quanto riguarda la persona fisica del p.m. d'udienza non hanno alcun valore cogente, per le sue determinazioni in detta sede, atteso che il p.m. d'udienza, art. 53, comma 1, c.p.p. e 70, comma 4, R.D. 30 gennaio 1941 n.12, così come sostituito dall'art. 20 D.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, esercita autonomamente le sue funzioni nelle udienze ed è soggettivamente titolare della funzioni di p.m., quale designato dal capo dell'ufficio della procura e non più tramite di costui, come era previsto dal sostituito art. 70 dell'ordinamento giudiziario, nello svolgimento delle predette funzioni.

Per Cass., 17 marzo 2000, Panella: è manifestamente infondata la richiesta di rimessione basata sulla prospettazione del mero timore di condizionamenti psicologici dell'organo giudicante in assenza di una qualsiasi grave situazione locale, radicata sul territorio e al di fuori dell'ambito processuale, idonea a turbare lo svolgimento del processo, anche.. in relazione a dichiarazioni provenienti da ufficio non titolare dell'azione penale ed, in ogni caso, espressione di una parte processuale, le cui opinioni e i cui atteggiamenti non si sottraggono al vaglio giudiziale né possono alterare l'imparzialità del giudicante e la serenità del giudizio (C.d.R. Anche, Cass., 13 ottobre 1997, Manganaro).

I principi affermati in queste ordinanze sono in equivoci: le esternazioni del procuratore generale in sede di relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario sono irrilevanti sia per i giudici, sia per i pubblici ministeri; le esternazioni del procuratore generale in quella sede non autorizzano la prospettazione di un mero timore di condizionamenti psicologici dell'organo giudicante in assenza di una grave situazione locale radicata sul territorio e al di fuori dell'ambito processuale.

Si potrebbe già osservare, allora, che Borrelli, nell'affermare, come pone in risalto la richiesta di B., che un moderno codice deontologico dovrebbe sanzionare come oltraggio alla giustizia ogni esercizio di diritto all'interno del processo, che abbia come unico scopo quello di nuocere o recare ritardo al processo stesso e renderne irragionevole la durata, aggiungendo che si asteneva dal citare gli esempi, più clamorosi, offerti da esperienze in corso, altro non ha fatto che esprimere sue opinioni, condivisibili o non condivisibili, opportune o inopportune, ma, pur sempre opinioni personali, destinate al vaglio critico dei destinatari e, comunque, ininfluenti sui giudici, per l'assoluta indipendenza di costoro dal procuratore generale.

E gli stessi rilievi valgono per il giudizio di Borrelli nei riguardi del Ministro della Giustizia per la vicenda Brambilla (e che dire poi del recente, soccorrevole tentativo di sabotaggio di un processo, proveniente addirittura dall'esterno, da un elevato livello esterno, sotto l'ingannevole specie dello scrupolo legalitario?), trattandosi, ancora una volta, di un giudizio discutibile, dotato di scarsa persuasività, in considerazione del momento, della sede e della fonte, peraltro non aliena alle eclatanti manifestazioni del suo pensiero.

Le stesse considerazioni, inoltre, si possono fare quanto ai giudizi sui procedimenti nei confronti delle associazioni mafiose, procedimenti che, secondo Borrelli, avrebbero avuto un calo non perché quelle associazioni sono state debellate, ma per tutta un'altra serie di ragioni, quale, tra le altre, l'atteggiamento genericamente sfavorevole di ampi settori della classe politica.

Queste considerazioni, infine, possono essere ripetute per i giudizi di Borrelli sulla separazione delle carriere dei magistrati, sul pericolo che il p.m. sia vincolato all'esecutivo, sulla legge sulle rogatorie e sulla riduzione della scorta a magistrati esposti, uno dei quali pubblico ministero in un processo in cui sostiene l'accusa contro il Capo del Governo.

Anche questi sono giudizi soggetti ed opinabili, che non hanno attinenza ai processi in corso.

Prima di soffermarsi su quel triplice resistere, sul quale, se non principalmente, si soffermano le richieste, è da sottolineare, come fanno nella loro memoria, più volte citata, i pubblici ministeri, che dalle fotocopie, allegate, di articoli di giornali risulta evidente che, nei discorsi dei procuratori generali in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario nei distretti, sono state manifestate espressioni di profondo malessere per la situazione in cui versa la magistratura italiana nonché forti preoccupazioni per il contenuto di leggi in tema di giustizia approvate nel periodo immediatamente precedente e che in alcune sedi hanno espresso il loro disagio anche appartenenti al foro.

Ebbene, i titoli dei quotidiani su quelle inaugurazioni dicono, inequivocabilmente, che, quel giorno, le relazioni dei procuratori generali sono state particolarmente critiche e che in tutte le sedi i magistrati hanno manifestato, denunciando l'inefficienza dell'amministrazione

E se a Milano è stato Borrelli a pronunciare per tre volte la parola resistere, a Palermo si è parlato di resistenza e quasi tutti i quotidiani hanno dato risalto a tale stato di tensione.

Se tutto ciò risponde a verità, ed è da ritenere che nessuno lo dubiti, ciò che è successo a Milano non è stato molto diverso da ciò che, quel giorno, è avvenuto in tutti i distretti, il che vuol sia che tutti i procuratori generali hanno espresso, quanto meno, le loro perplessità sugli stessi temi trattati da Borrelli o su temi analoghi.

Come nessuno può mai pensare che nei capoluoghi degli altri distretti si sia creata, quel giorno, una grave situazione locale, così è impossibile ritenere che questa situazione sia sorta in Milano solo per avere detto Borrelli, in più rispetto a quanto detto dai suoi colleghi, che gli atti di emulazione andavano evitati, che non era stato esemplare il tentativo di sabotaggio di un processo, che un certo magistrato del pubblico ministero era stato privato della scorta.

E' di avallo a questa conclusione quanto si legge in quella pagina della memoria di P. del 16 maggio 2002, nella quale si esprime un giudizio sul resistere, resistere, resistere pronunciato da Borrelli.

Nella richiesta di rimessione, così la memoria, è stato ampiamente segnalato l'intervento pubblico di Borrelli che, nella piazza giudiziaria milanese, ha più volte invitato all'azione i magistrati di Milano e il pubblico presente con le ormai famigerate parole: resistere, resistere, resistere.

Ebbene, prosegue la memoria, intervistato in ordine al significato di una simile espressione di invito esplicito alla lotta giudiziaria contro bersagli umani ben identificati nel delirante discorso con il quale è stata occupata l'intera cerimonia di apertura dell'anno giudiziario milanese, il Dott. Borrelli ha testualmente dichiarato: lo ripeterei ancora tre volte perché era un invito rivolto alla collettività, non già contro il governo, perché recuperi il senso della legalità e resista allo sgretolamento delle coscienze.

Con tale dichiarazione, che si caratterizza anche per l'abituale travalicamento delle funzioni istituzionali che da giudiziarie diventano censorie e moraleggianti, il Dott. Borrelli, così ancora la memoria, ha praticamente confessato lo scopo e gli obiettivi del suo intervento dinanzi agli Stato Generali della giustizia milanese.

Infatti, visto che aveva l'intenzione di stimolare la collettività, la coscienza civica, evidentemente dei moltissimi magistrati presenti, tra i quali il p.m. di udienza dott.ssa Boccassini, è ovvio che nelle parole del Dott. Borrelli era contenuto un espresso invito alla lotta giudiziaria del bene contro il male e, quindi, ad una mobilitazione della sede giudiziaria milanese, certo non favorevole all'assistito, ripetutamente additato proprio da Borrelli come incarnazione di quel male che deve essere combattuto.

Ma, se l'invito era un invito era un invito alla collettività a recuperare il senso della legalità e a resistere allo sgretolamento delle coscienze, può essere ovvio, per usare il termine che appare nella memoria, che Borrelli abbia invitato i magistrati presenti alla lotta giudiziaria se si intende, però, quell'invito come invito al recupero della legalità, che, diretto a magistrati, non poteva non avere, tra ,i tanti, anche il significato di invito a non essere prevenuti, a non aver pregiudizi nei confronti degli imputati, ad essere imparziali, proprio perché questa e senza dubbio legalità.

Se si accetta la interpretazione che di quel triplice resistere si da nella memoria, è impossibile, sul piano squisitamente logico, che l'invito alla collettività, ivi compresi i magistrati, a recupero della legalità e a resistere allo sgretolamento delle coscienze sia stato un invito ai giudici ad essere di parte, a non fare il proprio dovere, e, dunque, un invito a spingersi nell'illegalità.

È evidente che non può essere stato questo il significato di quel resistere, resistere, resistere e se ne ha la conferma se queste tre parole vengono lette nel contesto in cui sono state pronunciate.

Questo non è un discorso di conservazione, così la relazione di Borrelli in chiusura.

Nessuna istituzione, nessun principio, nessuna regola sfugge ai condizionamenti storici e, dunque alla obsolescenza, nessun cambiamento deve suscitare scandalo, purchè sia assistito dalla razionalità e purchè il diritto, inteso come categoria del pensiero e dell'azione non subisca sopraffazioni dagli interessi.

Ma, ai guasti di u pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave.

Come può notarsi, in queste ultime proposizioni Borrelli fa del diritto l'ultimo, l'estremo baluardo della questione morale, sicchè si comprende bene il senso dell'invito al recupero della legalità: farsi guidare dal diritto.

Poco prima Borrelli aveva invitato i magistrati anche ad essere scudo della legalità: i due inviti, recupero della legalità ed esserene scudo, non possono certamente risolversi, a meno che le parole non abbiano il loro significato, in una grave situazione locale tale da imporre la traslatio judicii.

La grave situazione locale, prima di quella relazione, non esisteva, come si è ampiamente dimostrato: non può averla fatta nascere un invito, enfaticamente espresso preceduto da opinabilissimi giudizi, al rispetto della legalità, ad avere il culto per il diritto, per il rispetto delle regole.

Se questo è il significato che deve attribuirsi, con evidente ragionevolezza, a quel triplice resistere, ne consegue che, essendosi definitivamente rivelata infondata la tesi della trasformazione della procura in organismo politico con gli scopi che questo organismo avrebbe avuto atando alle richieste, specialmente alla richiesta i P., nessuna rilevanza possono avere i provvedimenti endoprocesuali, tutti precedenti alla relazione di Borrelli.

Ne può omettersi di sottolineare che, come si è accennato da qualcuno dei difensori nell'udienza dinanzi a queste Sezioni unite, dal gennaio 2002 in 'poi nulla di particolarmente significativo si è verificato in loco, fatta eccezione per alcune dichiarazioni di magistrati, se ne prenderà in esame una e se ne dimostrerà la totale insignificanza, e per alcuni eventi endoprocessuali, sicchè potrebbe anche discutersi sull'attualità della grave situazione locale, dato e assolutamente non concesso che sia mai esistita.

Nella richiesta di P., a pag. 49, quando si stanno descrivendo le manifestazioni di piazza, si torna a dire che lo scopo dei processi milanesi, quale concepito nel corso delle riunioni, concertazioni o manifestazioni, alle quali hanno partecipato cittadini e magistrati, è appunto unicamente quello di giungere alla condanna, vista come rivincita o ritorsione politica nei confronti del sottoscritto e dell'on. B., definiti, nei vari appelli popolari di magistrati milanesi, primo tra tutti il Procuratore Generale Borrelli, quali personificazioni del male.

Se la tesi, che costituisce l'architrave delle richieste, specialmente di quelle di P. e di B., che Borrelli ha trasformato la Procura in organismo politico per rivincita o ritorsione politica contro lo stesso P. e contro B., non può essere condivisa perché manifestamente infondata, come si è posto in evidenza soffermandosi sui fatti che avrebbero dovuto esserne la prova, le campagne mediatiche, le manifestazioni di piazza, le scritte sui muri o le dichiarazioni di questo o di quel magistrato, il dott. D'Ambrosio, ad esempio, nulla di decisivo aggiungono ad una inesistente grave situazione locale.

Venuta meno la tesi di fondo, non possono essere articoli di giornali o legittime manifestazioni popolari a creare, sul territorio una situazione eccezionale, patologica, tale da essere causa della translatio judicii.

La giurisprudenza di questa suprema Corte sia quella formatasi nella vigenza dell'attuale codice, sia quella formatasi nella vigenza del codice abrogato, è tutta in questi termini.

Le campagne di stampa, quantunque accese, astiose e martellanti o le pressioni dell'opinione pubblica non sono di per se idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che perciò solo ne resti menomata la sua indipendenza di giudizio o minata la sua imparzialità (Cass., 4 aprile 1995, Mazza; 19 gennaio 1995, Gallo; 3 ottobre 1995 Galli).

E in precedenza: ai fini della procedura di rimessione, una campagna di stampa o un diffuso orientamento della opinione pubblica non equivalgano a pressioni o influenze tali da scuotere la imparzialità del giudice e l'assolvimento della correlativa funzione giurisdizionale (Cass., 11 aprile 1983, v 158403; 29 gennaio 1981, Bernardelli; 20 ottobre 1975, Izzo).

Per quel che riguarda, in particolare, le pubbliche manifestazioni è ricorrente il principio che le pubbliche manifestazioni, anche se riprese dalla stampa, di sostegno alle tesi accusatorie, pur se possono attestare l'esistenza di prese di posizione locali aspre e vivaci, costituiscono una forma di espressione della libertà di pensiero e, come tali, rappresentano un dato coessenziale ad una società democratica, onde non sono, di per se, idonee a pregiudicare la capacità di determinazione del giudice, tenuto conto delle qualità morali, psicologiche e di esperienza che normalmente assistono le persone di coloro che sono chiamati al disimpegno di funzioni giurisdizionali (Cass., 17 marzo 2000, Panella; 9 gennaio 1996, Farassino; 25 ottobre 1995, Gullotti).

Ed è altrettanto costante, quanto alle campagne di stampa, l'affermazione che in nessun caso possono essere prese in considerazione le campagne di stampa, posto che, in presenza di fatti che abbiano risonanza nazionale e siano trattati e commentati da tutta la stampa italiana di ogni orientamento, con conseguenti aspettative contrastanti sull'esito del processo, vengono meno quelle gravi situazioni locali che sono richieste dall'art. 45 c.p.p., venendo a trovarsi sostanzialmente ogni giudice della Repubblica in una situazione di potenziale condizionamento, non suscettibile, pertanto, di eliminazione (Casss., 17 marzo 2000, Panella; 16 ottobre 1996, Berloz; 9 novembre 1995, Cerciello; 20 settembre 1995 Craxi; 5 luglio 1995, Fiandrotti; 30 settembre 1992, De Feo).

Volendo ipotizzare, e il principio può valere anche per le manifestazioni popolari, che le campagne di stampa posano costituire grave situazione locale, il trasferimento del processo non la eliminerebbe, perché, se ha determinate caratteristiche, tra le altre, la natura dei fatti a qualità delle persone, il processo, dovunque venisse trasferito, non farebbe venire meno l'interesse della stampa e dell'opinione pubblica.

Non può, quindi, obiettarsi, come si obietta nella memoria di P. del 18 gennaio 2003, che la Corte di cassazione deve considerare, semplicemente ed esclusivamente la situazione ambientale realmente realizzatasi al fine di stabilire se esista o meno la possibilità di condizionare l'imparzialità del giudizio o la serenità della condotta processuale, non dovendo essa immaginare situazioni non ancora accadute per stabilire che, anche in quei casi si verificherebbe un condizionamento ambientale.

L'obiezione non può essere apprezzata perché è la stesa legge che impone alla Corte di cassazione di disporre il trasferimento del processo solo se le gravi situazioni locali non siano altrimenti eliminabili e il giudizio sulla eliminabilità o sulla non eliminabilità non è necessariamente un giudizio di certezza, potendo ben essere un motivato giudizio di alta probabilità.

Se la stampa e l'opinione pubblica si sono sempre interessate di un certo processo è, quantomeno, altamente probabile che continuino ad interessarsene anche se il processo viene trasferito altrove, non potendo, certo, eslcudersi che un evento, in qual momento imprevedibile, faccia venire meno l'interesse dell'una o dell'altra.

Alla luce di questi principi nessun rilievo, dunque, può avere, per venire ad alcune delle manifestazioni indicate nelle richieste, la manifestazione di piazza davanti al palazzo di giustizia del 28 settembre 2001 in cui i partecipanti hanno manifestato, come si legge nella richiesta di P., contro il colpo di spugna di B. con evidente riferimento alla legge n. 367/2001.

L'opinione pubblica invero, può, indiscutibilmente, legittimamente dissentire, e manifestare il proprio dissenso, nei confronti di una legge, con il solo limite di rispettarla ove se ne debba fare applicazione.

Nessun rilievo, poi, può avere il girotondo politico del 26 gennaio 2002 davanti al palazzo di giustizia non consentendo un girotondo, al quale hanno partecipato persone dello spettacolo e della cultura, donne e bambini, come si desume dai resoconti della stampa allegati alla memoria dei pubblici ministeri, neppure illazioni o supposizioni sul condizionamento dei giudici, tanto più se la manifestazione ha avuto luogo, come ha dimostrato documentalmente la citata memoria, nel pomeriggio quando l'udienza era terminata da tempo e se quel giorno era un sabato, quando, come si scrive nella memoria, notoriamente non si svolge, di solito, nel pomeriggio, attività giudiziaria pubblica e gli ingressi al palazzo sono chiusi ad eccezione di un unico passo carraio.

La manifestazione al Palavobis, in fine.

La memoria dei pubblici ministeri nota, al riguardo, che la manifestazione, svoltasi ancora di sabato e assai distante dal palazzo di giustizia, ha avuto la specificità di avere visto la partecipazione di famiglie, ancora una volta donne e bambini, e non ha dato origine a incidenti di sorta e nemmeno a battibecchi.

La prova del resto, se ve ne fosse bisogno ,della non incidenza sui processi in corso di questa manifestazione si ricava dalla richiesta di rimessione di P., nella quale si descrive la manifestazione come un imponente manifestazione indetta dal capo dei forcaioli, F.D., per celebrare il 'manetta day: l'anniversario dell'arresto di Mario Chiesa che diede inizio al fenomeno di arresti conosciuto come Mani pulite.

Quella manifestazione, quindi, aveva un semplice scopo di celebrare l'anniversario dell'inizio di un fenomeno, mani pulite, che, per quei partecipanti, era da ricordare, pur consapevoli, è ovvio, del legittimo dissenso di altri.

Prima di concludere sul punto, è doveroso indugiare, come si è preannunciato, sulle dichiarazioni rilasciate dal Dr D'Ambrosio.

Le dichiarazioni di quest'ultimo sulla vicenda Brambilla vengono ampiamente citate nella richiesta di B. e sulle stesse non può non ripetersi quanto si è detto in ordine dal giudizio espresso da Borrelli, sullo stesso argomento, nella sua relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario.

Il dr. D'Ambrosio, in quelle dichiarazioni, rilasciate in una intervista ,ha criticato l'intervento del ministro, affermando, tra l'altro, che il ministro non aveva tenuto in contro quella che è un'esigenza primaria, cioè la continuazione di un processo e che era la prima volta che si verificava un 'interferenza cosi pesante da parte del potere esecutivo nell'amministrazione della giustizia.

Si tratta, come si vede, di un giudizio, di un'opinione, che, come tute le opinioni, può essere e non essere condivisa, un'opinione con la quale si manifesta il desiderio che i processi, e anche quel processo, vengano celebrati, un'opinione che non si esprime affatto sull'esito del processo e tale, allora, da non essere oggettivamente e soggettivamente, in alcuna relazione con il problema dell'imparzialità di giudici.

Nella memoria del 18 gennaio 2003 si riporta un brano di un'intervista rilasciata da D'Ambrosio al Corriere della Sera.

Il precedente Governo, così D'Ambrosio, aveva approvato diversi provvedimenti, pur non univoci, per rendere quantomeno accettabili i tempi dei processi . questa nova strategia veniva interrotta nel giugno 2001, con l'avvento di un nuovo Governo. solo l'abnegazione e l'attaccamento del personale tutto di questa Procura riusciva ad evitare una crisi irreversibile.

Questo passo dell'intervista ha come tema, non può dubitarsi, i tempi dei processi e un confronto tra la velocità accettabile degli stessi prima del giugno 2001 e la velocità non accettabile dopo il giugno 2001 con l'avvento del novo Governo: D'Ambrosio afferma che soltanto grazie all'abnegazione e all'attaccamento del personale tutto della Procura si era riusciti ad evitare una crisi irreversibile, crisi che, viste le entità al confronti non può essere, sul piano logico che quella dovuta alla minore velocità dei processi dopo il giugno del 2001.

Secondo la memoria di P., invece il riferimento alla crisi irreversibile non può che essere rivolto sia al provvedimento che, secondo la legge in tema di rogatorie, avrebbe dovuto espellere dagli atti dei processi in corso le informi fotocopie, sia alla sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato a seguito di intervenuta prescrizione per quanto concerne i processi per falso in bilancio instaurati nei confronti dell'on. B., sia alla sospensione dei processi per ii quali sono state avanzate richieste di rimessione.

Ma, in quell'intervista non ve nulla di tutto ciò, sicchè le considerazioni della memoria sl piano della cura logica, è la logica che dice quali fossero le entità a confronto, si rivelano supposizioni, illazioni del tutto ingiustificate.

Nella memoria si aggiunge che le incredibili affermazioni di D'Ambrosio sono state tratte da una sorta di relazione- bilancio che il dr. D'Ambrosio ha scritto per il nuovo anno giudiziario e che è stata affidata al nuovo PG e si commenta che l'episodio è sconcertante, perché non è mai accaduto che un procuratore uscente e, per di più funzionalmente non legittimato, si sia preoccupato di predisporre la relazione di apertura dell'anno giudiziario appropriandosi di un compito che spetta al procuratore generale presso la Corte di appello.

Di sconcertante non ve alcunché perché ogni anno, diversi mesi prima dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, i procuratori generali chiedono ai procuratori della Repubblica notizie- bilancio sui temi della giustizia con le loro riflessioni, notizie che di procuratori generali utilizzeranno, poi, nelle loro relazioni.

È, allora, appena ragionevole che nella relazione bilancio, atto al quale era funzionalmente legittimato, D'Ambrosio si sia premurato di porre in evidenza l'abnegazione e l'attaccamento di tutto il personale per rendere accettabile la velocità dei processi, mentre sarebbe stato del tutto irragionevole che avesse alluso alle rogatorie o a quant'altro avesse avuto a che fare con i processi a carico di B. e di P., consapevole, oltretutto, che destinatario di quella relazione sarebbe stato il nuovo Procuratore generale del tutto estraneo a quei processi.

Traendo le conclusioni da tutto ciò, è da definitivamente affermare che non esiste la grave situazione locale- territoriale o ambientale.

Non è vero che Borrelli abbia trasformato la procura in organismo politico perché non costituiscono prova di questa trasformazione quanto Borrelli avrebbe detto e fatto nella, irrilevante, fase procedimentale, la mai esistita concertazione contra reum, le ordinanze sulle rogatorie, la relazione di Borrelli in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, le campagne di stampa, le manifestazioni popolari, le dichiarazioni di altri magistrati.

Restano, a questo punto, i numerosi provvedimenti endoprocessuali che i richiedenti hanno esposto nelle richieste e nelle memorie per porne in evidenza la illegittimità, sintomo, secondo loro, della parzialità dei giudici.

Secondo i principi che queste sezioni unite hanno affermano trattando della grave situazione locale, i provvedimenti endoprocessuali del giudice e gli atti, le iniziative, le richieste, i comportamenti, in genere,, del PM nel processo, non debbono essere presi in alcuna considerazione se si accerti la inesistenza di una grave situazione locale- territoriale, mentre assumono rilevanza, e se ne sono precisate le condizioni, ove la grave situazione locale venga accertata.

È opportuno ricordare, per quel che riguarda i provvedimenti endoprocessuali dei giudici, che la giurisprudenza di questo supremi collegio non ha avuto mai dubbi sulla rilevanza degli stessi.

Per Cass., 23 febbraio 1998, B.: il tentativo di proiettare l'influenza negativa dei PM milanesi sulle decisioni del collegio giudicante in tema di acquisizione probatoria è destinato a fallire, ove si consideri che l'attività di istituzione dibattimentale risulta caratterizzata da decisioni che, anche se non condivise dall'imputato e dai suoi difensori, sono state adottate nel pieno rispetto delle norme processuali vigenti.

Rientra, infatti, nei poteri del collegio di revocare ordinanze, di disporre di ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, di rigettare richieste avanzata dai difensori in merito alla acquisizione di documenti o alla ammissione di testi o di recuperare testi non ammessi.

Tali decisioni, tutte ritualmente motivate e tutte rientranti nel sistema processuale previsto dal codice di rito vigente, non sono certo idonee a generare il sospetto che siano stati commessi abusi nei confronti dell'imputato; la non condivisibilità delle decisioni adottate dal collegio, d'altra parte, non può costituire causa di rimessione del processo, essendo esercitabile all'uopo il diritto all'impugnazione, che è il rimedio previsto dalla legge per rimuovere decisioni eventualmente non corrette (negli stessi termini: Cass. 5 luglio 1995, Fiandrotti; 20 settembre 1995, Craxi; 20 dicembre 1995, Vizzini).

Ancora più netta Cass., 8 aprile 1992, Casaglia: trattasi quasi esclusivamente di censure di singoli provvedimenti incidentali sfavorevoli all'imputato e da costui interpretati quale sistematica persecuzione nei suoi confronti; le censure avverso singoli provvedimenti, impugnabili, saranno fatte valere nella opportuna sede evitandosi anticipazioni di temi e di questioni che attengono esclusivamente al merito e al dibattimento in corso.

Ciò detto, queste sezioni unite ritengono, però, di doversi soffermare ugualmente su alcune questioni endoprocessuali vista la rilevanza ad esse attribuita dai richiedenti e di doverlo fare, relativamente alle ordinanze emesse dai tribunali a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 225 del 2001, con una certa ampiezza, avendole inserite la richiesta di P. tra le prove della concertazione contra reum, e brevemente, invece, al solo fine di mettere in evidenza alcuni profili, sulla vicenda del bar M., sulla fonte confidenziale Olbia- Ariosto, sul tema della competenza per territorio nel processo Imi- Sir, sulla vicenda Brambilla.

La richiesta di P. pag. 33 e SS.GG., e la richiesta di B. a pag. 36 e SS. GG., ne trattano, comunque, anche gli altri richiedenti, come si è accennato, si soffermano su questa sentenza nell'ottica, ancora una volta, della concertazione contra reum, concertazione, però, che, in questa occasione, ha il suo protagonista, non in Borrelli ma nei due Tribunali.

La Corte Costituzionale, come è noto, con questa sentenza, ha risolto un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, promosso con ricorso del Presidente della Camera a seguito delle ordinanze emesse dal GOP del Tribunale di Milano il 17 e il 20 settembre 1999, in due procedimenti penali a carico dell'on. C. P. e delle successive ordinanze, in particolare quelle adottate nelle udienze del 22 settembre 1999, 5 ottobre e 6 ottobre 1999, in quanto non avevano considerato assoluto impedimento il diritto- dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea.

La Corte costituzionale ha annullato le ordinanze dopo aver dichiarato che non spettava al giudice dell'udienza preliminare, nell'apprezzare i caratteri e la rilevanza degli impedimenti addotti dall'imputato per chiedere il rinvio dell'udienza, affermare che l'interesse della Camera dei Deputati allo svolgimento delle attività parlamentari e, quindi, l'esercizio dei diritti- doveri inerenti alla funzione parlamentare, dovesse essere sacrificato all'interasse relativo alla speditezza del procedimento giudiziario.

Nelle due richieste, dopo essersi richiamata la norma dell'art. 185 c.p.p., nelle parti in cui dispone che la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo e che la dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo, salvo che si diversamente stabilito si censurano le ordinanze, sul punto, della prima e della quarta sezione del Tribunale di Milano del 17 novembre e del 21 novembre 2001, per avere avallato, con argomentazioni capziose e sofistiche e con agli abili giri di parole, secondo la richiesta di P., una macroscopica contraddizione in termini, cioè che l'annullamento della Corte Costituzionale non avesse comportato la nullità delle ordinanze annullate, o, richiesta di B., per avere effettuato una insubordinazione al comando giuridico promanante del provvedimento di annullamento del Corte costituzionale.

Le censure impongono di porre in rilievo che sono gli stessi richiedenti che, nel momento in cui prestano attenzione alla norma dell'art. 185 c.p.p., mostrano di rendersi perfettamente conto che la nullità di un'atto processuale, intanto rende invalidi gli atti consecutivi in quanto questi atti dipendano da quello dichiarato nullo.

Secondo la giurisprudenza di questo supremo collegio, infatti, deve ritenersi derivato da altro precedente quell'atto che con il primo si ponga in rapporto di dipendenza effettiva, del quale venga, cioè, a costituire la conseguenza logica e giuridica, nel senso che l'atto dichiarato nullo costituisce l'ineliminabile premessa logica e giuridica di quello successivo, per modo che, cadendo tale premessa, restano necessariamente caducati anche gli atti che ne conseguono (Cass. 22 dicembre 1997, Nikolic; 19 settembre 1997, Guzzardi).

La medesima giurisprudenza non ha, inoltre, mai dubitato che, in tema di estensibilità di nullità di un'atto processuale ad altro atto processuale, al giudice penale è riservato in ogni caso il potere di indagine e di decisione circa la sussistenza di un rapporto di connessione tra i vari atti (per tutte: Cass., 8 febbraio 1980, Villa).

Se questi sono i principi che si deducono dalla norma dell'art. 185 c.p.p., la prima sezione del Tribunale, nella sua ordinanza è rimasta nell'ambito dei poteri conferiti al giudice della legge quando ha dichiarato che, nel caso di specie, non sussistono i presupposti per disporre la regressione del procedimento, sia perché la nullità dell'ordinanza 20 settembre 1999 non si è comunicata a nessun altro atto e tanto meno al decreto che dispone il giudizio, che sarebbe arduo ritenere collegato necessariamente in via logico- giuridica all'ordinanza del 20 settembre 1999, sia perché in nessun modo la tenuta di quella particolare udienza meramente interlocutoria in assenza del suddetto imputato ha compromesso i suoi sostanziali diritti di difesa.

Il Tribunale, poco prima, aveva spiegato perché l'ordinanza del 20 settembre dovesse ritenersi innocua, osservando che, nell'ambito di quell'udienza del 20 settembre 1999, non era stato assunto nessun provvedimento dopo il rigetto della richiesta di rinvio per impedimento dell'imputato, tranne il provvedimento di rinvio all'ulteriore udienza del à24 settembre di cui non fu disposta la notifica all'imputato P., il quale, per altro, è intervenuto alla suddetta udienza senza far valere il vizio di notifica con ciò sanandolo ed interrompendo definitivamente ogni effetto diffusivo.

La quarta sezione si è tenuta, come impostole dalla fattispecie, su un altro piano, pervenendo, però alla stesa conclusione di non incidenza della nullità delle ordinanze e della non regressione del procedimento.

Dopo aver premesso che i difensori degli imputati, ad eccezione del difensori di VM, avevano chiesto che, in esecuzione della sentenza della Corte costituzionale, venisse dichiarata la nullità del decreto che dispone il giudizio, il tribunale ha osservato che nella sentenza della Corte costituzionale è mancata ogni affermazione, da parte della Corte, circa la sussistenza, in capo all'imputato e per le udienze in questione, le udienze del 22 settembre e del 5 e 6 ottobre 1999, di un legittimo impedimento, il che equivale a dire, ha aggiunto, che la nullità delle ordinanze colpirebbe gli atti successivamente compiuti solo laddove il giudice del dibattimento riconoscesse, ora per allora, in base alla documentazione prodotta per provare l'impedimento, il diritto ad ottenere il rinvio dell'udienza.

Ma, questo riconoscimento, ora per allora, del diritto ad ottenere il rinvio dell'udienza, non era, secondo il tribunale, giuridicamente possibile.

Se, infatti, è onere dell'imputato, che intenda richiedere il rinvio dell'udienza per un legittimo impedimento, di qualsiasi natura, darne prova piena, al momento della richiesta di rinvio, con riferimento ai caratteri di esistenza, di assolutezza ed attualità dell'impedimento medesimo, in tema di impedimento parlamentare non è sufficiente produrre informale convocazione del deputato da parte del Capogruppo, occorrendo invece documentazione ufficiale relativa al calendario dei lavori della Camera di appartenenza, unitamente a prova specifica circa la presenza dell'imputato presso la stessa Camera contestualmente allo svolgimento dell'udienza e ciò anche secondo la giurisprudenza della corte di cassazione in una fattispecie simile (Casss., 3 dicembre 1980, Pisanò).

Nessuna nullità, quindi, concernente l'intervento dell'imputato si è verificata alle udienze aventi il GIP in data 17 e 22 settembre, 5 e 6 ottobre 1999, in quanto non trattavasi della prima udienza di costituzione delle parti e, in ogni caso, i difensori dell'imputato, nel richiedere il rinvio per impegni parlamentari, non ebbero a produrre documentazione idonea ad attestare l'esistenza e la attualità del dedotto impedimento.

Questi i punti salienti delle due ordinanze.

Può discutersi, certo, se i due collegi hanno correttamente escluso la dipendenza logica e giuridica degli atti successivi dagli atti dichiarati nulli e se hanno correttamente negato la regressione del procedimento; ma, con altrettanta certezza, non si può sostenere che, nell'escludere l'incidenza della dichiarazione di nullità delle ordinanze e nel non ravvisare le condizioni della regressione, quei due collegi si siano attribuiti poteri che non avevano, sicchè non si potrebbe mai dire, tra l'altro, che le due ordinanze sono atti abnormi, provvedimenti, cioè, inficiati da anomalie genetiche o funzionali tali che impediscono l'inquadramento negli schemi normativi tipici e li rendono incompatibili con le linee fondanti del sistema processuale (Cass., 9 luglio 1997, Quarantelli).

Della censura di abnormità non v'è, del resto, alcuna traccia nelle richieste.

Nella richiesta di B. si trascrivono parte delle ragioni addotte dai tribunali per dimostrare l'inesistenza delle condizioni per la regressione del processo e, dopo la trascrizione, non solo non si eccepisce l'abnormità dei provvedimenti, ma, soprattutto, nulla di specifico si aggiunge al giudizio che le ordinanze sono l'effetto di insubordinazione o, richiesta di P., capziose e sofistiche.

I richiedenti, in altri termini, lamentano la disapplicazione della sentenza della Corte costituzionale; ma, anche in questo caso, come nel caso delle ordinanze sulle rogatorie, si astengono dal misurarsi con il contenuto di quelle ordinanze e, ciò nonostante, formulano, ugualmente, il giudizio di capziosità e di insubordinazione, giudizio che, in quanto del tutto apodittico, immotivato, non consente, certamente, di affermare che, dato e non concesso che sussista la grave situazione locale, le due ordinanze in esame ne sono il riflesso.

La richiesta di B. ritiene di cogliere l'anomalia delle decisioni del Tribunale anche nella voluta tardività dei provvedimenti, tesi, questa, che i pubblici ministeri contestano nella loro memoria, riportando quanto risulta dai verbali di udienza della prima sezione nel periodo dal 9 luglio al 17 novembre 2001.

Nell'udienza del 9 luglio, ad appena tre giorni dalla sentenza della Corte costituzionale, venne stabilito di rinviare l'udienza al 17 novembre, prima udienza utile dopo la sospensione feriale, per consentire alle parti di esaminare la sentenza con la dovuta attenzione.

Il 17 novembre, C.P. presentava istanza di rinvio per legittimo impedimento per malattia e il tribunale, ritenuto il legittimo impedimento, rinviava al 28 settembre, udienza in cui le parti svolgevano le loro considerazioni sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale e in cui il tribunale riservava la propria decisione per l'udienza del primo ottobre.

All'udienza del primo ottobre P: presentava ulteriore istanza di rinvio per legittimo impedimento per malattia, acconsentendo, però, alla lettura dell'ordinanza sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale; ma, il tribunale riteneva assorbente la richiesta di rinvio ed aggiornava il processo all ' 8 ottobre, data in cui P. rinnova la richiesta di rinvio per legittimo impedimento per malattia, manifestando, anche in questa udienza, il consenso alla lettura dell'ordinanza, e il tribunale riteneva di nuovo assorbente la richiesta di rinvio fissando l'udienza al 17 novembre, di pochissimi giorni successivo alla scadenza della malattia.

L'ordinanza veniva letta in data 17 novembre.

Se si esaminano le date con attenzione, si cogli sia che il tribunale avrebbe dovuto leggere l'ordinanza il primo ottobre, mentre ne ha dato lettura il 17 novembre, dopo 46 giorni, sia che il tribunale non ha voluto questo ritardo, oggettivamente tutt'altro che senza misura, se non per consentire a P. di essere presente, tenendo anche conto che la malattia si sarebbe risolta in un ragionevole lasso di tempo.

È, dunque, mera illazione o supposizione interpretare quel ritardo, per nulla smisurato e, soprattutto, motivato, come uno degli aspetti della concertazione contra reum.

Connesso al tema delle ordinanze emesse dopo l'intervento della Corte costituzionale è, nelle richieste di P. e di B., il tema che ha ad oggetto la lettera che il presidente della quarta sezione, dott. P. Cafrì, aveva indirizzato, il 22 ottobre 2001, dandone lettura in udienza il 29 ottobre, la presidente della Camera dei Deputati per chiedere indicazioni sul calendario futuro dei lavori dell'assemblea, richiesta finalizzata alla fissazione di udienza dibattimentale in giornate diverse da quelle dedicate ai lavori parlamentari.

Il dott. Carfì, in quella lettera, anticipava, questa è la tesi, seppure implicitamente, il convincimento circa la inapplicabilità del dispositivo della sentenza della Corte costituzionale al processo Imi- Sir, che la problematica relativa alla fissazione di ulteriori udienze sottolineava necessariamente la volontà di procedere nel dibattimento.

Il dott. Carfì, quindi, aveva già maturato la propria decisione, nonostante che avesse fissato l'udienza del 5 novembre per la trattazione della questione e, in quella lettera, estendeva le proprie preoccupazioni anche ai processi a lui non assegnati, vale a dire al processo Sme- Ariosto e al Processo Lodo Mondadori.

In altre parole, prosegue la richiesta di B., il dott. Cafrì, facendo espresso riferimento alla esigenza di coordinare le udienze Imi- Sir con quelle dei dibattimenti relativi ai processi Sme- Ariosto e Mondadori. Sembra anticipare la decisione della prima sezione del medesimo tribunale; in pratica sembrava a conoscenza il 22 ottobre 2001 che anche la prima sezione del tribunale d Milano avrebbe il 17 novembre 2001 disapplicato i dispositivo della sentenza n. 225/2001 della Corte costituzionale, come è infatti puntualmente avvenuto.

La lettera del Dott. Cafrì non si presta a questa lettura.

Se, come si scrive nella richiesta di P., la lettera è stata scritta il 22 ottobre e ne è stata data lettura in pubblica udienza il successivo 29, quando l'udienza per la trattazione della questione non era stata ancora tenuta, la trattazione sarebbe iniziata il 5 novembre e si sarebbe conclusa il 16 novembre, ne consegue che la lettera è stata spedita e ne è stata data lettura in un momento in cui, non essendo stata ancora discussa la questione degli effetti della sentenza della Corte costituzionale, il contenuto dell'ordinanza non era affatto scontato, dipendendo anche da quanto le parti avrebbero osservato nella discussione.

Che l'ordinanza avrebbe escluso che vi fossero atti, dipendenti delle ordinanze, da annullare o che ricorressero le condizioni per disporre la regressione del procedimento, era, in quel momento, soltanto uno dei possibili esiti, il che spiega la preoccupazione del presidente del collegio di sapere quando, in quali giorni, nel caso l'ordinanza avesse avuto un certo contenuto, avrebbe potuto celebrare le udienze senza intralciare i lavori della Camera.

E il problema si poneva, in questa ottica, anche per la prima sezione e ciò anche senza alcun contatto tra i due presidenti, essendo sufficiente, perché presentasse il problema come un problema rilevante anche per la prima sezione, che il dott. Carfì sapesse, come è ragionevole ritenere che sapesse, che la prima sezione non aveva ancora emesso l'ordinanza.

Del resto, per rendersi conto che i due collegi hanno pronunciato le due ordinanze senza confrontarsi basta scorrerle per coglierne la diversa, profonda, impostazione di fondo.

D'alto canto, la richiesta di B. non va al di la di espressioni quelli (l'iniziativa del dott. Carfì) sembra anticipare la decisione della prima sezione, sembrava (il dott. Carfì) a conoscenza che il 22 ottobre anche la prima sezione si sarebbe pronunciata nello stesso modo e l'uso del verbo sembrare sta a significare che il richiedente, in questo caso, fa semplici illazioni, semplici supposizioni, sulle quali è impossibile fondare, come è noto, il giudizio che certi fatti ne sono sicuro sintomo della grave situazione locale.

Merita, invece, maggior attenzione la questione relativa alla competenza per territorio del tribunale di Milano, non già perché essa sia decisiva o rilevante ai fini della rimessione del processo, ma perché, oltre ad essere stata prospettata con ricchezza di rilievi dai difensori degli imputati non può essere ignorato che in applicazione del principio espresso dall'art. 23 c.p.p., ogni giudice è obbligato alla verifica della propria competenza.

Se vero è che, in questa sede, ai limitati fini di accertare se sussistono i presupposti per disporre la rimessione di un processo ad altra sede non compete alla Corte verificare se ed in quale misura sono fondati i rilievi dedotti dalla difesa degli imputati in ordine all'eccepita incompetenza territoriale, a tale onere non potrà sottrarsi il giudice delle processo, nel doveroso rispetto degli inderogabili criteri stabiliti dagli artt. 8 e 9 c.p.p., ed utilizzando ai fini di tal indagine, non solo la documentazione già acquisita al processo, ma anche quella indicata dalle parti a sostegno della proposta eccezione.

Alla vicenda del bar M. i richiedenti hanno dedicato non poco spazio e nelle richieste e nelle memorie, anche alla luce di quanto accertato dalla perizia assunta nel corso dell'incidente probatorio disposto del GIP del tribunale di Perugia

Il perito ha perentoriamente concluso, si scrive nella memoria di B. del 20 gennaio 2003, affermando che l'audio- cassetta BASF tipo Crome extra 2 numero identificativo 044412200 messa a disposizione della AG di Milano per l'incidente probatorio, depositata come originale, originale non è ed è stata pure manipolata.

Si dice, ancora, in questa memoria che il perito ha chiesto una proroga dei termini del deposito per potere eseguire nuovi ed ulteriori accertamenti sulle modalità di manipolazione dei nastri magnetici.

Orbene, volendo dare tutto per certo, e ribadendo che tutto quanto p stato scritto e detto, al riguardo, non ha alcuna rilevanza ai fini della rimessione per le ragioni più volte esposte, si può soltanto porre in evidenza che la genesi ed il contenuto di quella cassetta dovranno formare oggetto di valutazione all'esito degli accertamenti in corso, nell'ambito del relativo procedimento.

Altro tema che è stato oggetto, nelle richieste, di particolari riflessioni, è quello che va sotto il nome di fonte confidenziale Olbia, fonte che è la teste S. A., uno dei testi nel processo Sme- Ariosto.

Può discutersi, e non è questa la sede, se la procura, prima che l'Ariosto deponesse dinanzi ai magistrati del PM, abbia gestito la fonte per più di qualche mese senza lasciare alcuna traccia agli atti di questa gestione: se ciò fosse avvenuto non v'è dubbio che illegittima sarebbe l'utilizzazione i quelle dichiarazioni.

Ma, volendo ipotizzare che la tesi sia fondata, non può negarsi che è la stessa memoria che, nell'illustrare anche le ultime acquisizioni processuali, le ultime deposizioni, consente di dire che la verità sta emergendo nel processo e, in un processo in cui si fa strada la verità, è difficile che si possa pensare ad un condizionamento dell'imparzialità del giudice.

In ordine alla vicenda Brambilla, pure sulla quale molto si è scritto, è sufficiente richiamare, condividendolo, quando la Corte di cassazione ha recentemente affermato nel rigettare il ricorso di P. avverso l'ordinanza che aveva deciso sulla dichiarazione di ricusazione del Dott. G. Brambilla, componente del collegio della I sezione del tribunale di Milano.

La Corte di cassazione, dopo avere affermato che le norme sulle destinazioni dei magistrati agli uffici giudiziari o alle varie sezioni e quelle sulla formazione dei collegi, per le finalità che le ispirano e per le esigenze che intendono salvaguardare, sono del tutto estranee alla disciplina processuale in tema di incompatibilità, astensione e ricusazione, ha aggiunto che il Dott. Brambilla era stato richiamato nel collegio che giudica sulla vicenda Sme in applicazione corretta e doverosa delle norme deliberate dal CSM.

Ne, ha precisato, si può sostenere l'incompatibilità del magistrato solo perché l'ordinamento penitenziario vieta ai magistrati di sorveglianza di essere adibiti ad altre funzioni giudiziarie.

Questa norma, infatti, nasce dall'esigenza di non distogliere il giudice di sorveglianza alla propria attività istituzionale, anche per consentire una idonea specializzazione; ma, non tutte le norme che dispongono divieti di attività per i giudici determinano incompatibilità tali da rendere necessaria la loro astensione (Cass., 4/2/2003, P.).

Può aggiungersi che Borrelli e D'Ambrosio, che si sono espressi su questa questione, nella loro vis polemica hanno voluto dire, sostanzialmente, anzitutto, che l'Organizzazione giudiziaria non può non essere funzionale alla giurisdizione, collaborando, nell'ambito delle proprie competenze, al concreto esercizio della stessa, e, in secondo luogo, che, in precedenza, l'Organizzazione giudiziaria aveva sempre collaborato ogni qualvolta si fosse presentato un problema la cui mancata soluzione avrebbe potuto pregiudicare lo svolgimento di un processo.

Dopo tutto ciò, queste sezioni debbono osservare che, se l'insistenza della grave situazione locale non può essere posta in dubbio, una preziosa garanzia che proprio questa sia la verità è offerta da alcuni determinati, dati processuali.

Si è avuto cura di mettere ripetutamente in risalto che la grave situazione locale non può non essere territoriale- ambientale, non può non consistere in una patologia del territorio, perché è in quel determinato territorio, in quel determinato luogo, che si radica il processo, il quale ne è, eccezionalmente, sradicato perché è in forse l'imparzialità del giudice.

Giudice, però, che, proprio perché la grave situazione locale è una patologia ambientale, territoriale, da tutti percepibile, non può non essere se non il giudice nel suo complesso, cioè la totalità dei giudici, con la conseguenza che, ove si abbia la prova positiva della assoluta imparzialità sia pure soltanto di alcuni giudici, la rimessione non può essere disposta.

La prova di quella imparzialità direbbe, invero, con estrema chiarezza che, al più, v'è, in quel luogo, una situazione non del tutto fisiologica, ma non quella situazione che, se è grave, patologica, non può non giustificare quanto meno la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice.

Ebbene, nel processo Lodo Mondadori, il GIP, con sentenza del 19 giugno 2000, ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti di A., M., P., P., e B. perché il fatto non sussiste e la corte di appello, a seguito di appello di tutti gli altri, ha riconosciuto a B. le attenuanti generiche e ha dichiarato di non doversi procedere per estinzione del reato per prescrizione; la Corte di cassazione, poi, con sentenza del 16 novembre 2001, ha rigettato, tra gli altri, il ricorso di B.

Se si riflette che la sentenza del GIP è del 19 giugno 2000 e che, in quel momento, secondo le richieste, Borrelli già aveva trasformato la procura in organismo politico, facendo anche tutta quella serie di dichiarazioni che vanno dal 1993 al 1997 e disponendo per quelle notifica che, secondo P., aveva assestato un colpo mortale al Governo allora in carica che poco dopo dovette dimettessi, non può dubitarsi del significato di questa pronuncia.

La quale, peraltro, non è stata emessa in una fattispecie in cui l'assoluzione poteva dirsi scontata, tanto è vero che la Corte di appello ha affermato che anche per B. vi sarebbero state ragioni per il rinvio a giudizio, perché il materiale indiziario rendeva prospettabile il successo delle ragioni dell'accusa all'esito degli apporti dibattimentali; e, del resto, la Corte di cassazione nulla ha avuto da eccepire, neppure sul punto, alla decisione della corte d'appello.

Ne può obiettarsi, come si è fatto nell'udienza dinanzi a queste sezioni unite, che il GIP che ha emesso quella sentenza è stato trasferito, che ciò che importa, evidentemente, è che un giudice, ed un giudice che si è interessato di uno dei processi di cui si chiede la rimessione, abbia ritenuto, nonostante la situazione descritta dai richiedenti, di dover prosciogliere gli imputati.

Inoltre, sono stati più volte citati i principi formulati dall'ordinanza del 23 febbraio 1998 di questa Corte di cassazione, che ha rigettato una richiesta presentata da B. e da altri per la rimessione di un diverso processo.

Il tribunale, di Milano, con sentenza del 7 luglio 1998, ha affermato la penale responsabilità di B. per una serie di episodi di corruzione che gli erano contestati in quel processo e la corte d'appello, con sentenza del 9 maggio 2000, ha riconosciuto le attenuanti generiche, dichiarando estinte per prescrizione tre ipotesi di corruzione, e ha assolto B. per non aver commesso il fatto dall'imputazione di corruzione di cui al capo E).

e. se si riflette, di nuovo, sulle date, la situazione, secondo le richieste di rimessione, era, anche in questo caso, di particolare gravità, avendo Borrelli già iniziato con successo, secondo i richiedenti, l'opera di trasformazione della procura in organismo politico.

e. d'altro canto, gli imputati di quel processo avevano richiesto la rimessione proprio perché ritenevano che vi fossero le condizioni previste dalla legge per il trasferimento del processo.

Il proscioglimento e l'assoluzione, e, a ben vedere, anche il riconoscimento delle attenuanti generiche con la conseguente dichiarazione di prescrizione, tenuto conto che riconoscere o non riconoscere le attenuanti generiche rientra tra i poteri discrezionali del giudice, dicono che, in quegli anni, alcuni giudici di Milano, quando hanno ritenuto di dover prosciogliere o assolvere o riconoscere attenuanti generiche, anche quando il riconoscimento delle stese determinava la prescrizione dei reati, lo hanno fatto, e questo è segno evidente della inesistenza dei condizionamenti di imparzialità, segno evidente, dunque, della inesistenza della grave situazione locale.

Tutto ciò premesso le richieste debbono essere rigettate

PQM

La Corte di cassazione a sezioni unite rigetta le richieste di rimessione e condanna i richiedenti alle spese del procedimento.

Roma, 27 gennaio 2003.

Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2003