GIUSTIZIA ITALIANA E DIRITTI UMANI:

UN RAPPORTO CONFLITTUALE

 

Da tempo si parla di riformare il sistema giudiziario italiano ed in tal modo risolvere gran parte dei problemi che assillano la giustizia di casa nostra: ma se della crisi procedurale ne sono a conoscenza i più, non molti saranno al corrente del fatto che le difficoltà del nostro sistema hanno ripetutamente interessato alte istituzioni europee. Uno dei motivi maggiormente ricorrenti è senza dubbio la durata eccessiva dei giudizi, l’estenuante attesa per arrivare alla sentenza finale che ha ripetutamente violato la Convenzione europea per i diritti dell’uomo e di conseguenza portato alla condanna della giustizia italiana da parte della Corte europea per i diritti umani. Al fine di comprendere in modo più completo l’importanza di tali richiami e definire se possibile alcuni rimedi alla nostra prolissità giudiziaria, cerchiamo di chiarire almeno sommariamente il ruolo della suddetta Convenzione e del sistema di auto-tutela che essa stessa definisce al suo interno.

La garanzia dei diritti fondamentali, parte integrante e garantita dell'ordinamento giuridico comunitario, non trova esplicita manifestazione né nel trattato CE né il quello sull'Unione Europea: è la Convenzione europea per i diritti dell’uomo (CEDU), elaborata a Roma il 4 novembre 1950 (in vigore dal settembre del 1953) e ratificata nel tempo da tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, che rappresenta il testo cruciale in ambito continentale per la tutela di queste basilari libertà. Realizzata al fine di assicurare la garanzia collettiva dei propositi posti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, gli obiettivi della CEDU sono primariamente quelli della salvaguardia dei diritti fondamentali al momento della creazione, dell'applicazione e dell'interpretazione della normativa comunitaria: essa enuncia infatti una lista di diritti e libertà che le Alte Parti Contraenti si sono impegnate a riconoscere nei confronti di tutti coloro che sono sottoposti alla loro giurisdizione. Al fine di realizzare a pieno questi propositi, è stato previsto un originale sistema di tutela utilizzabile sia dagli Stati contraenti che dai cittadini (o Organizzazioni Non Governative, ancora gruppi di persone) vittime di violazioni delle norme in essa inserite: le tre istituzioni titolari della responsabilità di questo controllo sono la Commissione, incaricata di istruire le istanze presentate dai singoli o da Stati membri, la Corte europea dei diritti dell'uomo (la cui competenza si estende a tutti i casi concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione), che può essere adita dalla Commissione o dagli Stati previo rapporto della Commissione stessa, ed il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, a cui spetta il ruolo di "custode" della CEDU e che è investito della soluzione politica delle controversie. La disciplina del 1950 è stata poi in parte mutata dal Protocollo n. 11 alla Convenzione, realizzato a Strasburgo l’11 maggio 1994, che al fine di mantenere la durata dei procedimenti entro limiti accettabili ha modificato tale meccanismo di controllo attraverso l’introduzione della nuova Corte permanente per i diritti umani e di una procedura a tratti riformata.

La Convenzione ed il sistema di tutela ad essa connesso sono dunque testimoni essenziali della promozione e della difesa dei diritti umani in Europa: onde rafforzare la già evidente importanza della CEDU, anche il Parlamento Europeo ha più volte sottolineato il ruolo determinante che si attribuisce al rispetto dei diritti dell’uomo, quali risultano in particolare dalle costituzioni degli Stati membri nonché proprio dalla Convenzione, al fine di garantire in modo globale la loro promozione all'interno dell'ordinamento giuridico comunitario, così come la Corte di giustizia ha più volte riconosciuto e continuamente approfondito l'esistenza di libertà fondamentali a livello europeo equiparabili alle norme comunitarie primarie.

Si capisce ora facilmente l’importanza dei ripetuti moniti della Corte europea per i diritti dell’uomo nei confronti del nostro sistema giudiziario. L’impressionante numero di ricorsi (ben oltre 1500) di cittadini italiani alla Corte di Strasburgo che hanno ottenuto la condanna dello Stato lumaca, ai sensi dell’art. 6 comma 1 (“Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”), dimostra come il procedimento giudiziario italico sia stato reiteratamente bocciato agli esami europei per la eccessiva prolissità dei suoi tempi: della nostra giustizia malata, insomma, si è accorta anche l’Europa, per i tempi biblici dei procedimenti soprattutto, evidenziandone la crisi strutturale di fondo. Se ne deduce la grandissima penalizzazione per i cittadini, che spesso quando vanno a fare una denuncia si sentono rispondere che è tempo perso: di fronte a questa impossibilità di ottenere sentenze tempestive in patria, in special modo nelle cause civili, sono in molti a cercare soddisfazione presso le Istituzioni Europee.

I numeri sul Paese della giustizia è solito darli, puntualmente ogni anno, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione all’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, ed in merito alla durata media dei processi le cifre sono a dir poco sconfortanti. A chi è chiamato ad un rendiconto sull'amministrazione giudiziaria, infatti, si presenta una situazione complessiva caratterizzata essenzialmente dal forte divario di tempo che separa la domanda dalla risposta giurisdizionale: in non pochi casi questa giunge con tale ritardo che nel ramo civile non risponde più all'interesse originario delle parti, mentre nel ramo penale porta alla prescrizione del reato, vanificando così la potestà punitiva dello Stato. Nell'uno e nell'altro caso espone il Governo italiano, per la disfunzione del servizio, alle frequenti condanne della Corte europea: in uno scenario, già dominato dall'incertezza sul piano sociale e legislativo, sarebbe auspicabile immaginare che tutto si plachi nel versante giudiziario laddove, al contrario, il quadro si complica perché è proprio qui che ogni contraddizione è destinata ad acuirsi in prolungate attese.

Ma come rendere costruttivi questi reiterati provvedimenti della Corte nei confronti dei giudizi di casa nostra e il difficoltoso rapporto esistente tra il sistema procedurale italiano e la Convenzione europea per i diritti umani? Come far tesoro delle raccomandazioni continentali per migliorare la condizione del nostro apparato giudiziario, facendo sì che dei moniti europei non resti solo la sconsolata constatazione di una crisi apparentemente senza rimedi?

Si sprecano le proposte, in primo luogo del governo, che dovrebbe essere – assieme al Parlamento – il medico naturale: ma il guaio è che se da anni (o da decenni) le relazioni del Procuratore Generale sono un monotono lamento e se da anni (o da decenni) qualunque cittadino sa quando mette piede in un tribunale ma non sa quando ne potrà uscire, da anni (o da decenni) governi e Parlamenti annunciano cure e soluzioni per invertire la rotta, mentre la situazione peggiora sempre più. Gli interventi dovrebbero servire ad abbreviare i tempi del processo, anche perché tanto più la giustizia è lenta, tanto meno la pena ha valore deterrente e minore è la sicurezza dei cittadini: in questa situazione in cui la giudizio civile è in coma e quello penale ordinario è bloccato, ciò che si crede necessario è modificare dunque l’iter dei procedimenti e contemporaneamente garantire la certezza dell’esecuzione della condanna definitiva.

I rimedi, tra riforme già sperimentate e vitalità progettuale, possono essere molteplici, alcuni già sperimentati, altri tutt’ora in fase di discussione: interessanti novità degli ultimi anni sono certamente le figure del Giudice di pace e del "Giudice unico" di primo grado, inedito ma ormai collaudato da oltre tre anni il primo, nato dalla fusione di due antichi uffici (pretura e tribunale) il secondo. V'è da dire che, in positivo, determinante è stato l'apporto del Giudice di pace, che ha assorbito una quota del contenzioso ed ha anche propiziato una quota di domanda giudiziaria in precedenza inespressa e senza sbocchi: tuttavia il suo apporto, dal principio in attivo perché senza carico di partenza, comincia ora ad allinearsi ai tratti negativi del sistema ed a mostrare un peggioramento anche del dato concernente la "durata media" della controversia. Ma poiché il numero dei procedimenti esauriti sfiora il 90% di quelli sopravvenuti, non si può non trarre un giudizio positivo sull'istituto, unitamente all'auspicio di un impegno ancor maggiore. Inoltre la fiducia che i Giudici di pace hanno acquisito nell'esercizio della giurisdizione civile rassicura ed induce ad assecondare il progetto, da alcuni formulato e in aderenza del resto a un già enunciato programma, di estendere quanto prima a tale organo la competenza in materia penale, limitata naturalmente a reati di minore offensività sociale, in modo da fruire del conseguente effetto deflattivo anche in tale ramo della giurisdizione. Queste misure, se tempestivamente attuate in coerenza con la riforma del Giudice unico di primo grado, vista come "l'evento istituzionale cui si assegna la capacità di rendere efficiente la struttura della giustizia" (La Torre), varrebbero a propiziare un effettivo recupero di efficienza dell'amministrazione della giustizia.

Un altra modifica che si ritiene necessaria al fine di accorciare la durata dei procedimenti è la necessità di limitare i ricorsi in Cassazione in modo da anticipare la definitività della sentenza, avendo tali ricorsi spesso finalità unicamente dilatatoria o miranti alla prescrizione: si sostiene in sostanza la necessità di un maggiore rigore nei giudizi di legittimità eliminando quegli escamotage che di fatto consentono troppo spesso di trasformare la Corte Suprema in un vero e proprio terzo grado di giudizio sul merito, anziché giudice della legittimità. La Cassazione dovrebbe tornare ad occuparsi di vizi di forma, non più entrando nel merito dei processi, permettendo ad un numero minore di casi di giungere fino ad essa e così avere due soli gradi di giudizio (e molte sentenze definitive dopo il giudizio di appello) e un terzo per vizi di legittimità.

In realtà i ruolo da attribuire alla Cassazione sembra un falso problema: certo non significa che non si debba fare qualcosa per accelerare i processi, ma forse si tratta di dover unicamente applicare la legge preesistente. Ricordiamo infatti che, ai sensi dell’art. 65 Ord. giud., "La Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni": una funzione dunque, di suprema garanzia di legittimità, autorevolmente confermata dall'art. 111 della Costituzione e dal codice, che prevede l'inammissibilità di un ricorso quando il procuratore generale ritenga che i motivi di impugnazione siano di merito. Se l'incremento vertiginoso del contenzioso comporta uno esagerato sforzo produttivo avente caratteristiche di enormità per qualsiasi ufficio giudiziario, certamente una anomalia per una Corte Suprema, ed assicurare in un simile contesto "l'uniforme interpretazione della legge" sembra impresa quasi disperata, non dimentichiamo però che i ricorsi in Cassazione sono legati alla possibilità concreta di limitare gli errori giudiziari. In sostanza non si ritiene unanimemente necessario regolamentare ex novo la funzione della Corte mediante leggi speciali: di leggi ordinarie ce ne sono già troppe ed è bene cercare di applicarle con rigore, ma soprattutto con efficienza ed efficacia.

Un’altra possibilità viene vista nel limitare il giudizio di appello alla sola dichiarazione di condanna o di assoluzione così che se si conferma la condanna non si possa ritoccare la pena stabilita in primo grado: in questo modo verrebbero a cadere tutti quegli appelli presentati col solo obiettivo di far ridurre la pena.

Le incisive riforme in via di attuazione, che esigono per la loro riuscita la forte coesione di plurimi impegni, richiamano inoltre il tema dell’organico a disposizione della giustizia. Va da sé che, quanto più aumentano i compiti - fermo restando la disponibilità di personale - tanto più aumenta il carico dell'arretrato e tanto più remota diventa la speranza di smaltirlo, con l'aggravante che, dovendosi spartire l'impegno fra il vecchio e il nuovo, si ottiene il risultato di complicare il problema senza risolverlo. Le cause di tali disfunzioni sono generalmente ravvisate in una serie di carenze di strutture, strumenti normativi e organico: si tratta di fronteggiare con nuove risorse umane il dissesto, altrimenti irreparabile, della giustizia, senza in ogni caso lasciarsi prendere dall’entusiastica idea che confidando su un organigramma completo la pendenza sarà smaltita in tempi relativamente brevi. Certo deve essere questa la speranza, facendo prevalere l'ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione, fondata però su intensi sforzi di rinnovamento.

I rimedi o presunti tali qui ricordati non sono che pochi esempi di quelli inseriti nei provvedimenti e nelle proposte di riforma e risanamento della giustizia: possiamo in ogni caso tentare di giungere ad una conclusione. Con le riforme annunciate, l’ingresso in tribunale dovrebbe diventare un’eccezione, mentre la gran parte dei processi andrebbe definita con i riti abbreviati ed alternativi: visti però i pochi mezzi e uomini a disposizione, i tempi sono talmente lunghi che se non si cambia strada arriveranno prima, almeno per quanto riguarda la giustizia penale, le prescrizioni dei reati che le eventuali condanne. Se si vogliono ridurre i tempi dei processi e garantire così anche la certezza dell’esecuzione della sentenza, ci vogliono processi brevi e pene reali, anche attraverso l’introduzione del rito direttissimo per la cosiddetta “microcriminalità”.

Se la situazione della giustizia nostrana non può aspirare a particolari trofei celebrativi, sembra in ogni caso che, dopo un periodo di stagnante rassegnazione, l'amministrazione giudiziaria stia vivendo una stagione nuova, costituita da propositi di rinnovamento. A condizione che si trovino i difficili quanto necessari accordi, queste riforme potranno migliorare la situazione ma difficilmente una simile operazione chirurgica basterà a guarire rapidamente il malato: i cittadini intanto continueranno ad aspettare sentenze che non arrivano, altri ricorsi contro l’Italia affolleranno i tribunali internazionali, e fra tante soluzioni annunciate e quasi mai effettive, all’inaugurazione del prossimo anno giudiziario il procuratore generale della Cassazione leggerà le nuove cifre dell’infinita emergenza. Il nuovo ma antichissimo feticcio del farsi giustizia da sé, senza le lungaggini dei tribunali potrebbe farsi sempre più strada ed una sempre più diffusa propensione alla illegalità sostituire fatalmente le lunge attese.

 

Walter Giacardi