inserito in Diritto&Diritti nel giugno 2003

I criteri di attribuzione della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato

di Salvatore Dimartino

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L’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della responsabilità diretta degli enti ad opera del D. Lvo 231/2000 è stata accolta con condivisibile apprezzamento da numerosi commentatori[1], che non hanno esitato a parlare di “ … svolta che non può non definirsi epocale: l’<<archeologico >> e << costoso >> principio societas delinquere non potest è stato definitivamente relegato, … , tra i << ferri vecchi >> del diritto penale “[2].

 

Essa risponde alla duplice esigenza di dare attuazione ad impegni assunti in ambito internazionale[3], nonché di reprimere quella che è ormai divenuta una pericolosa manifestazione di reato costituita dall’illegalità d’impresa in un contesto contrassegnato “ … da un incremento della criminalità dei colletti bianchi che tende a sopravanzare quella individuale, attraverso forme che trascendono le motivazioni dei singoli per esprimere autentiche scelte dell’ente, … dallo sviluppo della criminalità del profitto non di rado collegata alla criminalità organizzata …, dall’incedere di forme di illiceità tipiche della società del rischio ( … ) espressione della tendenza alla modernizzazione del diritto penale, in cui gli illeciti si muovono in direzione di beni giuridici sovraindividuali ed esternano modalità di aggressione << complesse >>, in cui, sul versante del soggetto attivo, il reato è riconducibile a macro strutture organizzative e, sul versante del soggetto passivo, si staglia come illecito a << vittimizzazione di massa >> “[4].

 

Nonostante il D. Lvo 231/2000 si sforzi sin dal suo titolo di definire come “ amministrativa “ la responsabilità così introdotta per le persone giuridiche, le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica a norma dell’art. 11 della legge 29 settembre 2000 n. 300, e così pure la Relazione Ministeriale, nell’intento di giustificare il superamento delle obiezioni alla responsabilità penale delle persone giuridiche derivanti dall’art. 27 Cost.[5], parli di responsabilità amministrativa “ conseguente da reato “ e perciò solo “ legata alle garanzie del processo penale “ che costituirebbe una sorta di “ … tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia “, nessuno tra i vari commentatori ha avuto dubbi sulla reale natura di “ … quest’istituto che, nella sua struttura e nella sua funzione, di amministrativo presenta solo il nome, apparendo, con una probabilità che rasenta la certezza, un mascheramento di quella responsabilità penale della persona giuridica di cui da anni si predica la necessità e/o l’opportunità di una valorizzazione anche nel sistema penale italiano “[6].

 

Non si tratta di una questione meramente formale o terminologica, ma che rileva, com’è facilmente intuibile, oltre che sotto il profilo dell’inquadramento generale dell’istituto[7], anche sotto il profilo strettamente strutturale.

 

Ed invero, già solo facendo richiamo all’art. 1, c. 1 del decreto in commento che “ … disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato “, si comprende come il legislatore abbia voluto sanzionare l’ente per una responsabilità diretta ed autonoma derivante dal fatto-reato commesso dai suoi dirigenti e/o dipendenti.

 

Sebbene tale formula possa, a prima vista far pensare ad una separazione tra il fatto-reato ( commesso dai soggetti di cui all’art. 5 ) e l’illecito amministrativo ( di cui è responsabile l’ente ), occorre subito precisare che il fatto storico ( generatore della responsabilità ) è unico e rimane lo stesso. Esso tuttavia avrà una duplice qualificazione giuridica: “ … fatto di reato per le persone fisiche che lo hanno messo in opera e illecito amministrativo per le soggettività collettive cui si applica la responsabilità amministrativa “[8].

 

Un ulteriore aspetto di carattere generale che appare importante rilevare, è quello relativo alla nozione di reato utilizzata dal legislatore.

 

Secondo quanto dispone l’art. 8, lett. a) la responsabilità dell’ente sussiste anche quando “ l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile “; appare evidente come, il legislatore, per esigenze di prevenzione generale, abbia ritenuto di dover sganciare la responsabilità dell’ente dal profilo di colpevolezza del reato presupposto, che perciò viene inteso in senso diverso da quello in uso nel diritto penale come fatto tipico, antigiuridico e colpevole[9].

 

Per usare le parole della Relazione ministeriale, “ il cuore della parte generale del nuovo sistema è rappresentato dagli artt. 5 e 6 dello schema “, che, unitamente agli artt. 7 e 8 definiscono i criteri oggettivi e soggettivi di attribuzione della responsabilità penale degli enti diretta ed autonoma che – come già detto – prescinde dall’accertamento della responsabilità di una persona fisica e che si fonda su presupposti specifici dell’organizzazione dell’ente[10].

 

La Relazione ministeriale, assegna ai criteri di imputazione non solo un ruolo di filtro della responsabilità , ma anche di “ insostituibile funzione preventiva “  che mira a superare l’attribuzione della responsabilità secondo i canoni della responsabilità oggettiva ( versari in re illicita ) e che si traduce in un disincentivo all’osservanza di cautele doverose ( che indurrebbero a far ritenere le sanzioni quasi un costo necessario dell’impresa ), in quanto “ ancorare il rimprovero dell’ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standard doverosi, significa motivarlo all’osservanza degli stessi, e quindi a prevenire la commissione di reati da parte delle persone fisiche che vi fanno capo “. 

 

L’art. 5, c. 1 dispone che l’ente[11] “ è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio “.

 

La formula utilizzata dal legislatore delegato riproduce pedissequamente quella utilizzata dal legislatore delegante ( art. 11, lett. e L. 300/ 2000 ).

 

La differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che l’interesse alla commissione del reato deve sussistere ( in chiave soggettiva ) ex ante, mentre il vantaggio può sussistere ( in chiave oggettiva ) anche ex post.

 

La norma deve essere letta in relazione al 2° comma, secondo cui “ L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi “.

Non si tratta di una mera ripetizione, in negativo, di quanto già detto al comma 1, ma l’esistenza – in chiave psicologica – di “ … un collegamento rilevante tra individuo e persona giuridica consente infatti di identificare l’organizzazione come assolutamente protagonista di tutte le vicende che caratterizzano la vita sociale ed economica dell’impresa e quindi come fonte di rischio da reato “[12]; sicché laddove risulti accertato che l’autore del reato abbia agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi, si spezza il rapporto di immedesimazione organica e viene meno l’attribuibilità del fatto-reato all’ente.

 

Condivisibile appare la tesi[13] secondo cui l’ “ interesse esclusivo di terzi “ non sia interpretato in modo restrittivo escludendo che vi ricada l’interesse di gruppo societario, alla luce anche della nozione di gruppo societario contenuto nella recente riforma contenuta nel nuovo testo dell’art. 2497 cc.

 

Coerentemente con quanto sopra detto in materia di immedesimazione organica, non è invece richiesto, che il reato sia stato commesso nell’esclusivo interesse dell’ente.

L’art. 12, c. 1 lett. a si limita, infatti, a prevedere una semplice attenuante per il caso in cui “ l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo “.

 

Sul piano soggettivo, le condotte cui l’art. 5 assegna rilevanza, sono quelle delle persone: “ che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; e quelle delle “ persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti “ apicali.

 

L’appartenenza dell’autore del reato all’una o all’altra categoria, è determinante, ai sensi degli art. 6 e 7, ai fini della scelta dei criteri soggettivi di imputazione applicabili al caso concreto che, in relazione alla diversa posizione nell’organizzazione dell’ente, sono necessariamente diversificati.

 

La norma prende in considerazione i soggetti collocati ai vertici dell’organizzazione dell’ente ( legali rappresentanti, amministratori e direttori generali[14] ), stante l’eterogeneità degli enti e delle molteplici forme di organizzazione, ha evitato di procedere con elencazioni tassative, preferendo piuttosto fare ricorso ad una formula elastica caratterizzata per il suo contenuto oggettivo-funzionale, e ciò tanto nel caso di investitura formale, quanto nel caso di esercizio di fatto di dette funzioni apicali.

 

E’ inoltre previsto un espresso richiamo anche ai soggetti apicali delle “ unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale “ ( i cd. direttori di stabilimento[15] ); ciò viene giustificato nella Relazione ministeriale in relazione ad un duplice ordine di considerazioni: 1) di natura empirica, costituite dall’elevato grado di autonomia gestionale di questi soggetti, che talvolta, sono pure sottratti al controllo della sede centrale; 2)  di natura sistematica, in relazione al riconoscimento di tale figura, già contenuto nell’art. 2 lett.b del D. Lvo 626/94.

 

La norma infine - in chiave di chiusura antielusiva - fa riferimento alla nozione di amministratore di fatto, ovvero di colui che, pur sprovvisto di un valido titolo, gestisca e/o concorra a gestire la società esercitando poteri di fatto corrispondenti a quelli degli amministratori di diritto, o del socio tiranno che, essendo in grado di imporre il compimento di determinate operazioni è in grado di determinare la politica d’impresa.

 

In questo caso, occorrerà che in capo all’amministratore di fatto sussistano congiuntamente poteri di gestione e controllo.

 

L’esercizio cumulativo e non alternativo dei poteri di controllo e gestione, esclude, dal novero dei soggetti apicali i cui reati possono essere imputati all’ente, i sindaci, che svolgono funzioni di mero controllo ma non anche di gestione, ed i cui atti non impegnano all’esterno la società neanche in via di fatto.

 

            Nel caso dei soggetti apicali, il collegamento della condotta illecita con l’organizzazione è disciplinato, in chiave psicologica, dall’art. 6 del D. Lvo 231/2000[16].

 

Tenuto infatti conto del fatto che “ … nel caso di reato commesso da un vertice, il requisito << soggettivo >> di responsabilità dell’ente sia soddisfatto, dal momento che il vertice esprime e rappresenta la politica dell’ente … dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità, e ciò provando la sussistenza di una serie di requisiti tra loro concorrenti “[17].

 

Il legislatore cioè piuttosto che sancire un generico dovere di vigilanza e di controllo dell’ente - in relazione al diverso contenuto della colpa di organizzazione[18] specifico per il fatto dei soggetti apicali e dei soggetti subordinati – ha “ … preferito riempire tale dovere di specifici contenuti “ consistenti nella “ adozione di modelli comportamentali specificamente calibrati sul rischio-reato, e cioè volti ad impedire, attraverso al fissazione di regole di condotta, la commissione di determinati reati “[19].

L’ente andrà perciò esente da responsabilità se proverà che: “ a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b) “.

 

L’altra ipotesi di responsabilità dell’ente – disciplinata dall’art. 7 - è costituita dal caso in cui il reato presupposto sia commesso “ da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a) “, ciò in quanto “ … una diversa opzione avrebbe significato ignorare la crescente complessità delle realtà economiche disciplinate e la conseguente frammentazione delle relative fondamenta operative “[20].

La soluzione adottata è informata allo schema tipico della responsabilità colposa nel diritto penale. occorrerà infatti che  la commissione del reato sia stata resa possibile dall'inosservanza da parte dell’ente degli obblighi di direzione o vigilanza.

Occorrerà, in questo caso, che sia la pubblica accusa a provare la sussistenza del nesso eziologico tra l’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza – non del singolo dirigente ma dell’organizzazione nella protezione e prevenzione del rischio di reati previsti dal decreto - e la condotta delittuosa del soggetto sottoposto[21].

In ogni caso, è esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Com’è evidente, non si richiede che il modello sia in grado di prevenire ogni possibile realizzazione di fattispecie di reato, ma che – secondo la tipologia organizzativa, strutturale e dimensionale dell’ente – questi sia in grado di ridurre possibili fonti di rischio nella commissione di reati, e che sia perciò costantemente aggiornato a seconda dei mutamenti che intervengono nell’organizzazione dell’ente, e che preveda opportune sanzioni disciplinari in caso di sua inosservanza.

Vale anche in questo caso l’esonero di responsabilità dell’ente per il caso in cui l’autore del reato abbia agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi, come previsto dall’art. 5, c. 2 del decreto. Anche in questo caso occorrerà, infine, il collegamento oggettivo costituito dall’essere stato commesso il reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

La previsione di modelli organizzativi – di larga applicazione nell’esperienza giuridica americana – non è una novità assoluta nel nostro ordinamento giuridico, essendo possibile rinvenire un precedente in tal senso, nel D. Lvo 626/94 in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Sotto il profilo del contenuto, il modello organizzativo costituisce un vero e proprio codice di comportamento cui gli appartenenti all’ente dovranno informare il proprio comportamento e che codifica una serie di regole cautelari la cui violazione si tradurrà in colpa specifica dell’ente.

Nel tentativo di perseguire l’obiettivo della minimizzazione del rischio da reato, il modello organizzativo dovrà: “ a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati (allocazione del rischio ); b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire (procedimentalizzazione della formazione e dell’attuazione delle decisioni dell’ente ); c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati ( regolamentazione dei flussi di denaro ) “.

In favore dell’organo di controllo interno[22], inoltre, il modello dovrà pure prevedere un obbligo di informazione nei confronti dei vertici dell'organizzazione in merito all'osservanza dei modelli, introdurre un sistema disciplinare nei confronti dei vertici dell’organizzazione idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello e/o degli obblighi di informazione.

In ogni caso, l’ente dovrà dimostrare che il sopracitato organo di controllo, abbia esercitato effettivamente il suddetto potere di controllo, in quanto il reato che potrà non essere imputato all’ente sarà solo quello commesso in fraudolenta elusione della vigilanza dell’organo di controllo.

Il decreto pone in capo all’ente un onere di procedimentalizzazione che, previa individuazione delle possibili aree di rischio, investe le procedure di formazione ed attuazione della volontà dell’ente, della gestione delle sue risorse e di circolazione delle informazioni in favore dell’organismo di controllo, a tutela del quale richiede siano espressamente previste idonee misure sanzionatorie.

Il legislatore s’è poi preoccupato, di evitare cristallizzare i modelli organizzativi prevedendo che essi debbano “ … calibrarsi non soltanto sul tipo di reato, ma anche sulla natura e sulle caratteristiche dell’ente, sulle sue dimensioni e sulle peculiarità dell’attività svolta “, per questa ragione l’art. 3 si limita a prevedere che “ I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati, garantendo le esigenze di cui al comma 2, sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati “, che potranno costituire un valido supporto per il giudice per la valutazione dell’idoneità dei singoli programmi.

Lo scopo della norma è quello di “ … promuovere già dall’interno delle categorie interessate il rispetto della legge, favorendo in tal modo una collaborazione nella lotta contro la criminalità del profitto “, fermo restando che il giudice potrà sempre valutare la congruità del comportamento rispetto ai parametri di cui al comma 2.

L’art. 6, c. 4 prevede inoltre che negli enti di piccole dimensioni il compito di vigilanza sul funzionamento e l’osservanza  del modello organizzativo può essere svolti direttamente dall'organo dirigente.

E’ importante notare come l’ultimo comma dell’art. 6 preveda che in ogni caso sia disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente, a differenza dell’art. 5, c. 2 che nulla dispone sul punto[23].

In generale occorre osservare come l’art. 6 ponga non pochi problemi interpretativi sotto diversi aspetti. In particolare ci si è interrogati sulla struttura dell’organismo di controllo ( da chi sia nominato, da chi sia composto, a chi riferisca dell’attività svolta, … ) sulle possibili relazioni con lo statuto o con altri organismi di controllo interno ( collegio sindacale, società esterna di revisione, comitato per il controllo interno, società esterna per la certificazione della qualità… ), sul grado di autonomia dei poteri di iniziativa, sui limiti della competenza ( della singola società o dell’eventuale intero gruppo )  su eventuali limiti derivanti da ragioni di riservatezza dei procedimenti decisionali all’interno dell’ente, sulle conseguenze che la diffusione all’esterno di notizie riservate potrebbe produrre sull’immagine dell’ente[24].

Qualche utile indicazione in tal senso è ricavabile dalle “ Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D. Lvo 231/2001 “ predisposte da Confindustria.

In particolare si è osservato che l’iniziativa per l’istituzione dell’organismo di controllo, spetti in primo luogo agli amministratori ( che così potranno andare esenti da responsabilità ex art. 2392 cc ), ovvero ai soci ( che così potranno evitare le ricadute economiche derivanti dall’applicazione di eventuali sanzioni economiche ). 

Partendo dall’esame delle funzioni cui è chiamato l’organismo di vigilanza ex artt. 6 e 7 ( vigilanza sull’effettività del modello, disamina della sua adeguatezza, cura dell’aggiornamento … ) si è infatti ritenuto che da esso siano esclusi i componenti del CdA, anche senza deleghe operative.

Allo stesso modo si è escluso che tali compiti possano essere correttamente affidati al collegio sindacale ( che oltretutto non esiste in tutte le società ) e che la cui azione non potrebbe avere quel carattere di “ continuatività “ che il legislatore sembra richiedere.

La mancanza di adeguata qualificazione professionale, e soprattutto di indipendenza ed autonomia di giudizio, inducono a far ritenere inidonei al ruolo le funzioni organizzative – amministrative – legali[25].

Viene invece proposto il ricorso alle strutture aziendali addette al controllo interno. Si tratta delle strutture di controllo interno, predisposte in osservanza alla recente normativa in materia di controlli interni sulle società quotate ( art. 150 TUIF ), di vigilanza nel settore bancario e finanziario.

Torino, 29.05.2002                                                             Salvatore DIMARTINO


Note:

[1] G. DE SIMONE, in AA.VV. “ Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato “ a cura di G. GARUTI, CEDAM 2002.; E. MUSCO “ Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive “, in Diritto e Giustizia n. 23/2001; S. GENNAI – A. TRAVERSI “ La responsabilità degli enti “ Milano 2001.

[2] G. DE SIMONE, in AA.VV. “ Responsabilità degli enti … “ cit.

[3] Si tratta del recepimento della Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità europee del 26 luglio 1995, della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee del 26 maggio 1997, e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni internazionali del 17 settembre 1997.

[4] C. PERGALLINI, “ Sistema sanzionatorio e reati previsti dal codice penale “, in Dir. Pen. e Proc. n. 11/2001 .

[5] L’inapplicabilità dei precetti penali alle persone giuridiche, è stata sempre fondata sulla natura astratta di questi soggetti ( fiktiontheorie ), che riceverebbero riconoscimento da parte dell’ordinamento solo per scopi leciti, riconoscimento giuridico che cesserebbe nel momento stesso in cui venga commesso il reato. Il carattere astratto delle persone giuridiche ( risalente a F.C. von SAVIGNY, “ Sistema del diritto romano attuale “ ) contrasterebbe con l’antropomorfismo del diritto penale, e perciò ne comporterebbe l’inapplicabilità. Il carattere personale della responsabilità penale contenuto nell’art. 27 Cost. ( anche in chiave minimalista di divieto di responsabilità per fatto altrui ) contrasterebbe ( tanto rispetto alla persona giuridica in sé, quanto rispetto ai soci innocenti ) con un’autonoma figura di responsabilità penale della persona giuridica. Contrasto che risulterebbe con maggiore evidenza in caso di lettura “ psicologica soggettiva “ dell’art. 27 Cost. come responsabilità per fatto proprio consapevole.   

[6] E. MUSCO, “ Le imprese a scuola di responsabilità … “ cit.; idem C. E. PALIERO, “ Il d.lgs 8 giugno 2001 n. 231: da ora in poi la societas delinquere ( et puniri ) potest “, in Corr. Giur. N. 7/2001 secondo cui il carattere penale della responsabilità delle persone giuridiche si ricaverebbe, oltre che dalla connessione diretta e non solidale con la commissione di reati, dalla cognizione di una tale forma di responsabilità affidata al giudice penale, e dall’autonomia di tale forma di responsabilità rispetto a quella individuale ricavabile dall’art. 8 del decreto 231/2001; di parere opposto è invece I. CARACCIOLI, “ Una sfida diabolica per i magistrati “ in Il Sole 24 ore, 3 maggio 2001, secondo cui si tratterebbe di una responsabilità amministrativa ibrida “ … valutata dal giudice penale in un processo a carico di un altro soggetto “, che potrebbe definirsi penale solo “ … nel caso in cui un reato non fosse addebitabile alla colpa di un singolo dirigente, bensì proprio a una responsabilità << collettiva >> dell’ente in quanto tale “.

[7] Ciò che consente di ritenere superabili le obiezioni derivanti dall’art. 27 Cost. ( illustrate sub nota 5 ) in chiave  di immedesimazione organica della persona fisica autore del reato nella persona giuridica, in quanto “ … se gli effetti civili degli atti compiuti direttamente dall’organo si imputano direttamente alla società, non si vede perché altrettanto non possa accadere le per conseguenze del reato, siano esse penali o – come nel caso del decreto legislativo – amministrative “ ( così la Relazione ministeriale ).

[8] E. MUSCO, “ Le imprese a scuola di responsabilità … “, cit.

[9] Anche se la Relazione ministeriale ritenga comunque di sottolineare che “ in entrambi i casi ci si trova di fronte ad un reato completo di tutti i suoi elementi ( oggettivi e soggettivi ) e giudizialmente accertato, sebbene il reo, per l’una o per l’altra ragione, non risulti punibile “.

[10] Il richiamo ai presupposti specifici dell’organizzazione dell’ente, consente l’attribuzione “ psicologica “ del fatto-reato all’ente, così superandosi le obiezioni derivanti dall’at. 27 Cost.; anche se qualche autore ( C. de MAGLIE, “ Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità “, in Dir. Pen. E Proc. n. 11/2001 ) continua a ritenere possibile solo un superamento delle obiezioni fondate sull’art. 27 Cost. solo in chiave minimalista ( di divieto di responsabilità per fatto altrui ).  

[11] L’ambito soggettivo dei destinatari della L. 231/2001 è definito dall’art. 1, c. 2 ( in positivo con riferimento agli enti forniti di personalità giuridica e società ed associazioni anche prive di personalità giuridica ) e dal c. 3 ( in negativo con esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici, nonché degli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. Dubbia è poi l’applicabilità della disciplina a quegli enti pubblici ( ACI, CRI, … ) non economici e che non esercitano pubblici poteri, ovvero a carattere associativo ( Ordini o Collegi professionali ). 

[12] C. de MAGLIE “ Principi generali e criteri di attribuzione “, cit.

[13] M. GUERNELLI, “ La responsabilità delle persone giuridiche nel diritto penale amministrativo interno dopo il d. legisl. 8 giugno 2001 n. 231 “, in Attualità e Saggi, pagg. 281.

[14] Pur non rientrando i direttori generali nel novero degli organi della società, in considerazione dell’ampiezza dei poteri gestionali loro conferiti ne giustifica il loro inserimento tra i soggetti posti in posizione apicale.

[15] Laddove poi l’unità organizzativa fosse priva di autonomia gestionale e/o finanziaria, l’attività illecita del soggetto ad essa preposto sarebbe comunque imputabile all’ente ai sensi della lett. b.

[16] Il tenore della lett. e) dell’art. 11 della legge delega è tale da poter essere interpretato nel senso che la commissione di un reato da parte di un soggetto apicale non richieda alcun ulteriore presupposto perché si determini la responsabilità dell’ente. La Relazione ministeriale spiega come “ tuttavia, nell’equivocità del dato testuale ( la presenza di una virgola consente per contro di riferire il periodo altresì al caso in cui il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale ) sono state ritenute prevalenti le argomentazioni esposte in precedenza sulla necessità di costruire un sistema quanto più conforme ai principi costituzionali ed informato alla prevenzione “.

[17] Così la Relazione ministeriale.

[18] Obbligo di differenziazione derivante dal contenuto stesso delle Convenzioni internazionali adottande.

[19] Così la Relazione ministeriale.

[20] Così la Relazione ministeriale.

[21] Ciò che, secondo G. DE SIMONE “ La responsabilità degli enti … “ pag. 111 cit., potrebbe rivelarsi particolarmente difficoltoso e che – secondo un’impostazione di chiara ispirazione alle sentences guidelines nordamericane – sarebbe stato opportuno sostituire con una diversa formulazione che avesse previsto la responsabilità dell’ente per l’inosservanza dei doveri di diligenza e vigilanza anche solo nel caso di aumento del rischio di commissione del reato; analoghe perplessità sul punto esprime M. GUERNELLI in “ La responsabilità delle persone giuridiche … “ cit.  Occorre tuttavia segnalare come una tale preoccupazione sia stata presente nella mente del legislatore delegato, il quale ha precisato nella Relazione di aver voluto evitare che “ … il richiamo a generici standard di diligenza avrebbe rischiato di rivelarsi una vuota clausola di stile, inidonea ad indirizzare il giudice nell’accertamento dell’illecito amministrativo in capo all’ente … al punto di ( ndr ) spingerlo indiscriminatamente ad affermare la sua responsabilità attraverso il ricorso a << formulette pigre >>, fatalmente destinate a scivolare verso forme di iscrizione meramente oggettiva “.   

[22] Che in considerazione alla natura ed ai compiti affidati non consente di attribuire queste funzioni di controllo al Comitato previsto dal Codice Preda per le società quotate, che ha funzioni esclusivamente consultive e/o propositive.

[23] Com’è stato fatto osservare ( G. DE SIMONE, “ La responsabilità degli enti … “ pag. 102, cit. ) in questo caso, in assenza di un’esplicità previsione legislativa la confisca potrebbe essere disposta ex art. 19, c, 1 del decreto 231/2001 solo con la sentenza di condanna dell’ente.

[24] S. BARTOLOMUCCI, “ Prevenzione dei reati d’impresa e interesse dell’ente all’esenzione da responsabilità “, e E. MATTEI “ Modelli organizzativi e organismo di controllo some strumenti di prevenzione “, entrambi in Le monografie di Dir. Prat. Società n. 3/2002 pag. 55; G. DE SIMONE, “ La responsabilità degli enti … “ pag. 108, cit.; M. GUERNELLI in “ La responsabilità delle persone giuridiche … “ cit.; C. de MAGLIE “ Principi generali e criteri di attribuzione “, cit.; analoghe perplessità si rinvengono nelle Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo formulate da Confidustria.

[25] Sull’inidoneità ad assolvere a tali compiti da parte degli addetti agli uffici legali interni in quanto privi della necessaria autonomia, in effetti si potrebbe formulare qualche riserva in considerazione dei doveri deontologici che presiedono all’attività legale.