inserito in Diritto&Diritti nel settembre 2003

Il dolo "professionale". una (in)utile categoria?

Dr. Enrico Bruno

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Non è una novità che le conseguenze della teoria generale sul reato, detta appunto analitica, siano state e siano, ancor oggi, il proliferare delle molteplici classificazioni e sotto classificazioni dei vari elementi, alcune già impresse o desumibili dai vari articoli del codice penale ed altre leggi, altre costruite e sedimentate dalla dottrina e giurisprudenza nel tempo. Non c'è nemmeno da stupirsi che alcune categorie si siano rivelate utili, meno utili o addirittura dannose, come ad es., la categoria della c.d. colpa impropria, intorno alla quale torneremo a parlare.

Stupisce un poco quando è un illustre e razionale Professore a trattare, se non, addirittura, ad aver inventato, una nuova categoria del dolo modellata (a mio modesto parere) troppo ingenuamente, sulla falsariga della colpa professionale (o speciale): se, infatti, si apre il Manuale di diritto penale del Mantovani (Ferrando, ovviamente!), Ed. CEDAM 2001, a pag 327-328 si troverà la distinzione tra il dolo comune ed il dolo professionale, degna di "grande rilevanza pratica" (come scrive l'Autore) rispetto all'oggetto del dolo.

Il dolo speciale o professionale, sarebbe caratterizzato dalla volontà e rappresentazione del fatto materiale tipico, ovvero di quel fatto che "supererebbe la soglia del rischio consentito" (sempre utilizzando l'efficace terminologia dell'Autore): tanto per fare un esempio, il chirurgo, il pugile, l'automobilista che per uccidere l'odiato paziente, avversario, pedone, attui il suo intento non rispettando le regole della medicina, della boxe, e del codice stradale (le c.d. leges artis), compirebbe il fatto di reato in questione, nel ns. caso un omicidio, caratterizzato da tal tipo di dolo.

Altrimenti se attua l'intento nel pieno rispetto di dette regole andrà (giustamente) impunito poiché ciò costituirà null'altro che un fatto atipico e quindi irrilevante per il diritto penale, se non altro per il noto principio di non contraddizione in base al quale lo stesso ordinamento giuridico non può permettere un'attività (medica, sportivo-violenta, od altre pericolose ma utili) e nel contempo vietarla: può al massimo regolarla, stabilendo un tetto massimo di rischio non superabile. Da quanto e’ stato appena detto, si dovrebbe gia’ intuire come detto ragionamento abbia portato logicamente e naturalmente alla classificazione della colpa comune e di quella della colpa speciale (o professionale): la prima riguardando le attività comuni, che non presentano particolari tipologie di rischio, la seconda che si rivela indispensabile solo in presenza di attività rischiose ma autorizzate per la cui valutazione se ne deve tener conto (le quali, peraltro, in una società moderna, sempre più organizzata e tecnologica, sono in vertiginoso aumento).

 

Ma il parallelo colpa comune-dolo comune e colpa professionale-dolo professionale proprio non regge perché non ha alcuna ragion d'essere, visto che (come, del resto, lo stesso Autore afferma) in presenza  di un fatto atipico (o, se si preferisce, in assenza di un fatto tipico), come già accennato, il soggetto benché agisca con previsione e volontà non commette alcun fatto penalmente rilevante: insomma, al di sotto del rischio consentito non c'è dolo.

Non così è per la colpa in generale, infatti questa esiste ed è connotata diversamente, a seconda che riguardi le attività comuni, o quelle rischiose ma autorizzate: l’interprete, a seconda che si trovi o meno di fronte ad un caso di attivita’ autorizzata o meno, sulla base di tal presupposto dovra’ “scegliere “ il tipo di colpa con le connotazioni proprie da un punto di vista tecnico e strutturale

 

Non si capisce quindi quale rilevanza pratica possa avere la distinzione, categorizzata, dell'elemento psicologico del dolo, in comune e professionale, visto che il dolo c'è o non c'è solo ed in base ad fatto tipico e non storico: la presenza (o assenza) di attività rischiose non lo condizionano in alcun modo come invece avviene per la colpa.

 

Il dolo professionale rischia essenzialmente di creare confusione così come fece l'errata ed ormai rifiutata categoria della colpa impropria, da parte della moderna dottrina e giurisprudenza, (Artt. 47/1° - 55 e 59/4° c.p.) in cui proprio l'esempio paradigmatico, riguardante l'errore sul fatto dell'art. 47/1°, dell'automobilista che per sbadataggine, si impossessa di in un'auto parcheggiata vicino alla sua, scambiandola per la propria, mostra in pieno tale aberrazione: l'errata classificazione, infatti, nacque proprio dall'equivoco di considerare volontà in senso penalistico quella condotta determinata da errore sul fatto storico, ribaltando esattamente uno dei presupposti dell'errore di fatto, il quale esclude il dolo, non ne crea un tipo particolare, denominato, per di più, colpa "impropria"! 

 

Per evitare ogni sorta di confusione, del tipo sopra esposto, sarebbe opportuno ritornare alle "vecchie" e chiare conclusioni che traeva il citato Autore nella edizione precedente del Manuale ovvero, per l’esempio fatto, il medico, il pugile, l'automobilista risponderanno penalmente:

di un fatto doloso in presenza di volontà e previsione dell'evento se, e solo se, l'azione "penetrerà" la soglia del rischio giuridicamente consentito;

di un fatto colposo, a titolo di colpa professionale, se e nella misura in cui, pur non volendo il fatto, la condotta avrà superato il limite di detto rischio;

di un fatto colposo, a titolo di colpa comune, in presenza di attivita’ non professionale.

 

Un ulteriore argomento a sostegno della tesi dell'inutilità della categoria del dolo professionale può attingersi dalla tesi che sostiene che parte integrante del dolo deve essere la coscienza dell'offensività del fatto in senso giuridico e non morale, com'è ovvio. Va da sè che chi commette il fatto con volontà e previsione, commettendolo nel pieno rispetto delle regole dell'attività rischiosa, sa anche che sta commettendo un fatto esplicitamente autorizzato.

Ma, quand'anche si dovesse negare l'utilità della coscienza dell'offensività del fatto, sempre a sostegno della inutilità della categoria del dolo professionale, si potrebbe invocare l'indiscusso principio dell'art. 5 c.p. integrato dalla nota sentenza n°. 364 del 1988 della Corte Cost.

 

Unico fatto che, a prima vista, sembrerebbe avere una qualche rilevanza, sempre costruito sul "parallelo" con la colpa professionale, è dato dalla precisazione che anche colui che commette un fatto doloso la cui azione rientra in un'attività rischiosa ma autorizzata, è quella in base alla quale il soggetto non sarebbe tenuto ad abbandonarla, come dovrebbe fare nei casi di attività c.d. comune, ma "rientrare" entro i ranghi del consentito: ma anche in tal caso ci troveremmo in presenza di attività autorizzata a dolo ...azzerato! Insomma, è come se l'ordinamento giuridico “consigliasse” al medico, pugile, automobilista ecc.: "se vuoi uccidere l'odiato paziente, avversario, pedone, ecc. fallo pure, ma rispetta le regole dell'attività professonale che stai svolgendo", il che, in fondo, è tanto vero, anche se risibile, quanto inutile.

 

Per quanto sopra detto, ritengo che la categoria del dolo professionale (o speciale) sia uno degli esempi di come a volte Illustri professori, che sfiorano il genio riescano per amor di classificazione a guarnire con qualche imperfezione un manuale dalla chiarezza e rigorosità logica quasi ineccepibili.

Dr. Enrico Bruno