inserito in Diritto&Diritti nel dicembre 2002

L’equivalenza delle mansioni e la dequalificazione professionale

di Laura Nibi

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L’art. 2103 del codice civile nella sua originaria formulazione, stabiliva che il prestatore di lavoro dovesse essere addetto alle mansioni concordate al momento dell’assunzione, ma ammetteva che l’imprenditore, in assenza di diversa pattuizione, potesse, per soddisfare le sue esigenze, modificarne il contenuto purchè non ne derivasse un mutamento sostanziale della posizione del dipendente e senza pregiudizio della retribuzione da lui acquisita.

In caso di conflitto tra le esigenze dell’impresa e quelle di difesa del patrimonio professionale del lavoratore, le prime prevalevano sulle seconde, tenuto anche conto della situazione di accentuata debolezza in cui versava in quel periodo il lavoratore stesso, essendo esposto al potere di licenziamento ad nutum da parte del datore.

La norma è stata radicalmente cambiata dall’art.13 della legge n.300 del 1970, che, ispirandosi invece al criterio della rigorosa tutela garantistica del lavoratore in azienda, stabilisce che il datore ha la facoltà di modificare le mansioni assegnate al lavoratore nel rispetto di alcuni limiti inderogabili : quest’ultimo infatti, non può essere adibito a mansioni inferiori, ma soltanto a mansioni superiori ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione[1].

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale intorno al concetto di equivalenza delle mansioni è sempre di notevole attualità, sia per la complessità e la delicatezza dell’argomento, sia per i continui mutamenti delle concrete realtà aziendali che comportano un diverso atteggiarsi dei contrapposti interessi.

A questo proposito, dottrina e giurisprudenza sono ormai concordi nell’affermare che l’indagine sull’equivalenza deve essere svolta non solo in base ad un criterio formalistico come quello dell’inquadramento o del livello o di categoria, ma anche con riferimento al contenuto, alla natura e al modo di svolgimento della prestazione.[2]

Va sottolineato che negli anni novanta, parte della giurisprudenza, ponendosi in contrasto con la dottrina prevalente, aveva elaborato un concetto “statico” di professionalità, affermando che l’equivalenza è data laddove le nuove mansioni consentano la salvaguardia della specifica professionalità acquisita nello svolgimento di quelle pregresse, richiedendo a tal fine l’omogeneità tra le mansioni pregresse quelle successivamente assegnate, come se lo ius variandi fosse correttamente esercitato solo tra mansioni che appartengono alla stessa area professionale[3].

Solo negli ultimi tempi la giurisprudenza, anche alla luce di quanto evidenziato dalla prevalente dottrina,[4] si è evoluta su una concezione non più statica del concetto di equivalenza, bensì “dinamica”, ritenendo legittima anche l’assegnazione a mansioni non del tutto identiche alle precedenti, ma comunque rientranti nella specifica competenza tecnico professionale del lavoratore e che non comportino un pregiudizio alla carriera.

Recentemente la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale ai fini della valutazione della sussistenza di un corretto esercizio dello ius variandi da parte del datore “…..  il giudice deve stabilire se le mansioni effettivamente svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l’ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale, da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dello stesso acquisite e un conseguente impoverimento della sua professionalità.”[5]

Pertanto equivalenza non significa necessariamente identità di mansioni, quindi al dipendente può ben essere richiesto di utilizzare l’esperienza pregressa in funzioni diverse, purchè non si verifichi un sostanziale depauperamento del suo patrimonio professionale.

Dunque si dovrà negare la legittimità dello spostamento del lavoratore ad altre mansioni che richiedano un impegno di preparazione o anche di riqualificazione, che eccede il confine della normalità, così da esporlo a difficoltà ed oneri troppo pesanti o, al limite, al pericolo di pregiudicare, per carenze di competenza e di esperienza professionali, l’incolumità sua e dei compagni di lavoro, nonché la sicurezza del patrimonio aziendale.[6]

Laddove però tali oneri e difficoltà non esistano, il lavoratore potrebbe anche ricavare vantaggi dall’assegnazione a mansioni diverse, quali l’apertura di nuovi orizzonti di attività, nonché percorsi di carriera alternativi. 

Si sottolinea inoltre che l’art.2103 del codice civile finisce per essere violato anche quando il dipendente, pur non essendo assegnato a mansioni inferiori, sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto.[7]

Una recente sentenza della Cassazione[8] ha ritenuto sussistente il danno da demensionamento di un giornalista lasciato inattivo per circa dieci anni, sulla base della considerazione che “la professionalità cresce nell’esercizio costante della propria attività e nell’aggiornamento insito nella stessa e che nel caso di mancato esercizio, le capacità professionali ineluttabilmente si immiseriscono, con un danno certo anche se determinabile in via equitativa”.

Sotto altro profilo l’attribuzione di mansioni dequalificanti potrebbero integrare una fattispecie di mobbing. A questo proposito il Tribunale di Torino ha riconosciuto ad una dipendente il risarcimento del danno sia per la temporanea compromissione dell’integrità psicofisica, sia per la dequalificazione subita, poiché la stessa, non avendo accolto l’invito del proprio datore a rassegnare le dimissioni, ha visto assumere durante la sua malattia un’altra lavoratrice a tempo indeterminato e si è vista attribuire, al suo rientro, mansioni dequalificanti rispetto alle precedenti tali da integrare una fattispecie di mobbing.[9]

La Corte di Cassazione ha ribadito che qualora il dipendente ritenga di essere stato assegnato a mansioni non equivalenti, il giudice di merito dovrà articolare la sua indagine in varie direzioni verificando: l’eventuale violazione del livello retributivo raggiunto; le mansioni assegnate al lavoratore al momento dell’assunzione e quelle poi concretamente svolte; le nuove mansioni a lui affidate e la loro equivalenza con quelle precedentemente espletate, analizzate non solo in astratto rispetto all’inquadramento previsto dal CCNL, ma anche in concreto, in relazione alla competenza richiesta al lavoratore, al livello professionalità raggiunto e all’utilizzazione del patrimonio professionale acquisito.[10]

Pertanto nel caso in cui venga accertata l’esistenza di un comportamento contrario all’art.2103 del codice civile, il giudice di merito, oltre a sanzionare l’inadempimento dell’obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può emanare una pronuncia di condanna del datore stesso a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori o non equivalenti, affidando al lavoratore l’originario incarico o un altro di natura equivalente.[11]

Il lavoratore ha inoltre la possibilità di chiedere il risarcimento del danno ( anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione, o di cosiddetto danno biologico), ma in questo caso ne dovrà fornire la prova, presupposto indispensabile per una sua valutazione equitativa.[12]

Il danno infatti non è la conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo lesivo del diritto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica rivestita, per cui non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunci il danno fornirne la prova in base alla regola generale di cui all’art.2697 cod.civ.[13]

Modificando in parte il proprio orientamento di recente la giurisprudenza ha affermato che il demansionamento da luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore poichè, oltre a violare lo specifico divieto di cui all’art.2103 del codice civile, costituisce offesa alla dignità professionale del lavoratore intesa come esigenza di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo e quindi lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro.[14]

Il pregiudizio arrecato andrà ad incidere dunque sia sulla vita professionale che su quella di relazione dell’individuo. Ora, l’aver ritenuto da parte della Corte che il danno alla professionalità è direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore, in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dare luogo al risarcimento solo dove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale[15].

Possiamo dunque affermare che sia il danno alla personalità, inteso come libera esplicazione della personalità dell’individuo nel luogo di lavoro, sia quello alla professionalità, inteso come mancato incremento delle conoscenze professionali e mancato utilizzo delle capacità acquisite, siano intrinseche e consequenziali al demansionamento.

Per quanto attiene al danno biologico sarà il lavoratore a dover dimostrare l’esistenza di un nesso causale tra il comportamento del datore e il pregiudizio alla propria salute.[16]

Per concludere, va sottolineato che, negli ultimi anni, iniziano a registrarsi decisioni che attribuiscono al lavoratore dequalificato il diritto di abbandonare il posto di lavoro e di mettersi a disposizione del datore presso la propria abitazione, in attesa di essere chiamato a svolgere le mansioni precedenti o altre equivalenti.[17]

L’orientamento si fonda su una lettura evolutiva dell’art.1460 del codice civile e in questo senso il requisito essenziale della buona fede è individuato sia nella dichiarazione di disponibilità da parte del lavoratore allo svolgimento delle mansioni originarie o di altre equivalenti, sia in una reazione proporzionata alla gravità dell’inadempimento datoriale desumibile dal raffronto tra la prestazione rifiutata e quella precedentemente resa.


Note:

[1] La Cassazione con sentenza n.390 del 14 gennaio 1992, ha precisato che nell’ipotesi di legittimo mutamento delle mansioni, l’irriducibilità dell’originaria retribuzione riguarda solo le componenti normali di questa….. ma non anche gli emolumenti accessori che pur avendo carattere retributivo sono diretti a compensare un rischio particolare o un disagio ambientale o temporale, e possono quindi legittimamente venir meno allorché non sussistano più le circostanze estrinseche cui sono connesse.

[2] Si veda in questo senso Cass, Sez.lav., 10 aprile 1996, n.3340; Cass. 28 marzo 1995, n.3623; Cass. 17 luglio 1998, n.7040.

[3] Si veda Cass. 2 luglio 1992; Cass. 19 luglio 1990, n.7370; Cass. 6 febbraio 1988, n.1296.

[4] ICHINO, “ Interesse dell’impresa, progresso tecnologico e tutela della professionalità”; BIANCHI D’URSO, “La mobilità orizzontale e l’equivalenza delle mansioni”.

[5] Così Cass. 19 maggio 2001, n.6856.

[6] Si veda in questo senso SCOGNAMIGLIO, Diritto del Lavoro, 1999.

[7] Si veda in questo senso Cass. 4 ottobre 1995, n.10405, Cass. 13 agosto 1991, n.8835

[8] Cass. Sez.lav., 7 luglio 2001, n.9228.

[9] Trib Torino 11 dicembre 1999, in Foro It. 2000.

[10] In questo senso Cass. 17 marzo 1999, n.2428.

[11] In questo senso Cass. 27 aprile 1999, n.4221.

[12] Sulla configurabilità in seguito all’assegnazione a mansioni inferiori o non equivalenti, di danni, oltre che professionali, anche biologici, alla vita di relazione e all’integrità psico fisica, tutti risarcibili, si veda Tribunale di Treviso, 13 ottobre 2000;  Cass. 6 novembre 2000, n.14443; Cass 13 agosto 1991, n.8835, q.Riv., 1992, II, 954, con nota di FOCARETA, Sottrazione di mansioni e risarcimento del danno, che individua il fondamento normativo del diritto nell’art.2087;P.Milano 28 dicembre 1990, II, 388, con nota di PERA, Sul diritto del lavoratore a lavorare.

[13] Cass. 11 agosto 1998, n. 7905; Cass.4 febbraio 1997, n.1026; Cass.18 aprile 1996, n.3686.

[14] In questo senso Cass. 6 novembre 2000, n.14443.

[15] In questo senso si era espressa Cass. 11 agosto 1998, n.7905; 4 febbraio 1997, n,1026 e 13 agosto 1991, n.8835.

[16] La Cass. Sez.lav. con sentenza n.1205 del 29 gennaio 2001, ha affermati che lo stess da non lavoro per demansionamento può causare una sindrome depressiva. L’origine della malattia va accertata mediante consulenza medica, non può essere negata in astratto la possibilità di accertare un danno alla salute. Si veda inoltre Cass. 2 maggio 2000, n.5491.

[17] Cass. 27 aprile 1999, n.4221 ;Cass. 23 novembre 1995, n.12121.